di Veronica Barassi
“Le possibilità umane sono sempre – in ogni modo – più grandi di quello che molto spesso crediamo.” (Graeber, Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion and Desire, p. 1).
È una frase che mi segue da sempre. Ho finito con quella frase il mio primo libro, e anche la mia tesi PhD. La sera della mia festa di dottorato, David era lì. Lavoravo come sua assistente da un anno, ed era diventato il mio supervisor proprio verso la fine del dottorato. Quell’anno io ho finito la mia tesi, e lui ha scritto Debt: I primi 5000 anni. È stato un vero regalo che venisse quella sera, lui con i suoi maglioni bucati dalle tarme di Londra e i suoi lunghi monologhi che non finivano mai; come non finiva la nostra voglia di stare ad ascoltarlo. Non ho mai conosciuto una mente come la sua, e fin da subito mi sono resa conto di come stare ad ascoltarlo – tra un pub, una birra, e una lezione di antropologia – fosse un privilegio immenso, un’esperienza unica nella vita. Avevo ragione.
David è morto a Venezia ai primi di settembre e io non mi sono affatto stupita di vedere i giornali internazionali parlare di lui come di uno dei più grandi intellettuali dei nostri tempi, colui che aveva ispirato la famosa frase “We are the 99%” per Occupy Wall Street. A leggere quegli articoli, pensavo che fosse un paradosso. David ha sempre cercato di spiegare che “We are the 99%” era il prodotto di un lavoro collettivo, ma nella nostra società individualista e consumista non crediamo nel potere della collettività e finiamo sempre per cercare idoli da seguire, come testimoniano quegli articoli di giornale sulla morte “dell’antropologo anarchico”. Leggerli è stata la conferma di quello che ho imparato da David: culturalmente siamo stati talmente influenzati dal pensiero individualista e liberale che non riusciamo nemmeno ad immaginare una società diversa.
Questa è la grande differenza tra David ed il resto del mondo, almeno ai miei occhi. David era eccentrico, geniale, era un grandissimo antropologo. Per me, aveva una cosa che lo differenziava da tutte le persone che ho incontrato nella mia vita: aveva una fede immensa nelle possibilità umane. David era davvero convinto che potessimo costruire una società diversa. Non gli piaceva essere definito un antropologo anarchico, ma vedeva l’anarchia come una scelta etica, come un modo di vivere. Lui credeva davvero che si potesse costruire una società più giusta. Se mai avesse avuto un dubbio, non l’ha mai lasciato vedere, almeno non a me. Era proprio quell’assenza di dubbio che mi stupiva ogni volta.
David non aveva avuto una vita facile. Era cresciuto a New York da una famiglia ebrea di intellettuali di sinistra della working class. L’ingiustizia sociale del sistema americano l’aveva respirata fin da bambino. Questo gli aveva insegnato che i discorsi liberali statunitensi di uguaglianza e democrazia erano in fondo solo quello, discorsi. Avevano poco a vedere con l’uguaglianza e la democrazia come le vedeva lui. Nonostante questo, David credeva profondamente nelle possibilità umane. Credeva anche che la nostra poca fede nella collettività, nell’autogestione, nel rispetto reciproco – mancanza di fede spesso tradotta in un bisogno di regole, di autorità, di sistemi repressivi – fosse il frutto di una costruzione culturale e politica. Pensava che ci fossimo fatti influenzare da Hobbes, da Adam Smith e da una bizzarra ossessione per gli antichi greci. Era convinto che culturalmente ci fossimo trovati a credere in una visione dell’umanità e degli istinti umani profondamente sbagliata.
