Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
[LPLC va in vacanza dal 2 al 22 agosto. In questo periodo ripubblicheremo alcuni dei post apparsi nel corso del 2020. Questo articolo di Paolo Missiroli è uscito il 19 febbraio].
di Paolo Missiroli
Il libro di Manlio Iofrida Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet 2019) è l’esito di una ricerca che va avanti da molti anni e che consiste nel cercare, in alcuni filoni della filosofia e della cultura, elementi per pensare filosoficamente l’ecologia. Una ricerca che per ampiezza di interessi e prospettive è impossibile riassumere in poche righe. D’altra parte, che i riferimenti di Iofrida siano estremamente ampli e spazino dalla storia della filosofia a quella della psicologia, all’etnopsichiatria, dalla biologia alla storia, è cosa che chiunque sfogli le pagine del testo in oggetto può notare.
Non bisogna confondere però il grande numero di citazioni con una forma di erudizione fine a sé stessa o con un vuoto esibizionismo. È piuttosto, quella da cui nasce questo libro nella forma che ha assunto nella pubblicazione, l’esigenza di trovare una serie di strumenti per pensare filosoficamente l’ecologia e per pensare ecologicamente la filosofia. Questi strumenti vengono rinvenuti in tutta una serie di testi, anche non esplicitamente connessi tra loro (sebbene Iofrida sembri a volte lasciare intendere che sia possibile tracciare dei fili rossi: un qualche legame con una certa filosofia tedesca, ad esempio). Questo problema dell’ecologia, è bene evidenziarlo immediatamente, per Iofrida non è qualcosa che nasce dalla filosofia, ma che le arriva, per così dire, da fuori. Essa si impone oggi come problema non perché il ragionamento filosofico fosse scaduto, all’altezza degli ultimi anni, in contraddizione con sé stesso, cioè perché il concatenamento logico degli argomenti avesse perso di rigorosità e di consequenzialità. L’ecologia si manifesta invece come problema a livello storico-epocale e solo a partire da quel contesto è possibile ripensare alcuni problemi filosofici decisivi. Da questo modo di vedere la filosofia prende avvio il ragionamento dell’autore. Si tratta di una visione in cui è forte l’influenza, da un lato, di Merleau-Ponty e dall’altro della scuola storicista italiana, secondo cui essa (la filosofia) non è mai riducibile al suo sfondo storico ma in ogni caso nasce da esso e da esso trae ed elabora i propri problemi, nonché i suoi fallimenti. È per questo che Iofrida non può definire l’ecologia in prima battuta, ma può solo, necessariamente, fare emergere i suoi contorni (mai definiti compiutamente) nel corso dell’esposizione. Non si tratta di mancanza di chiarezza o dell’assenza di un metodo, quanto del risultato coerente di un modo di pensare la filosofia e i suoi problemi: parlare di “fondazione filosofica dell’ecologia” non ha il significato roboante di voler ridurre ad unum un problema come quello dell’ecologia, quanto quello di voler identificare qualcosa come la possibilità di un “pensiero ecologico” attraverso la lettura di una serie di testi e l’elaborazione di uno strumentario concettuale.
Nell’analisi di Iofrida, con la fine dei Trenta Gloriosi, culmine del paradigma produttivistico occidentale, si è cominciata a manifestare la difficoltà di un modello di vita, di consumo e di pensiero incapace di prendere in considerazione i temi del limite, della natura e dunque dell’ecologia. Si tratta perciò, a partire da questa constatazione, di comprendere come la filosofia non permanga mai in uno spazio astratto dalla realtà storica in cui si pone, ma come al contrario la influenzi e ne sia influenzata continuamente: noi dobbiamo ripensare ecologicamente la filosofia, coltivando e portando cioè oltre sé stesse quelle tradizioni di pensiero che hanno riflettuto sulla corporeità e sulla natura, per esempio, ma allo stesso modo far sì che questo problema dell’ecologia venga pensato filosoficamente, cioè che i temi che sono ormai posti all’attenzione del dibattito pubblico possano avere uno statuto filosofico che, in parte, possa contribuire a trasformarne il senso e, in modo relativo, la prospettiva. Si può vedere qui, e mi sembra una delle cose più interessanti di questo testo, come sia la medesima impostazione del lavoro di Iofrida, anche a livello metodologico, ad essere ecologica, o, detto più tecnicamente, chiasmatica: anche il rapporto filosofia-società non deve essere pensato in termini di vettori di influenza univoci. La prima emerge eco-sistematicamente dell’altra pur non divenendone mai una mera manifestazione, conservando quindi la sua autonomia; la seconda a sua volta viene ripensata e forse addirittura, a volte, trasformata dalla prima. Abbiamo quindi sbagliato a dire che i problemi della filosofia le arrivano da fuori: giacché dire questo presuppone di pensare un dentro della filosofia che in realtà non esiste se non in modo relativo. La filosofia emerge, ecologicamente, da un contesto di cui è parte integrante e da cui acquisisce il proprio senso. Essa è pensabile attraverso l’approccio della “sociologia della cultura” francese degli anni ’50, per cui il pensiero è un epifenomeno dei movimenti interni alla società, è l’avanguardia dei movimenti che animano questa società, a cui essa deve in qualche modo dettare la linea: né assoluta passività, né assoluta attività, ma sempre quell’incrocio, quella commistione di luce e ombra, che è al centro del testo di cui stiamo parlando. Un testo, appunto, in cui “metodo” e “merito” appaiono completamente indistinguibili. Un testo in cui si parte dalla filosofia per giungere nel mondo e si parte dal mondo per tornare alla filosofia, continuamente.
