di Franco Palazzi

 

[LPLC va in vacanza dal 2 al 22 agosto. In questo periodo ripubblicheremo alcuni dei post apparsi nel corso del 2020. Questo articolo di Franco Palazzi è uscito il 24 marzo].

 

Nulla come una pandemia ci fa rendere conto che esistono vite indispensabili. Il personale medico e infermieristico, senz’altro, dei quali ci ricordiamo al momento del bisogno ma non in quello delle leggi di bilancio. Chi si prende cura di bambini, diversamente abili e anziani – di cui ci rendiamo conto al più quando apparteniamo a quelle categorie. Quanti assicurano servizi invisibili perché costantemente sotto gli occhi di tutti, dalla vendita di generi alimentari alla raccolta di rifiuti al trasporto – di cui forse finiremo con il non accorgerci abbastanza nemmeno questa volta.

La maggior parte di noi, altrettanto chiaramente, non è indispensabile in questo senso. Il nostro stare a casa da settimane non ferma il corso del mondo, non crea problemi logistici insormontabili, non attenta alle infrastrutture nodali nella società. Significa forse che di noi si possa fare a meno? In moltissimi casi, la risposta è sì. Ma esiste anche un senso più personale, e non meno insostituibile, dell’indispensabilità. C’è l’indispensabilità specifica, quella rivolta ad una o poche persone – quelle che ci amano, quelle che traggono anche e qualche volta soprattutto da noi il proprio perché. Se tutta l’infelicità umana dipende davvero, come valeva Pascal, dall’incapacità di starcene da soli in una stanza, si può forse concepire qualcosa di meglio dello stare insieme in una stanza?

Eppure anche questa nozione assai più democratica di indispensabilità lascia un resto, uno scarto. Sono i non-indispensabili. Non mi riferisco qui a coloro che in questi giorni si stanno rivelando addirittura controproducenti – come quelli che smaniano per tenere aperte le fabbriche di lavatrici e aeroplani, o che approfittano dell’isolamento per perpetrare un surplus di violenza domestica; loro sono così poco fondamentali che non vale la pena di parlarne se non nel modo della protesta, della critica, dell’invettiva. Penso invece a chi non ha un’occupazione socialmente essenziale oppure non ce l’ha per niente, che potrebbe restare a lungo in solitudine in una stanza senza generare in alcuno insormontabili mancanze. Per parte mia milito, da sempre, nelle loro fila.

Essere non-indispensabili, durante una pandemia, è molto facile. Non ci sono prime linee da presidiare, contagi da arrestare, merci da stoccare, non-autosufficienti di cui prendersi cura. Non ci sono neppure figli da rassicurare, amanti da abbracciare. C’è molto tempo libero, a volte libri da leggere, forse altri (certamente non di epidemiologia) da scrivere – quasi sempre musica da ascoltare, svogliatamente.

Essere non-indispensabili, durante una pandemia, è anche molto difficile – per le stesse identiche ragioni. L’indipendenza, che è la nostra forza, genera pasolinianamente la solitudine, che è la nostra debolezza. Non serve che sia una solitudine concreta – nel tanto tempo a nostra disposizione, noi non-indispensabili riusciamo a volte a restare in contatto con un numero impressionante di persone. È piuttosto una solitudine stonata, suonata in un altro registro: possiamo davvero dire di vivere in un mondo in cui di noi nessuno nutre un particolare bisogno? Sul serio condividiamo lo stesso piano esistenziale di quanti, ora umilmente ora prepotentemente ma sempre inesorabilmente, occorrono?

C’è chi, tra noi, combatte questa solitudine con una goffa e quasi sempre fallimentare corsa all’indispensabilità: inventarsi qualche immaginaria prima linea da cui organizzare iniziative pseudo-umanitarie che faranno bene solo a noi, buttarsi a capofitto nei siti d’incontri proprio ora che la dea del dominio della lotta, la competizione, è distratta. C’è chi si risparmia simili livelli di patetismo, ma nondimeno si interroga sulla propria condizione – trovandosi magari a desiderare colpevolmente, nel dormiveglia, di aver studiato medicina tanti anni prima. L’assenza di rischi non fa forse rima con l’inutilità?