Questa interpretazione della storia la deve al suo mentore Marshall Sahlins. Nel suo libro The Western Illusion of Human Nature (2008), Shalins spiega come la civiltà occidentale sia stata ossessionata dallo spettro di una natura umana egoista, avida e litigiosa che deve essere tenuta a bada da regole e autorità. Shalins spiega anche come questa idea di umanità avida e guerrafondaia sia stata rafforzata da coloro che avevano in mano il potere sociale. Fa anche vedere che questa “illusione” sulla natura umana non ha niente a che vedere con gli istinti umani. Insieme a David, Shalins ha scritto un altro libro, On Kings (2017), dove analizzano il ruolo storico e antropologico dei Re. Insieme dimostrano come lo studio dei Re ci offre una prospettiva unica non solo sulla natura del potere, ma su come interpretiamo la natura e la condizione umana. Viviamo con l’idea che gli istinti primitivi umani siano l’avarizia e l’egoismo, e ci dimentichiamo di quanto siamo continuamente esposti a forme di altruismo, empatia, e solidarietà collettiva.
Il libro di Shalins ce l’ho sul mio tavolo in ufficio. David me l’aveva prestato e io mi sono sempre dimenticata di ridarglielo. Proprio alla fine di agosto l’ho ritrovato dopo anni di traslochi e mi ero riproposta di spedirglielo. Non eravamo più in contatto da molto tempo, ma ho pensato che fosse importante mandarglielo. Pochi giorni dopo ho ricevuto la notizia della sua morte e ho letto molti articoli di tributo a David, pieni di elogi soprattutto per il suo lavoro su Debt (2011) o Bullshit Jobs (2018). Apprezzo molto il suo lavoro di antropologia economica, la sua capacità di far apparire Adam Smith, Keynes e i fondatori del capitalismo moderno come semplici uomini, influenzati – come tutti noi – da preconcetti culturali ed ideologici. Capisco il successo di Debt o di Bullshit Jobs, David è davvero uno dei più grandi antropologi economici dei nostri tempi. Questo è chiaro dal suo primo libro, Toward an Anthropological Theory of Value (2001), una rivoluzione per l’antropologia economica, e dal fatto che gli sia stato offerta la Malinowski Memorial Lecture nel 2006, organizzata dalla London School of Economics, un’occasione offerta solo ai grandissimi del pensiero antropologico.
Pur riconoscendo la grandezza intellettuale di David in questa materia, le teorie che veramente hanno cambiato la mia prospettiva sulle cose e di cui sentirò maggiormente la mancanza sono le sue teorie sull’immaginazione, la narrativa e sulla violenza burocratica. Ho lavorato come assistente di David per più di due anni, tra il 2009 e il 2011. Insegnavamo un corso che si chiamava “Antropologia, Rappresentazione e Media Contemporanei”. Il corso doveva analizzare i media, la comunicazione, il simbolismo – ’area del mio dottorato e specializzazione – ma fin da subito mi sono resa conto che il corso era ben diverso da quello che io mi ero immaginata. Era diventato una meravigliosa piattaforma dove David poteva esplorare i suoi interessi, dalle teorie del valore umano all’importanza e peso politico delle storie.
Nella tristezza della sua morte, nell’assenza di altri modi per elaborare il mio lutto, sento il bisogno di descrivere quello che più mi ha colpito delle sue lezioni e pensiero, anche se so che questa è solo una versione ridotta e semplificata di quello che mi ha insegnato David. David leggeva Marx in maniera molto diversa da altri. Per lui Marx era stato accusato ingiustamente di ‘materialismo storico’ quando, in realtà, le sue teorie parlavano spesso di immaginazione, creatività e concetti spirituali (per esempio il feticismo). Nel suo libro Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion and Desire (2007), David parla di come Marx credesse che la creatività e le facoltà critiche umane originassero dalla stessa fonte: l’immaginazione. L’immaginazione è per Marx ciò che differenzia l’uomo dall’animale: l’architetto – a differenza di un’ape – è capace di erigere nell’immaginazione il suo edificio (p. 114-115). Leggendo Marx, David aveva capito che è nell’immaginazione che risiede lo spirito rivoluzionario, la possibilità di concepire una società diversa. Si era anche reso conto, però, di come l’atteggiamento di Marx verso l’immaginazione fosse in fondo un po’ ambiguo. Se da una parte, per Marx, le facoltà critiche hanno origine nell’immaginazione, dall’altra i rivoluzionari non possono cercare di fare il lavoro degli architetti, non possono cercare di creare un’immagine specifica di una società diversa – sarebbe utopico.
