di Corrado Benigni e Tommaso Di Dio
Tommaso – Sia il mio libro Verso le stelle glaciali, sia il tuo Tempo riflesso, cercano un rapporto con l’immagine fotografica. Entrambi cercano una relazione che non sia didascalica, ma strutturale, in cui l’immagine — la sua pelle — non sia soltanto una superficie riflettente, ma un addensante di prospettive. Certo, ci sono moltissimi precedenti nel ‘900. Ma credo che ci sia oggi un bisogno diverso che ci spinge verso le immagini. Da dove sei partito? Perché questa esigenza? Poi ti racconto da dove sono partito io.
Corrado – Tutto nasce intorno a due interrogazioni fondamentali: cosa vediamo quando guardiamo? Quello che vediamo effettivamente è? Da qui è partita la mia riflessione su come percepiamo e dunque leggiamo lo spazio attorno a noi, su cosa va oltre il visibile. Una riflessione che è entrata prepotentemente nella mia scrittura in versi, soprattutto nel mio ultimo libro, anche dopo essermi occupato, in questi anni, dell’opera di Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Mario Cresci, Nino Migliori, Olivo Barbieri.
Da sempre la poesia ha rappresentato per me uno strumento per mettere a fuoco la realtà (o ciò che crediamo tale) dentro e fuori di noi. Una lente attraverso la quale guardare il mondo aldilà delle apparenze: la possibilità di vedere oltre il dato sensibile, attraverso la capacità immaginativa (a questo proposito Leopardi ha teorizzato dell’esistenza di una “doppia vista”, come di una facoltà della pupilla e parallelamente dell’anima). Oggi le neuroscienze ci dicono che per creare la nostra visione del mondo non usiamo solo gli occhi, ma al novanta per cento il cervello. Il mondo come lo conosciamo dunque è in realtà costruito dalle immagini che di esso abbiamo accumulato nel tempo. In quest’ottica, la fotografia, e allo stesso modo la poesia con la sua potenza iconica, diventa lo strumento di rappresentazione che crea delle immagini e che quindi ci aiuta a conoscere meglio quello che ci circonda. Nell’epoca “ipericonica” in cui viviamo, questo ha raggiunto proporzioni persino esplosive, tanto che l’immagine sembra sostituire la realtà stessa. Esattamente ciò che avviene in poesia, che non descrive, ma crea mondi, una lingua causale e non casuale. Al pari di un fotografo, l’occhio del poeta ha da sempre la capacità di saper leggere dentro la luce, dentro i colori, la forma, la prospettiva di un’azione, o nel movimento, così come nel tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di parole.
La poesia come miniaturizzazione: pochi versi possono contenere mondi. In questi termini sono d’accordo con te quando dici che l’immagine è un “addensante di prospettive”. A proposito di prospettiva e di visione, penso che lo sguardo occidentale sia profondamente influenzato e modellato dalla prospettiva rinascimentale e dal modo in cui questa divide lo spazio individuando un punto di fuga. In questo senso, fotografia e poesia sono due arti sorelle: quando guardiamo e leggiamo un’immagine fotografica e poetica stiamo guardando le cose da una prospettiva ben precisa (quella dell’autore), al contempo quella stessa immagine ci dice che in realtà vi sono un’infinità di altri centri possibili, di prospettive nascoste che la poesia e la fotografia possono svelare. Ecco il pozzo inesauribile di queste due forme espressive, che appaiono come le declinazioni di una fonte comune dalla quale possono generarsi vicendevolmente e appartenersi. Ogni gesto espressivo, verbale o iconografico, è il luogo in cui impera la forma, il luogo in cui si celebra il baudelairiano «culte des images».