Molti anni fa, Borges compilò un breve catalogo di non-indispensabili. Un uomo che coltiva il suo giardino. Chi si rallegra dell’esistenza della musica, o scopre un’etimologia. Due impiegati che giocano a scacchi in un caffè, senza proferire parola. Chi vuole giustificare un male che gli hanno fatto tanto tempo prima. Quelli che preferiscono che siano gli altri ad avere ragione. Lo scritto si sarebbe potuto intitolare, probabilmente, “Raccolta indifferenziata” – che farsene di tutti questi tipi umani votati alla passività ed alla contemplazione, a non fare nessuna differenza nemmeno quando proviamo a liberarci di loro?

Borges, invece, e con non poca tracotanza, chiama la sua poesia “I giusti”. Questi individui assolutamente non-indispensabili, che non si conoscono fra loro, “stanno salvando il mondo” – afferma. Il motivo è antico, si può ripercorrere indietro fino alla cultura rabbinica: se Dio non distrugge il mondo, è perché ha pietà di una manciata di giusti che in ogni epoca, ignari del proprio ruolo, continuano testardamente ad esistere. Certo, Dio è morto, e più che mai durante una pandemia – sono gli anziani i più vulnerabili, ci dicono, e chi mai potrebbe dirsi più vecchio di Dio? Questo Borges, il “teologo ateo”, lo sapeva già. Eppure la categoria dei giusti riemerge proprio dopo quell’Olocausto che rende impensabile il “concetto di Dio”: sono i giusti dello Yad Vashem, i non ebrei andati in soccorso degli ebrei. Alcuni di loro sono ricordati per aver compiuto delle gesta eroiche, altri per non aver fatto nulla – per aver taciuto un nome, un’informazione, un nascondiglio. Giusto è lo scrivano di Melville che non calca la penna, che “preferirebbe di no”.

I giusti sono i riservisti dell’umanità. Sono quante in questo tempo scrivono poesie, musiche, pensieri, forse parole d’amore su lettere di cui ancora non conoscono l’indirizzo (il femminile non è un errore di battitura: anche se Borges non lo sapeva, i giusti sono soprattutto donne). Si prendono cura del fatto che ci sia ancora, alla fine di tutto di questo, qualcosa che renda la vita degna di essere vissuta, di essere salvata – o di essere sacrificata, che è poi lo stesso. Rispondono, al momento del bisogno, a chiamate impreviste, si trattasse anche solo di quella a non giudicare anzitempo, di non perpetrare il male – i giusti sono gli unici ad avere una reperibilità più estenuante di quella dei chirurghi. Perlopiù, tuttavia, non sono figure di grande fantasia o ingegno – molti, tra qualche mese, si limiteranno a tornare a correre per le strade e i parchi, rendendoli degni di essere attraversati da esseri umani della cui storia non sapranno mai.

Lungi da me dire che tutti noi non-indispensabili siamo dei giusti – o che l’essere tali sia alla fine una non-indispensabilità al contrario. Fin dall’epoca dell’antica sapienza rabbinica, i giusti contano per il loro numero, non per le loro speciali capacità o la loro inimitabile identità. Eppure è complesso vivere numerosamente, essere presenti come traccia infinitesima di una moltitudine che solo nell’insieme resta fondamentale. Richiede un amore strano, impersonale, mai del tutto estraneo alla frustrazione. Comporta, magari, l’incarnare un desiderio che non risponda ad alcuna mancanza.

Non temete dunque, compagne e compagni di non-indispensabilità. Sin quando resterà un barlume di possibilità, un anfratto di giustizia da difendere, la nostra veglia non sarà vana – ma non illudetevi che termini necessariamente con la quarantena. La giustezza non è un lavoro, ma una forma di vita – e come tale non ha orari prestabiliti. Badate di non ammalarvi, perciò.

(Il telefono squilla, smetto di scrivere per andare in giardino a rispondere ad una chiamata. Si tratta, come potevo immaginare, di una telefonata non indispensabile – ma di una a cui era giusto rispondere).

[Immagine: volta di Yad Vashem].

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