di Nicoletta Vallorani

 

[LPLC va in vacanza dal 2 al 22 agosto. In questo periodo ripubblicheremo alcuni dei post apparsi nel corso del 2020. Questo articolo di Nicoletta Vallorani è uscito il 17 febbraio].

 

Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani

 

Mi sono chiesta molte volte, prima di sperimentarlo, che cosa significasse prendersi cura del corpo della madre, un corpo che, per molte donne della mia generazione, è spesso un continente ignoto, sempre coperto di panni familiari e rassicuranti e ipostatizzato nella congruenza assoluta tra una funzione materna fatta di cura silenziosa e di accantonamento deliberato di sé e la necessità di localizzare lo spirito della maternità nel territorio indiscutibile del mito, della teoria e/o dell’ideologia. È così per molte di noi, ed è difficile rendersi conto di questa assenza del corpo della madre, finché la vita non ne palesa irrefutabilmente le caratteristiche.

 

Perché a un certo punto accade: accade cioè che le madri invecchino, e spesso lo fanno quando anche le figlie non sono più giovani. Credo che sia esattamente a quel punto che il corpo della madre diventa obliquo e scivoloso, costringendo noi figlie a camminare sull’orlo sbrecciato della consapevolezza del nostro ruolo: siamo curatrici o curate? Dove si colloca, in un’età non più verde, la nostra funzione rispetto alle madri? E che accade, poi, quando il corpo nascosto e immateriale della fattrice diventa l’umanissimo involucro di una creatura che si è fatta fragile e di nuovo bambina senza che noi ce ne rendessimo conto? A questo punto della vita – della madre come della figlia – è evidente che la relazione è di corpi, uno assistente e uno assistito, entrambi fragili, entrambi segnati dal tempo. E l’intimità rovescia il rapporto che c’era stato quando le figlie erano bambine e avevano bisogno di quel “grembiule della madre” di cui dice Alda Merini in una sua poesia (“Il grembiule”, appunto).

 

“Madre” – la parola, cioè – combina due immaginari: il corpo etereo della madre protettiva, ancora di salvezza da ogni cosa, e la fisicità assoluta del concepimento, della gravidanza e della nascita. Atto cruento di per se stesso, inimmaginabile per un uomo, esso edifica una relazione che ci insegnano impossibile da interrompere (e che invece è sano e maturo troncare, a un certo punto non troppo avanzato della vita) e che si alimenta, culturalmente, della volontà consapevole di scorporare la materia fisica del corpo da una presunta missione simbolica, che altro non è che la preservazione della specie trasformata in ideologia paralizzante.

 

Tralascerei, perché ormai molto citati, i passaggi di questo ragionamento, nel modo in cui essi vengono rappresentati in The Handmaid’s Tale (1985; Il racconto dell’ancella, 1988). In quel caso, nella visione di Margaret Atwood, la corrispondenza religione/ideologia è fin troppo chiara, e la cancellazione della corporeità della madre arriva fino alla deliberata negazione persino della possibilità del piacere.

 

Mi interessa però forse di più, in questa sede, ragionare sui rapporti anomali, sulle frizioni tra corpi (di madri e figlie) nel modo in cui esse si manifestano quando ci si trova in una situazione difficile, emergenziale, non negoziabile. Beloved (1987; Amatissima in italiano, nella raffinata traduzione di F. Cavagnoli), per esempio, è la storia di un infanticidio. La chiave concettuale del romanzo – forse l’opera più riuscita della splendente Toni Morrison – sta in una vicenda tragica: una madre fuggita dalla piantagione che la vuole schiava si teme raggiunta dai bianchi suoi padroni e soffoca la figlia neonata, per scongiurare la possibilità che ella sperimenti la sua stessa sorte. In una dimensione astratta, quel che accade è che un corpo riproduttivo e riprodotto (quello di Sethe) spegne la vita (fisica) nella figlia che ha generato per impedire che ella diventi, da adulta, strumento di riproduzione e oggetto di violazione. Il corpo fisico scompare, la figlia neonata muore, la madre cerca di ricostruirsi una vita, finché la figlia uccisa non torna in forma di fantasma alimentato dalla colpa. In tempi più recenti, Nora K. Jemisin, nel primo volume della Broken Earth Trilogy (The Fifth Season, 2015; La quinta stagione, 2019), ripropone una situazione analoga, della quale si è detto che fosse un omaggio, appunto, a Toni Morrison. In verità, io non lo credo. Credo piuttosto che vi sia, in questo ripetersi narrativo di circostanze simili, l’eco storica di una pratica di stupro consueta nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti. Essa intreccia la riproposta fattuale dello ius primae noctis di antica memoria (almeno nelle culture occidentali) e una necessità economica, ovvero la possibilità di incrementare il numero degli schiavi gratuitamente, utilizzando le donne nere come fattrici e poi rivendendo i loro figli, o violandoli in modi diversi. Quello che mi colpisce ogni volta che raccolgo le idee su queste vicende è la maniera in cui il rapporto madre/figlio – e ancora di più quello madre/figlia – sia carico di una materialità e di una fisicità che rivelano quello che, in una cultura come la nostra, rimane tendenzialmente nascosto, immateriale, fantasmatico: il corpo della madre.

 

Tradizionalmente, nel lessico letterario e artistico italiano e, in parte, anche europeo, “Madre” è una parola efemerica, deprivata di materialità e fatta di funzioni che di rado arrivano a essere connotate pragmaticamente. Vi è una fatale dissociazione tra la fatica inimmaginabile (per un uomo) di farsi madre e la rappresentazione virginale di una donna che concepisce un figlio senza avere alcun contatto con chi con lei dovrebbe concepirlo (e lo mette al mondo con la disinvolta serenità di un fantasma). Questa dissociazione rimbalza su una concettualizzazione della funzione materna che fa appunto del termine che la designa una nebulosa astratta di significati, genericamente radunati intorno al conforto, l’accoglienza, la passività e la rassegnazione. Con poetica bellezza, Alda Merini evoca questa protezione in alcuni suoi versi, quando per esempio si rivolge a un bambino per esortarlo al gioco dell’immaginario:

 

Vedrai sorgere giardini incantati
e tua madre diventerà una pianta
che ti coprirà con le sue foglie (“Bambino”).

 

La madre è pianta che avvolge di foglie. Nella cultura patriarcale che impariamo (ad accettare o a rimodellare, come in realtà fa Merini in più circostanze), ella non parla, non si ribella, non discute. La protezione, purché non richieda uno sforzo fisico e fattuale, può rientrare nel corredo delle sue mansioni, ma con alcuni distinguo e purché il corpo – quello umano e violabile, bello o brutto, attraente, trascurato, forte o fragilissimo – scompaia. L’intelligenza, in ogni caso, non penetra in alcun modo nel campionario previsto delle doti femminili-materne, e la razionalità nemmeno. È, la donna/madre, un’entità teorica alla quale è possibile che si decida di adeguarsi (così da realizzarsi, ci dice certa politica) oppure che, incredibilmente, si rifiuta, diventando così una non-madre e dunque non-donna.

 

In Mia madre è un fiume (2011), Donatella di Pietrantonio cerca di raccontare il rapporto di una figlia non più giovanissima con una madre anziana che si ammala e progressivamente perde ogni ricordo, ogni senso dello stare al mondo e infine ogni traccia di identità. Nel percorso di ricostruzione e cura, la figlia sembra recuperare il senso di un “corpo fisico” della madre, un guscio con cui non aveva familiarità e che ora è vuoto. In questa relazione impossibile con ciò che non si conosce e che soprattutto non si è messo in conto (che la madre invecchiasse, si infragilisse, si spegnesse), la protagonista e voce narrante del romanzo non sa come portarsi

 

Continuo a girare in tondo senza trovare la via di uscita dalla sua orbita verso altri mondi. Vado invecchiando, in questa immaturità.

 

Nel romanzo di Di Pietrantonio, quindi, la relazione madre/figlia che si consuma nell’avanzata maturità di entrambe: una vecchiaia malata per la madre, che trasforma il corpo in un guscio, finalmente familiare seppure vuoto di sostanza, e una maturità incompleta per la figlia, che si riaccosta alla madre colma di un conflitto non superato, e con l’idea di poter finalmente “dire tutto”. Paradossalmente, mi viene di dire che nel romanzo di Di Pietrantonio – con questa voce narrante fin troppo deprivata di corpo – venga ben rappresentato quel che mi pare accada più spesso oggi nel rapporto madre/figlia: il corpo della madre ridiventa reale e fisico quando la sua vitalità si spegne, appassendo la forza di chi lo indossa. Invecchiando, la donna che ci ha messo al mondo ridiventa per noi figlie una persona di carne e sangue, tangibile e anche fragile, bisognosa di cure, forse, dipendente da noi, per certo. Un rispecchiamento di quello che siamo o che non abbiamo voluto essere. Vi è, nel rapporto che si genera, una fatale scucitura tra il nostro amore incondizionato di figlie e l’intelletto, che sa che quello che abbiamo davanti è un guscio. Noi figlie affrontiamo con un corpo già vecchio lo spegnersi graduale del corpo che ci ha generate. E non vi è nulla di teorico in questo. È una faccenda di corpi, primariamente, e di far pace con essi.

 

Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani

 

 

[Immagine: Gustav Klimt, Le tre età della donna, 1905].

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