David non è certo stato il primo a notare la connessione tra Marx e l’immaginazione. Castoriadis, noto teorico Marxista, ha scritto per esempio un intero libro sull’importanza dell’immaginazione. Ma quello che distingue David da Castoriadis, e da altri, è l’idea secondo cui è proprio nel processo antropologico dell’immaginazione che si nasconde la chiave delle disuguaglianze sociali.
In Possibilities, ma anche in Revolution in Reverse: Essays on Politics, Violence, Art and Imagination (2011), David racconta di come le persone che sono in posizione di disuguaglianza sociale si trovino a fare un complesso lavoro d’immaginazione. Questo è chiaro, secondo David, se pensiamo alle donne. Quante mogli, amanti, collaboratrici domestiche si sono così spesso trovate ad ‘immaginare’ i bisogni dell’uomo di casa. Io non sono cresciuta con un padre, ma ricordo bene quanto lavoro d’immaginazione richiedesse a mia nonna e mia madre (e per riflesso a me e a mia sorella) fare felice mio nonno. È proprio questo lavoro, secondo David, che distingue le donne dagli uomini e in generale tutte le classi, le etnie e i gruppi sociali che loro malgrado si trovano in una posizione di subordinazione da quelli che invece si trovano in una situazione di potere.
Mia nonna passava le sue giornate ad immaginare cosa desiderasse mio nonno, dalle cotolette cucinate in un determinato modo alla camicia stirata. Dubito fortemente (e ancora spero di essere contraddetta) che mio nonno facesse lo stesso lavoro di immaginazione. David ne era consapevole. In Revolution in Reverse, per esempio, racconta di come:
“generazioni di scrittrici – mi viene subito in mente Virginia Woolf – hanno documentato…il lavoro costante che le donne svolgono nel gestire, mantenere e adattarsi all’ego di uomini apparentemente ignari di cosa comporta un lavoro infinito di identificazione immaginativa – e questo l’ho chiamato lavoro interpretativo. Questo si ripercuote ad ogni livello. Le donne immaginano sempre come sono le cose dal punto di vista di un maschio. Gli uomini non fanno quasi mai lo stesso con le donne.” (p. 50).
Nella mia vita mi sono trovata a fare il lavoro interpretativo per molti: per mio nonno, per i mei capi (e anche per David), e per tutte le persone di potere che ho incontrato. Mi sono anche trovata in situazioni dove altri facevano il lavoro interpretativo per me: le mie bambine, le mie assistenti e tutte le persone che hanno lavorato per me. Ma in queste situazioni le teorie di David mi hanno sempre aiutata e hanno sempre contribuito a definire le mie scelte etiche. Magari sono un’illusa, ma grazie a David ho sempre pensato che fosse un lavoro importante provare ad immaginare il mondo attraverso gli occhi delle mie bambine, le mie assistenti e le persone che svolgono lavori per me. Non credo di avere trovato la ricetta etica per eccellenza, ma sicuramente, grazie a David, riesco a vivere un po’ meglio con me stessa.
David ha avuto un’influenza enorme sulla mia vita. Quando ero la sua assistente, stavo lavorando al mio dottorato in Antropologia dei Media e una mattina mi sono trovata ad assistere ad un corso di David sulla narrativa. Quella mattina sono entrata nella classe con un bagaglio accademico su come leggere le storie e le narrative imparato duranti i corsi di Scienze della Comunicazione, un bagaglio concettuale che spaziava da Propp a Stuart Hall. Eppure, quella mattina, David mi ha aperto un mondo completamente nuovo. Non ha dovuto fare uno sforzo enorme, ma mi ha fatto capire che tutte le storie che raccontiamo, i film, i programmi televisivi, gli articoli di giornali e le milioni di storie che compongono la nostra vita quotidiana vengono spesso rappresentate e messe in atto in quello che viviamo.
Per esempio, i miei studi di Scienze della Comunicazione mi hanno convinto che se leggiamo il significato nascosto di molte pubblicità o film o algoritmi, finiamo per trovare un’impronta spesso sessista e razzista del mondo. Ma quella mattina David mi ha fatto vedere che queste interpretazioni della realtà non le troviamo solo nei film, pubblicità e algoritmi, ma nella maniera stessa in cui viviamo. Quella mattina mi sono accorta che le storie che raccontiamo sono anche le storie che accettiamo di vivere, e nell’accettare di vivere queste storie finiamo per perpetuare le disuguaglianze della nostra società.
Lo ricordo ancora. Era un inverno tipicamente londinese; l’aula piena con quelle facce convinte degli studenti di Goldsmiths, David aveva un’aria addormentata, ma allo stesso tempo vivace e allegra. Mentre parlava delle storie che costruiamo e viviamo ogni giorno, si è concentrato su esempi molto specifici. Ha parlato del raccolto agricolo, del lavoro fatto dai contadini, i mezzadri o servi della gleba; coloro che spendevano giorni, settimane, mesi a lavorare nei campi. Poi ha parlato dei loro padroni, coloro che arrivavano ad una determinata data dell’anno a celebrare il raccolto, con i loro rituali, con le loro cerimonie; si prendevano l’onore del lavoro eseguito e cancellavano l’onore degli altri. Quella mattina David ha fatto anche l’esempio delle donne, ha parlato delle donne durante il Thanksgiving. Ha parlato di come le donne passassero giorni a preparare il tacchino e il pranzo, e di come ‘l’atto d’onore’ di tagliare il tacchino spettasse all’uomo di casa. Questi ‘atti d’onore’ hanno scandito la nostra storia. Non ricordiamo gli schiavi che hanno costruito i monumenti, le donne che hanno cucito i tessuti: ricordiamo solo gli uomini che si sono impossessati dei momenti di gloria. Mio nonno amava questi ‘atti d’onore’, io li ricordo bene, e quella mattina David è riuscito a toccarmi a fondo. È riuscito a toccare i miei ricordi di bambina e farmi sentire parte della storia.
Vorrei continuare a scrivere di tutte le cose che ho imparato da David, di come la sua cieca fiducia che la burocrazia fosse una forma di violenza e di nichilismo umano continui ad influenzare il mio lavoro. Uso molte delle sue teorie per definire il mio nuovo progetto di ricerca sull’intelligenza artificiale e l’errore umano. Ogni giorno mi chiedo come David vedrebbe le cose a cui sono interessata ed il suo esempio mi fa confrontare con scomode domande politiche ed etiche.
Ho conosciito David Graeber solo leggendo della sua morte. Ora ho ordinato alcuni dei suoi libri e seguo tutti i commenti che si pubblicano. Peccato se ne sia andato cosi’ presto.
Carlo
Ho anche io conosciuto Graeber aprendo la pagina di Internazionale dopo la sua morte. Peccato. Undici anni fa eravamo a Londra e mia moglie faceva il PhD in Archeologia a UCL e conosceva David Wengrow con cui David Graeber ha scritto, per cui avevo 2 gradi di distanza da lui..
Penso che ci sia un movimento nelle scienze sociali, che osservo da profano, che cerca di costruire modelli guardando ai dati e non basandosi su preconcetti o idee astratte.
Nell’imprenditoria nasce il concetto di startup Zebra in contrasto con gli Unicorn. Le startup Zebra solo collaborative, lean, cercano di fare profitti da subito, senza aver bisogno di ingenti investimenti da parte di venture capital.
Tutto ciò per dire che c’è un trend verso delle attività collaborative che seguano una direzione radicata nella realtà in tutta la sua complessità e non in un ideale astratto. Da quel poco che ho potuto leggere anche David Graeber sembrava andare in questa direzione.