Il grande nome dietro questo libro è quello di Maurice Merleau-Ponty. Questo vale anche per le cose dette poco sopra: sono suoi i concetti di chiasma, come quello di attività e di passività. In generale però, quest’operazione di Iofrida consiste nel cercare alcuni strumenti per pensare alcuni problemi classici della storia della filosofia contemporanea a partire da Merleau-Ponty. Questi problemi sono, ad esempio, quello della natura, quello del soggetto, quello della tecnica e del lavoro, nonché quello del senso e della storia. La proposta di Iofrida è che questa “rifondazione filosofica dell’ecologia” debba passare necessariamente per ripensare questi problemi attraverso il prisma della corporeità come dimensione centrale non tanto dell’esistenza umana, ma dell’esistere in generale.
Per riprendere, trasformandone la lettera, un autore come Heidegger, con cui Iofrida ha un rapporto di vicinanza-lontanza (lo stesso che con il maestro tedesco ha Merleau-Ponty, appunto), potremmo dire che noi non pensiamo in modo abbastanza decisivo il tema del corpo. Per un verso, infatti, buona parte della filosofia permane ancora in quella “adorazione” del linguaggio che ha caratterizzato tanta filosofia del Novecento, e per l’altro il corpo viene pensato al massimo come “campo di battaglia”, spazio su cui si scontrano le forze, spazio sottoposto ad un flusso temporale, cioè sempre spostato al di là di sé stesso. Entrambi questi paradigmi, per Iofrida, condividono un’idea: quella per cui il corpo, e quindi la natura, siano qualcosa che può essere superato, qualcosa che non sussiste davvero se non, al massimo, come spazio “astratto”, campo vuoto.
La prospettiva di Iofrida, che egli mutua da Merleau-Ponty e da tutta una serie di riferimenti che non avrebbe senso riportare qui, lo porta a pensare che invece il corpo sia qualcosa di pesante, qualcosa che ci si porta dietro, non qualcosa che si supera e si trasforma solamente (giacché è evidente che il rapporto che abbiamo col nostro corpo è sempre anche di trasformazione). Noi non facciamo che vivere il nostro corpo, che non è affatto un “oggetto generico”, ma che ci pone sempre in un mondo materiale, fatto di riferimenti e pieno di senso fin dall’inizio. Non è questo il senso della crisi ecologica nella sua dimensione globale? Il corpo dell’uomo non è forse un corpo adatto solo a determinate conformazioni storico-fisico-bio-naturali? Bisogna abbandonare l’idea secondo cui l’uomo non avrebbe nessun ambiente e sarebbe costitutivamente s-paesato. L’uomo è sempre geografico, per riprendere Augustine Berque, importante riferimento di Iofrida. Questo essere geografico significa che egli vive in uno spazio che gli è dato, in mezzo ad un mondo naturale che ha una sua autonomia che l’attività del soggetto non può intaccare mai completamente (si tratta qui della critica alla culturalizzazione integrale che Iofrida ribadisce tante volte). Non bisogna vedere questo “peso” come un limite esterno contro cui si scontra il soggetto nel pieno della sua attività: è il soggetto stesso ad essere costituito da quel fondo. Noi viviamo in un mondo che è natura, che cioè si dà sempre come spazio autonomo, nella misura in cui siamo natura, siamo cioè già da sempre costituiti come corpi. In questi termini la nostra libertà non sta nella possibilità di una separazione assoluta rispetto al mondo naturale, ma nella capacità di abitare quel mondo in un rapporto di gioco. Questo concetto di gioco è ciò che libera Iofrida dal rischio dell’essenzialismo, cioè da un’idea naturalistica della natura pensata come un’essenza. Definendolo come un rapporto libero in cui non vi è mai annullamento tra i due poli (relativizzati nella loro alterità) Iofrida può leggere in termini di gioco sia lo stare dell’uomo nel mondo, sia lo svolgersi stesso dei processi naturali. In questi termini Iofrida legge anche la questione della tecnica: non si tratta di rifiutare la tecnica, ma di pluralizzarne il concetto. Esistono molte forme della tecnica: alcune rispettano la nostra condizione (che non è un’essenza, ma semplicemente il modo in cui – necessariamente – si dà la nostra esistenza di soggetti corporei), altre provano a farne a meno, distruggendo tutte le relazioni che ci costituiscono e che abbiamo “istituito” vivendo. Si tratta di operare una scelta, anche politica, tra diverse forme della tecnica.
