di Rino Genovese

C’è stato nel Novecento un umanesimo del tutto a suo agio con la violenza come forza motrice della storia. Sartre scriveva: «considerata dal punto di vista di una società futura che nascerà grazie ai suoi sforzi, la violenza è un umanesimo positivo». E in nota, affinché non potessero esservi equivoci o esitazioni: «Non un modo di arrivare all’umanesimo. E neppure una condizione necessaria. Ma l’umanesimo stesso in quanto si afferma contro la ‘reificazione’»[1]. Sappiamo che si sarebbe trattato della guerra di liberazione anticoloniale nei paesi del terzo mondo, dell’ipotesi di guerra civile rivoluzionaria o di rivoluzione tout court in Occidente, e anche del terrore come strumento necessario al consolidamento di un potere nato da un sommovimento sociale e politico. In virtù di uno schema progressista di filosofia della storia, la violenza non solo si giustificava ma era addirittura auspicabile. Dopo il crollo di questo schema, invece, quasi per un contraccolpo, è andato smarrito il senso della sua impronta obiettiva nella società e nella storia: la violenza c’è ancora, molto diffusa ma sempre insensata: perché, con il venir meno di una storia orientata al progresso, è caduta al tempo stesso qualsiasi sua possibile giustificazione lungo il cammino verso ciò che Sartre chiamava l’homme integral.

Il suo impegno politico faceva dell’intellettuale, come si diceva allora, un “compagno di strada” del comunismo, intendendo (almeno fino al Sessantotto, che cambiò i termini della questione) il comunismo di marca sovietica e il partito francese, noto per la sua ortodossia. Un destreggiarsi difficile: l’intellettuale restava autonomo, disorganico, in una certa misura persino individualista, ma aderiva, con alcune riserve di tipo più teorico che politico, alla strategia comunista, utilizzando l’argomento “realistico” che il grosso della forza potenzialmente rivoluzionaria, il proletariato industriale, marciava dietro le sue insegne. Sartre del resto nutriva un vero e proprio disprezzo per i piccoli gruppi che, presumendo di sfuggire all’asprezza della storia, pretendevano di coltivare l’utopia in un orticello. La matrice esistenzialistica del suo pensiero, in quanto negazione del dover essere e preliminare accettazione di un destino di finitezza, impediva qualsiasi connessione con una prospettiva utopica, tendenzialmente infinita. Un’ipotesi di trasformazione – anche di cambiamento del comunismo stesso – doveva quindi confrontarsi con l’esistente, con il “socialismo reale”, non con quello immaginario.

Ciò non valeva solo per Sartre. Uno come Merleau-Ponty, che sulla questione del comunismo e dell’Unione Sovietica alla fine entrò in urto con lui, nell’essenziale la pensava alla stessa maniera. A rileggere Umanismo e terrore, il libro del 1947 che Merleau-Ponty dedicò ai processi farsa staliniani, si resta sorpresi dal rispetto tributato al “comunismo effettivo”: le critiche ci sono, ma appaiono fin troppo prudenti.[2] Certo l’intervento va contestualizzato (gli anni dell’immediato dopoguerra ponevano l’Unione Sovietica in una luce particolarmente favorevole per il duro contributo dato alla sconfitta della Germania hitleriana); però resta il fatto che nella sua filosofia della storia appaiono accettabili la violenza e il terrore. Si tratta soltanto di stabilire quale sia la violenza liberante, umanistica, e quale invece quella che conferma lo status quo. L’intero libro è costruito intorno a questo distinguo: l’Unione Sovietica sarà davvero orientata all’umanesimo o non si dovrà immaginare una correzione di rotta? Le notizie che arrivarono di lì a poco riguardo ai dieci o quindici milioni di cittadini sovietici rinchiusi nel gulag, resero più grave e complicato il giudizio; e furono l’elemento principale della rottura di Merleau-Ponty con il comunismo e con Sartre. Che cosa fosse lo stalinismo, al netto del mito, era però noto fin dagli anni trenta: a giustificare un discorso critico prudente c’erano le ragioni della tattica politica – non fare il gioco degli anticomunisti – e l’idea del progresso incarnato, sia pure in modo tortuoso, dal comunismo sovietico. Inoltre c’era l’obiettivo di non perdere il contatto con la classe operaia rivoluzionaria. Così il personaggio dello scrittore messo in scena ne I mandarini di Simone de Beauvoir, ricalcato in parte sulla figura di Sartre, tace circa i campi di lavoro e d’internamento sovietici per non offrire un pretesto alla destra (ciò che il Sartre reale non arrivò a fare, senza tuttavia spingersi fino alla rottura con i comunisti come Merleau-Ponty):

«E perché scrivevo? Perché l’uomo non vive di solo pane e perché credevo alla necessità del superfluo. Scrivevo per salvare tutto ciò che l’azione trascura: le verità del momento, l’individuale, l’immediato. Pensavo, fin qui, che questo lavoro completasse quello della rivoluzione. Ma no: l’ostacola. Oggi, ogni letteratura che cerchi di dare agli uomini altro che il pane, serve agli altri per dimostrare che, del pane, gli uomini possono farne benissimo a meno.»

«Voi avete sempre evitato questo malinteso.»

«Ma le cose sono cambiate» disse Robert. «Capisci» riprese, «oggi la rivoluzione è in mano dei comunisti, e di essi soli; i valori che noi difendevamo, in questo clima, non hanno più posto; forse li ritroveremo, auguriamocelo: ma se ci ostiniamo a difenderli in questo momento, serviamo la controrivoluzione.»

«No, non voglio crederlo» dissi. «Il gusto della verità, il rispetto degli individui, non possono essere nocivi.»

«Se ho rifiutato di parlare dei campi di lavoro, è perché la verità m’è parsa nociva» disse Robert.[3]

Questo brano esprime con drammatica chiarezza le difficoltà della “stagione dell’impegno”. La letteratura risponde a fini di salvezza dell’individuale che la rivoluzione trascura ed essa, invece, sta lì a ricordarle. Ma, stretta nell’alternativa tra le esigenze della rivoluzione e il pericolo della controrivoluzione, la letteratura tace per non fare il gioco dell’avversario. La verità, infatti, può diventare nociva.

Ci sono ovviamente molte obiezioni possibili a questa tesi. La prima è che non c’era un campo rivoluzionario dalla cui parte schierarsi, perché l’Unione Sovietica non era già più da alcuni decenni quel paese che diceva di essere. Una seconda è che la verità non può essere taciuta senza recare danno, in una prospettiva temporale lunga, alla causa che s’intende sostenere… Ma la questione non si lascia chiudere qui. La prima controbiezione è di natura contestuale: in quel momento la vicenda storica poteva anche indurre a ritenere che il comunismo sovietico, pur con le sue terribili contraddizioni, fosse l’alba di una nuova umanità; e soprattutto che fosse il baluardo della pace contro la possibilità della terza guerra mondiale sostenuta dai circoli imperialisti americani. È con il senno del poi, riflettendo sulla situazione dell’epoca, che si arriva alla conclusione che l’ “equilibrio del terrore”, implicato dalla rispettiva corsa agli armamenti nucleari da parte delle due superpotenze, era in sé un fattore obiettivo di mantenimento della pace. È pur vero, tuttavia, che non ci si metterebbe a spifferare un segreto militare, o a insistere su qualcosa che non va, se ci si ritenesse implicati in una guerra dall’intrinseco contenuto liberatorio (per esempio se, da militanti della Resistenza, venissimo a sapere che un nostro compagno si è macchiato di un delitto la cui denuncia, in quel momento, potrebbe ledere il prestigio dei resistenti presso la popolazione). Insomma impegnarsi comporta una parte di buio: il cono d’ombra che la stessa luce del “prendere posizione” proietta, e anche la zona di oscurità che, in principio, fa da sfondo alla scelta. Se fossimo onniscienti, se conoscessimo tutte le condizioni sotto cui un avvenimento avviene, se sapessimo fin dall’inizio come la storia va a finire, non ci sarebbe bisogno di prendere di volta in volta posizione; un impegno, invece, è avvolto sempre in una parziale oscurità, quindi è aperto al rischio dell’errore che soltanto l’impegno successivo può correggere.

Ciò è palese, eppure nemmeno questa considerazione è sufficiente a chiudere il discorso. Nella vicenda novecentesca dell’impegno c’è un doppio movimento, uno centripeto e uno centrifugo, oppure uno convergente e uno divergente. Il primo riconduce le prese di posizione alla teoria, nel caso a quella marxista, o piuttosto a un’ideologia come insieme di credenze investite affettivamente (le immagini dell’umanesimo integrale, per esempio, del socialismo e del comunismo), capaci di conferire realtà all’ineffettuale, a ciò che nella storia ancora non c’è ma potrebbe esserci. Il secondo è il movimento che apre o riapre criticamente la visione delle cose consegnandola alla disputa, alla sua tipica girandola dei punti di vista (si collocano in questo ambito tutte le obiezioni che sia Sartre sia Merleau-Ponty muovevano al marxismo ortodosso e all’Unione Sovietica). Soprattutto questo secondo movimento dev’essere considerato e rilanciato oggi, dopo il crollo della filosofia della storia  – e magari in attesa di una sua ricostruzione, come vedremo nel seguito, basata sull’idea che non c’è il progresso ma solo dei progressi a partire da situazioni date.

Sbagliava allora il mio ex amico Antonio Moresco quando imputava all’impegno sartriano una sorta di nulla di fatto, sostenendo, nel corso di una conversazione, che tra le tante prese di posizione negli anni, pro e contro, alla fine era come se nessuna posizione fosse mai stata presa e tutto fosse rimasto al punto di partenza. Consisteva invece proprio in questo l’aspetto decisivo dell’impegno: non nel ricondurre gli svariati elementi di giudizio all’ideologia, ma nel romperla spargendone i pezzi, mostrando quanto inconclusivo (sebbene non inconcludente) possa essere uno spirito critico applicato alla politica e alla storia.

Così l’odierno uso dei “diritti umani” in chiave di legittimazione dell’ingerenza umanitaria – da parte di personaggi la cui discendenza dal modello sartriano dell’intellettuale appare un’ironia della storia – rovescia l’impegno di ieri per la pace nella richiesta di una guerra pressoché continua in ogni regione del mondo, con l’obiettivo presunto di risolvere conflitti e crudeltà locali posti ormai sotto la cappa di una violenza insensata, e assume come esclusivo il movimento dei punti di vista diametralmente opposto a quello decisivo: non rompe cioè l’ideologia, tende a stabilirne una sostitutiva nel segno neoliberale.


[1] J.-P. Sartre, I comunisti e la pace (1952), trad. it. in Il filosofo e la politica, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 71.

[2] M. Merleau-Ponty, Umanismo e terrore, trad. it., Milano, Sugarco, 1978.

[3] S. de Beauvoir, I mandarini (1954), trad. it., Milano, Mondadori, 1961, p. 483.

[Immagine: Luca Del Baldo, Jean Paul Sartre (gm) – http://www.lucadelbaldo.com/art/work/atlas-philosophy/]

2 thoughts on “Il destino dell’intellettuale /6. Prendere posizione

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