Nella scrittura di Tempo riflesso ho utilizzano un procedimento fotografico, come se la poesia fosse una macchina fotografica, mimando i meccanismi stessi di una camera, come la lente o lo zoom, attraverso i quali mentalmente ingigantire dettagli o rimpicciolire una visione d’insieme. Molte poesie si muovono in un continuo alternarsi tra dimensione infinita e infinitesimo, tra micro e macro, interno ed esterno. La realtà dunque, sempre presente, dialoga continuamente con una dimensione che va oltre il visibile fino a confondersi con esso; cosa è superficie e cosa no a volte è indistinguibile, anche perché è indistinguibile nella nostra condizione umana, dove incerto è il confine tra vero e rappresentazione del vero. Dunque se è vero che le immagini non sono solo una “superficie riflettente”, come giustamente osservi, su di esse tuttavia si riflette il tempo, che è il tema di fondo del mio libro. Della temporalità infatti tratteniamo solo un gioco di riflessi, che rimbalzano da una superficie all’altra in cui siamo immersi. Potremmo dire che lo spazio è senso esterno e il tempo è senso interno: ecco perché molte poesie del libro sono costruite proprio sul rapporto tra interno ed esterno. Kant diceva che noi non possiamo conoscere se non spazializzando e temporalizzando, e ciò avviene contemporaneamente nella percezione.
Quest’ultimo aspetto è stato molto indagato dalla fotografia degli ultimi quarant’anni. In particolare dalla New American Photography, penso ad autori come William Eggleston, Stephen Shore, Joel Sternfeld, e prima di loro da Lee Friedlander e Walker Evans. Lo studio dei lavori di questi autori ha influenzato molto il mio modo di vedere e di riflesso anche il mio modo di scrivere; così come decisivo è stato l’incontro con la fotografia e la teoria di Luigi Ghirri che ha posto al centro del suo lavoro il problema della visione.
Questo mi pare presente anche nel tuo nuovo libro: penso in particolare alla prima sezione di Verso le stelle glaciali, dedicata alla città, un viaggio integrale nella metropoli, lungo “le strade, la storia”, come dice il sottotitolo, con lo sguardo proteso al dettaglio ma anche con una visione d’insieme. Il tuo modo di osservare e mettere a fuoco gli elementi e le figure che entrano nei versi, mi ha ricordato certi procedimenti della street photography, in particolare uno dei grandi maestri di questo genere che è stato Saul Leiter. Nelle sue immagini – e così anche nelle tue poesie – ci sono spesso giochi di specchi, riflessioni anche multiple, vari livelli di profondità e un intenso uso di cornici (“Su di un lato del bar, il grande vetro mostra/ la strada con la gente, i muri, le case”)…
T – Sì, sicuramente la fotografia è stata importante per la costruzione del mio punto di vista, del mio sguardo sul mondo. Non solo in Verso le stelle glaciali, ma certo che in questo ultimo libro cerco di approfondirne la relazione come non ho mai fatto. Sono profondamente convinto che la poesia non debba essere soltanto questione di scrittura, ma di visione: c’è — come dici benissimo tu — un certo modo di inquadrare, di cadere su di un dettaglio, di offrire uno scorcio; e questo può essere educato, costruito dallo studio delle opere di chi cerca nel campo del visibile. È subito evidente quando uno scrittore è soltanto uno “scrivente”, così come quando è un “vedente”. In molta poesia (ma anche in molta prosa) non si vede nulla: sono solo frasi, con qualche idea intorno. A tanti già questo pare abbastanza: a me no. A me interessano quelle scritture in cui tutta la strumentazione tecnica interna ad un linguaggio sia messa al servizio della visione, finanche per sabotarla: e subito sei dentro una scena, una metrica, un movimento-tempo, come osservi benissimo tu. Non potrei scrivere come faccio senza essermi nutrito di questi “vedenti” e quindi senza aver visto, fra i molti, la fotografia di Joseph Koudelka o di Sarah Moon o di Lieko Shiga. Tutta la prima parte del mio libro ha fra i primi suoi riferimenti un lavoro che anni fa mi colpì tantissimo del fotografo svedese Anders Petersen. Alla fine degli anni ‘60, documentò la vita di un bar in una periferia di Amburgo, il Café Lehmitz: il suo sguardo sulle cose di quel locale e sul suo disastrato e dolcissimo mondo si è sovrapposto al mio, perché ho frequentato per una decina di anni a Milano un luogo simile. L’eco di quelle immagini è come penetrata nella mia lingua. Come Petersen costruisce immagini in cui c’è uno “sguardo di rimando” fra fotografo e il suo soggetto, una reazione di intensità, come le sue sono immagini dense, dall’interno, dal basso, nette, con il soggetto ben chiaramente distinto anche se scorciato nei riflessi del circostante, così ho cercato di fare anch’io, anche se ho poi cercato di dare maggiore rilievo e statuarietà a soggetti isolati, perché avevo bisogno di aprire il libro con una serie di ritratti in situazione: mondi di solitudini e tentativi minimi di relazione. La sezione si conclude con una poesia dedicata proprio ad una fotografia: è la celebre immagine che ritrae dal tetto del palazzo di fronte lo studio di Nadar in Boulevard des Capucines. Nell’immagine, sul tetto, si vedono in alto a destra alcuni uomini che guardano nell’obiettivo: chi sono? Perché sono lì? Il loro volti sono solo ombre.
Nella struttura del libro, a questo punto, la questione si allarga. Diversamente da quanto credo hai provato a fare tu in Tempo riflesso, cercando di inglobare nel testo tecniche di cattura delle immagini, in questo libro ho lavorato sul rapporto allegorico fra i “testi”, intendendo con questa parola qualsiasi figura che si ponga in rilievo su di una superficie. Cerco di mettere a confronto i modi con cui fruiamo differenti linguaggi. Ecco perché è un libro in cui i testi di poesia si legano a testi-immagine e a testi in prosa. È ovvio che mi pongo assolutamente oltre il problema della poesia in prosa o della prosa poetica o della prosa in prosa: “poesia” è un certo stato della “materia scritta”. La domanda che anima il libro allora potrei riassumerla così: come divenire coscienti della mente che costruisce il mondo? Insomma come vedere chi vede? Come far sì che la materia scritta si trasformi in uno strumento che, vedendo il mondo, non dimentica di mostrare colui che vede? Il libro è costruito in quattro itinerari e ad ogni itinerario sono associate immagini e descrizioni di immagini. Le immagini offrono per me una sorta di area (ecco perché le chiamo mappe) in cui il lettore può contemplare come un testo risuona in un altro. Mi interessa che il lettore provi a sentire cosa accade alla sua percezione nel momento in cui vede le immagini alla luce delle parole che precedono e che seguono; mi interessa che il lettore faccia esperienza della propria visione come costruzione: come una composizione in cui un’esperienza appena contigua produce effetti immediati sulla sua costruzione mentale. È a partire dall’idea di realtà come composizione che mi sembra oggi si possa recuperare un legame fra parola e verità. Tu hai richiamato le ricerche della neuroscienza che ci ricorda che la nostra visione sia una riconfigurazione continua e stratificata. È da qui che credo nasca quella esigenza che ci spinge a riflettere sul rapporto fra parola e immagini in un modo differente da quanto è avvenuto in passato: tu cosa ne pensi? In un tuo testo hai scritto proprio: <<La fotografia è un testimone che non mente>>. Come intendere questo tuo verso?
C – La fotografia non può mentire perché riproduce direttamente. Come ha scritto John Berger: <<Le foto non traducono dalle apparenze. Le citano>>. Questo potrebbe sembrare in contraddizione con il proliferare di immagini usate massicciamente per ingannare e fornire informazioni distorte. Tuttavia la macchina fotografica non mente neanche quando è usata per citare una menzogna. Di conseguenza la “menzogna” appare più credibile, perché è sempre costruita davanti alla macchina fotografica. La fotografia però non può neppure dire la verità; o piuttosto la verità che racconta, che è in grado di difendere, è limitata. Non dobbiamo, infatti, ridurre la fotografia all’“istantaneo”, come molti sono tentati di fare, influenzati soprattutto dalla fotografia di reportage, alla Cartier-Bresson per intenderci, con il suo corollario retorico dell’“istante catturato”. Questa sarebbe una semplificazione. Se ogni fotografia, infatti, si pone come un fatto, quel che va analizzato è in che modo una determinata immagine possa o non possa conferire senso ai fatti. È chi osserva – il “vedente”, come lo chiami tu – che nel guardare quella determinata foto le presta un passato e un presente, conferisce una durata e dunque senso a quell’istante isolato, estratto dalla continuità del tempo. Questa è l’ambiguità della fotografia, e anche il suo mistero: “proporre” una verità, senza rivelarla del tutto.
Prendiamo la foto che citi scattata su un tetto a Parigi di fronte allo studio di Nadar. Ecco, essa registra solo un fatto: tre uomini si trovano sul tetto, ma non sapremo mai se sono ladri, operai o semplici visitatori e perché sono lì. La stessa cosa mi capita quando guardo una delle fotografie che più amo: Uomini su un tetto di René Burri. L’immagine scattata a San Paolo del Brasile nel 1960 mostra quattro uomini, anche qui su un tetto. Sotto di loro, in un crudo bianco e nero, ci sono tramvie e auto e pedoni minuscoli, che combaciano perfettamente con le loro ombre. Da dove è stata scattata la foto? Da un elicottero o da un grattacielo più alto? Chi sono i quattro uomini? Gangster? Banchieri? Si trovano davvero su un tetto, come appare? Certe foto sembrano uscite dal mondo dei sogni e dunque restano indecifrabili, ambigue. Allora la presenza di chi le guarda è necessaria. Così come è fondamentale il lettore per la poesia, che diventa quasi il prolungamento e il completamento dello sguardo dell’autore. Qui entra in gioco la parola in rapporto con la fotografia. Nel confronto tra questi due linguaggi, è la foto a richiedere un’interpretazione e di solito sono le parole a fornirgliela. La fotografia, inoppugnabile come prova ma debole di significato, riceve un significato dalle parole. Insieme esse diventano molto potenti. Tuttavia a me interessa rimanere nell’ambiguità, che può offrire alla fotografia un mezzo di espressione eccezionale. Questa ambiguità suggerisce un altro modo di “raccontare”, esattamente ciò che fa la poesia, che non è mai esplicativa, descrittiva, ma evoca, suggerisce altro, è una superficie di riflessi e prospettive multipli. Questo è ciò che mi interessa nel rapporto tra poesia e fotografia e che ho cercato di indagare in Tempo riflesso, mettendo a confronto le potenzialità iconiche di queste due forme, sovrapponendo l’immagine poetica a quella fotografica evocandola. Entrambe ci spingono ad andare più a fondo, oltre la superficie, a fare esperienza della nostra visione “come costruzione”, come hai detto bene tu.
Penso che una strada futura della poesia sarà sempre di più la compenetrazione con il linguaggio fotografico. E non può che essere così: perché è l’immagine, nello sguardo, la dimora dell’uomo nel mondo. Tuttavia penso che in Italia siamo molto indietro: la fotografia è ancora vista come cenerentola delle arti, anche se è stata un’arte rivoluzionaria nel Novecento e lo è soprattutto oggi. Anche tra i poeti italiani la cultura visiva e in particolare fotografica è scarsa, eppure il dialogo tra queste due forme espressive sarebbe davvero fecondo.
Venendo invece al lavoro di Anders Petersen che citi, questo mi dà l’occasione di ribadire quanto la fotografia sia profondamente legata al tempo, all’idea di tempo, come durata e insieme istante. Quasi ogni fotografia sembra istantanea, ma ovviamente non ha nulla di “istantaneo”: ogni frammento di tempo ha una durata. Quello che affascina in Petersen è che utilizza il tempo come fonte di narrazione. Utilizza intervalli, che possono durare giorni e anni, per costruire una serie. Un’operazione simile a quella fatta dal fotografo americano William Christenberry che un giorno del 1967 scattò una foto del Coleman’s Cafè di Greensboro, in Alabama, tornando a fotografare il locale per trent’anni. Con le loro serie, Petersen e Christenberry ci insegnano che ciò che è diverso non è il soggetto, ma il momento in cui è stato fotografato. Foto che sembrano restituirci l’immagine del tempo. O forse è il tempo l’illusione della fotografia…
T – Sì, la poesia e la fotografia sembrano entrambe capaci di una straordinaria e inoppugnabile evidenza, eppure ciò che generano è spettrale, inafferrabile, dilatato e impalpabile. Penso al tempo-durata che una poesia crea durante la sua esecuzione: dove siamo, mentre leggiamo una poesia? Che qualità del tempo accade mentre quelle parole scorrono? Eppure scorrono, governate da un metro e da una sintassi in cui nulla può essere modificato, eppure tutto si modifica, si dilata ogni volta nuovamente, perché (come nella musica) nessuna esecuzione di una poesia è uguale ad un’altra. Cosa si è diventati dopo aver letto una poesia? Cosa si è appreso? Similmente accade all’immagine: non solo nasce alla durata dello sguardo a partire dallo “sviluppo” di un istante, ma guardare una fotografia è compiere un viaggio ottico che istituisce un proprio regime temporale, separato da quello feriale. Sebbene infatti un’immagine possa colpirci in un istante, la fotografia è proprio quel tipo di immagine che non si consuma, che anzi chiede di essere perlustrata in ogni angolo e guardata più e più volte: potremmo dire che la fotografia è il “sabato dello sguardo”, la “festa del visibile”. Proprio come nella festa, nel cuore della poesia come della fotografia non c’è altro che l’attesa di un’apparizione. T.S. Eliot nella poesia Gerontion lo dice così: “Signs are taken for wonders. ‘We would see a sign!’/ The word within a word, unable to speak a word”. Qualcosa che sembrava scomparso, eccolo: appare, “parola dentro la parola, incapace di dire una parola”. Penso a quella straordinaria foto di Giacomelli, scattata nel paesino abruzzese di Scanno, in cui fra alcune signore vestite di nero che attraversano lo spazio, al centro, appare in un alone biancastro l’immagine seria, fragile e adulta, di un bambino: ci guarda come da un’altra dimensione, come da un oltre-tempo, un tempo indifendibile e in procinto di sparire che è nondimeno tutto lì, matericamente attanagliato a quel supporto. In molte poesie di Verso le stelle glaciali ho provato a far accadere la stessa vibrante atmosfera. Ma in quest’ultimo libro ho provato anche a spingermi nell’immenso territorio dell’ecfrasi. Hai mai provato, Corrado? Se la lettura di una poesia come la perlustrazione di un’immagine creano un “tempo proprio” (un “tempo riflesso” potremmo dire!), cosa succede se il “tempo riflesso” del primo prova a mimare il tempo riflesso del secondo? Ovvero cosa succede se la scrittura provasse a mimare lo sguardo, ma non in ciò che vede, bensì nel tempo-durata che il guardare dischiude? Cosa succede se la scrittura provasse ad inabissarsi tutta nel tempo-durata dello sguardo che, mentre si scrive, tasta, palpa, tocca, sfiora, accarezza l’immagine? Provo a fare questo nella parte finale del libro, nell’Appendice, dove sono raccolte delle prose che descrivono un percorso possibile dentro le mappe che sono disseminate lungo le pagine. La mia preferita è quella relativa alla Mappa 7: un’immagine che mi è cara e la ripropongo qui. È del 2019 ed è stata scattata da un fotografo di Siracusa, Salvatore Ferrara, che gli ha dato un titolo che subito mi ha colpito: Suono. In quel momento del percorso, mi serviva un’immagine che non fosse dall’alto, in una posizione di dominio sullo spazio, ma che fosse immersa nell’elemento da cui proveniva, come parte di esso: come in pericolo, perché sul punto di farsi inghiottire. E Suono di Salvatore Ferrara mi è sembrata perfetta: qui lo sguardo di chi cattura l’immagine è assediato dall’elemento del mare, che, così nero, oleoso e serico, sfuggente e impalpabile, sembra essere il nulla in cui tutti noi andremo. Ecco: provare a dare un suono all’immagine! Hai mai provato, Corrado? Forse non sono già tante straordinarie immagini fotografiche un modo per racchiudere in una forma visibile e muta il suono di un’atmosfera?
C – Mi piace pensare alle immagini come a dei suoni muti. Forse è proprio partendo da questa idea che, soprattutto in Tempo riflesso, ho cercato di lavorare su una sorta di “metrica iconica”, dove è appunto la scansione delle immagini all’interno del testo a dare ritmo al verso. Non è vero – almeno per quanto mi riguarda – che il ritmo, il metro e dunque la “musica” di una poesia sia fatta solo di suoni. Penso che le immagini all’interno di un testo poetico possano determinare il metro stesso, qualcosa che va aldilà delle parole e delle sillabe, ma che riguarda un’idea di armonia più generale del testo. Maestro in questa operazione è stato senz’altro Baudelaire: le sue poesie sono un continuo esperimento di totalizzazione armonica del tessuto verbale, anche attraverso le immagini.
Hai colto con intelligenza il senso del titolo del mio libro, Tempo riflesso, dove parole e immagini sono “superfici” sulle quali il tempo si riflette fino a rapprendersi…forse il solo modo per afferrare davvero la sua durata. È dalle immagini e dalle parole che ci arriva palpabile l’esperienza del tempo: come un riflesso – come un raggio, per dirla con Roland Barthes. Nell’ultima sezione, che non a caso si intitola Apparenze, molti testi sono costruiti per ekphrasis. Queste poesie, che dialogano con le fotografie, tuttavia dicono anche che c’è sempre qualcosa dell’immagine non dicibile, non traducibile in linguaggio verbale. Penso, infatti, che un’immagine non sia mai del tutto riducibile alla parola. Per questa ragione a me interessa il rapporto tra immagine e parola anche quando ognuna non cerca di tradurre o di sostituire l’altra, ma quando ognuna si ribella all’altra, oppure intrecciano un dialogo a distanza.
Mi piace che tu utilizzi la parola “atmosfera” riferita alla visione. Un poeta rappresenta la realtà – il “mondo” per dirla con Rilke dell’Ottava Elegia Duinese – attraverso una “visione atmosferica”, presentando tutte le apparenze come fenomeni sospesi, e dunque non più come “fatti” da documentare. In questo modo ogni momento del mondo è riscattato dalla possibilità di ridargli una vaghezza, cioè di riportarlo al sentimento che abbiamo dei fenomeni. La stessa cosa accade per certi fotografi. Per esempio guardando quella fotografia di Mario Giacomelli scattata a Scanno, che pare davvero sospesa in un oltre-tempo, come osservi. Quell’oltre-tempo che abita e ci fa abitare anche la poesia.
Alcuni testi
Apparenze (da Corrado Benigni, Tempo riflesso, Interlinea, Novara 2018)
Nelle metamorfosi di Giacomelli
i nodi del legno sono maternità, schiena, capelli.
Se osservo i dettagli,
un tronco è un nudo di donna con i seni
o un uomo,
un paesaggio con un arbusto.
L’immagine è un alfabeto muto
che condensa il vero
di ciò che non ha nome.
Così l’albero tagliato diventa un fosso,
un’ombra, una scanalatura nella terra.
*
La fotografia è un testimone che non mente
porta impressa, sicura, la memoria
come la superficie l’orografia di un paesaggio.
Siamo se non nel segno di chi scrive
o guarda.
Così ci specchiamo nei corpi non trasfigurati
di un’immagine, nella loro violacea penombra.
Ma cosa divide dal nostro il loro destino?
*
Il tempo esiste solo
in ciò che sfugge al nostro sguardo,
un’illusione che nel suo svolgersi
scava a ritroso come una talpa.
Dentro l’invisibile giacciono
depositi di memoria,
strati di materia inesplorata, residui fossili
e l’impronta del presente
che contiene tutto quello che è stato,
perché tra due istanti c’è un’infinità di istanti.
* * *
da Tommaso Di Dio, Verso le stelle glaciali, Interlinea, Novara 2020
*
Apro il libro. Trovo
una fotografia del mille ottocento settanta.
I vetri grandi e trasparenti; sopra un palazzo
l’insegna dello studio di Nadar. Adesso
ci sono nuvole qui, rumore di pneumatici. Adesso
qui è quasi novembre. Chi è, invece
l’uomo che guarda? Nell’immagine è in alto
sopra il tetto; pressoché invisibile fra le fioriere
e il busto di pietra minuscolo. Ha il volto
macchia bianca, anonimo privo
di ogni dettaglio. Saranno dispersi; e racchiusi
in un segno integro
muto. Saranno capovolti dal gelo. Dall’aritmia
dei cieli saranno
sprangati dentro una montagna
dove una pioggia scarna
lavorerà
le loro fondamenta. Mentre qui
le metropolitane spartiscono
i flussi meccanici dei passanti, davanti
a questo libro aperto, resta
qualcosa meno di un sospetto; che una volta almeno
in una nuvola amorfa, in un’alba
lungo la pianura, in uno
sguardo fermo sulla neve, noi siamo
esistiti veramente.
*
n. 7 (su Suono, Salvatore Ferrara, 2019)
Questa è la mappa più spaventosa di tutte. C’è una leggenda a riguardo: se la si guarda a lungo, gli occhi diventeranno minuscoli sassi, pezzi di vetro opaco e liscissimo, come quei frammenti muti che dopo anni si ritrovano sulle spiagge più disparate, sperduti fra i granelli di sabbia, e che sembrano appartenere tutti alla stessa misteriosa origine. Qui sta la difficoltà della sua consultazione: bisogna guardarla con attenzione, ma velocemente, lasciando considerevoli intervalli di vuoto fra uno sguardo e un altro. Nondimeno il suo studio sarà essenziale al viaggiatore di questo libro: senza una meditazione profonda su quanto qui si mostra, difficilmente si arriverà da qualche parte. Abbiamo ereditato molti modi per consultarla. Uno in particolare sottolinea l’importanza di partire dal margine sinistro, in alto e, lentamente, un poco alla volta, scendere con lo sguardo fino all margine in basso a destra. Un percorso dal chiaro delle onde e del cielo, fin dentro il nero senza confini, notte di ogni orizzonte. Un’altra interpretazione sottolinea che in alto, al centro della mappa, la terra è nera e fluida, ambigua e umile proprio come il mare in basso, come se non fosse diversa la sostanza delle loro apparizioni. Per chi cerca la terra, questo è poi un dato importante. Dopo diversi attraversamenti dentro di sé e fra i confini, si vedrà bene che la luce non è più quella del proprio sguardo, ma è finalmente fuori, al di là della mappa, in un luogo più grande: la luce, dunque, è una direzione.
Alcune immagini
Figura 1, Felix Nadar, Studio (Rue des Capucines), 1874.
Figura 2, René Burri, Uomini su un tetto, 1960.
Figura 3, Salvatore Ferrara, Suono, Siracusa, 2019