Si tratta dunque di una prospettiva ecologica che non rifiuta di utilizzare il concetto di natura. La natura però, appunto, non viene pensata come un’essenza, che detta leggi che sarebbero da rispettare per sempre: essa è piuttosto, come insegna Merleau-Ponty, l’insieme dei lati invisibili delle cose; quel fondo che noi non possiamo controllare e che allo stesso tempo ci costituisce.
È noto come esistano moltissimi che sostengono che un vero pensiero ecologico consista prima di tutto nell’abolizione dell’idea di natura ed anche in quella di corpo-naturale. Leggendo alcuni di loro, parrebbe che fare ecologia significhi sempre costruire dei collettivi tra umani e non-umani, allargarli, negoziare l’entrata di quanti più elementi possibili dentro di essi.
Se si volesse allargare un po’ il discorso, in queste ultime righe, al di là del testo, per un suo possibile uso, sarebbe forse interessante provare a leggere il ragionamento che porta avanti Iofrida e quello, all’opposto, di questi “moltissimi” in contro luce rispetto al fiorire dei movimenti ecologici degli ultimi anni, sia a livello territoriale-locale che a livello globale. Siamo sicuri che chi difende una valle da un progetto che ne distruggerebbe per sempre l’equilibrio stia in realtà cercando l’ibrido, la fusione assoluta tra natura e cultura? Che non abbia, piuttosto, individuato un piano di rottura, per il quale, da un lato, vi è qualcosa nella valle che non è costruibile, pena la distruzione della valle medesima, e per l’altro, vi è qualcuno che vuole distruggerla e dunque si tratti di scontrarvisi? Che c’è cioè qualcosa come un peso che non può essere superato ed annullato? Le lotte ecologiche non sono forse il tentativo, contraddittorio, complesso, difficoltoso, di costruire nel mondo un collettivo, certo, ma dove ci siano dei punti, degli spazi, che non possono essere continuamente trasformati? Dove quindi la negoziazione si dia prima di tutto ad un livello che è quello del conflitto, per cui alcuni elementi devono restare fuori dal collettivo? Si tratterebbe allora di pensare a come, certamente a partire dalle pratiche già esistenti e dalle immagini di mondo che questi movimenti sognano (insomma, non dal nemico di Schmitt, ma dal sogno di una cosa di Marx), tracciare una linea. Solo da quell’operazione preliminare potrebbe nascere qualcosa come un’ecologia politica.
Esistono tutta una serie di prospettive (naturalmente tutte occidentali, come l’eco-modernismo) per cui l’ecologia politica deve essere ciò che apre le nostre società al “coraggio” dell’accettazione del destino dell’umano come di qualcosa che ha il compito di controllare il globo. Che apre, insomma, alla tecnicizzazione integrale (secondo quella forma “alienata” di tecnica, usando il lessico iofridiano) del globo e dei territori di cui esso è composto.
Quello che forse chiunque legga questo libro tenendo presente il proprio tempo storico potrà rispondere è molto simile a quanto diceva Foucault di ritorno dalla Persia:
«Sento già degli europei ridere; ma io, che so ben poco […], so che hanno torto.»
In cui quel “ben poco” risulterebbe, applicato alla nostra situazione, in realtà moltissimo, e cioè quell’esperienza che tutti hanno della centralità del proprio corpo come “forma di vita nel mondo”. Ciò che sembra consegnare Iofrida al lettore, è proprio una serie di strumenti per pensare ciò che vi è di più noto, eppure così dimenticato. In questo senso egli sa che gli europei (almeno alcuni di loro) hanno torto.
[Immagine: Wolfgang Tillmans, Lutz, Alex, Suzanne & Christoph on beach (b/w), 1993 (mge)].
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi