di Andrea Cortellessa

 

È il 15 settembre del ’57. Il giovane slavista in visita a Mosca, scortato dall’irruente e ancor più giovane poeta Evgenij Evtušenko, a bordo di una Zis raggiunge la dacia di Boris Pasternak a Peredelkino. Da quella «topografia onirica» sortisce il Maestro «barcollante come un sonnambulo». Il giovane sa già che questo incontro avrà per lui il valore di un rituale di identità (o, meglio, disidentità); lo racconterà, poi, anche in versi. Pasternak scruta quei capelli picei, gli occhi a mandorla, i baffetti: «mi venne incontro e mi tese la mano, / vestito di tela bianca, con un sorriso chiedendomi: “Siete un poeta georgiano?”». Evtušenko dirada l’equivoco: no, è un «professore italiano». «Ah benone… Anche gli italiani mi piacciono molto».

 

L’episodio lo racconta qualche anno dopo sul «Corriere della Sera», Angelo Maria Ripellino, in uno dei quasi duecento mirabolanti pezzi che affollano i ponderosi quanto festosi, impeccabili volumi curati da Antonio Pane e Umberto Brunetti: nei quali (dopo antipasti succulenti come Nel giallo dello schedario, curato dallo stesso Pane con Alessandro Fo nel 2000) è raccolta pressoché integralmente la sua produzione giornalistica a tema letterario (quella teatrale non meno copiosa, trent’anni fa con Siate buffi, ha dato abbrivo alla lunga fedeltà dei suoi curatori-moschettieri), fra il 1941 e il 1976 (due anni dopo, a nemmeno 55 anni, Ripellino si arrenderà ai polmoni tarmati che lo insidiavano sin dalla giovinezza).

 

Intensamente palermitano, anche se deportato a Roma adolescente, dirà che per lui «una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga»: e questo senso irresistibile dell’altrove è il lievito più affatturante della sua scrittura. Dirà l’amico artista Piero Dorazio che «leggendo la sua critica, la sua poesia, si ha l’impressione di non essere a Roma»; e forse, si può aggiungere, di non essere più confinati, proprio, nelle bassure di questo mondo. Fare accesso alle Wunderkammern di Ripellino significa viaggiare in forma virtuale, come è d’uopo di questi tempi; dice lui, alla fine d’una scorribanda nel “suo” Hoffmann: «sarà poi triste sottrarsi a quella magia, uscendo dai libri nel traffico atroce di Roma, dove è ormai raro vedere unicorni candidi come la neve e struzzi che tirino su quattro ruote un enorme tulipano d’oro».

 

Posso testimoniare che la scorta dei volumoni di Ripellino mi ha salvato l’anima, nell’anticamera angosciante d’un policlinico di periferia. Una volta lui, l’arcimalato, lo confessò al patografo Guido Ceronetti: è stata proprio quella «condizione di ansima e di febbrilità» che lo ha sempre accompagnato (e che, nei versi non per tutti i palati, lo porta a una «compassione di se stesso» consapevolmente prossima al «mélo»), quella «vertigine della malsanìa», ad avergli donato «un’ansia bruciante di vita», la volontà indistruttibile di «partecipare di tutti i colori e di tutte le gioie del mondo, di essere gioia io stesso». Ed è proprio così: ogni frase di Ripellino letteralmente brilla di una fame – di continuo nutrita ma mai appagata – di esperienze, di conoscenza, in una parola di vita; e insieme della gioia di condividere quei tesori: di contagiare il prossimo di quel luccichio, di quella vertigine, di quella sua febbre. Certo lo scrivere sui giornali, come il tradurre e l’insegnare, era per lui una professione retribuita. Ma era soprattutto l’occasione di una sfrenata jouissance verbale (fra i materiali brilla una Lettera sulla cultura fonica del ’47, in cui il cultore di Majakovskij fustiga professori e poeti nostrani «noiosi per la loro monotonia fonica»; lui di contro baderà sempre all’«organizzazione scenica del materiale critico»).

 

Poi non andava sempre tutto così liscio, si capisce. Quell’altrove metafisico era il riflesso di una instabilità, di un’«assenza di asilo» – sentimento squisitamente russo che diagnosticava ad Aleksandr Blok – che poteva farsi angosciosa. Per esempio in senso ideologico. Dopo l’esordio adolescente su riviste della gioventù fascista in odore di fronda, nel ’47 approda sulle colonne dell’«Unità», e tenta di adattarsi all’ortodossia di allora; ma già l’anno dopo, nella sua Praga, il ministro Masaryk viene suicidato, prende il potere Gottwald, e le cose cominciano a prendere una certa piega. Sulla «Fiera letteraria» si azzarda a presentare (in forma anonima) Anna Achmatova, che il compagno Ždanov aveva appena definito «monaca e sgualdrina». E così, già all’inizio del ’49, deve prendere cappello. Nel ’72 farà endorsement per il PSI; e il giornale dove si troverà meglio sarà, a partire dal ’65, «L’Espresso»: dove fra il ’67 e il ’71 tambureggerà con più coraggio di tutti – proprio lui, il Pierrot lunaire – i «fatti» della Primavera di Praga e della sua feroce repressione (a cura ancora di Pane, nel 2008, L’ora di Praga).

 

Ma l’assenza di asilo si fa sentire anche editorialmente. Lui, che pure è stato fra i consulenti storici di casa Einaudi, nel ’75 (a fronte dell’accoglienza tiepida delle sue poesie) scriverà al divo Giulio di scoprirsi tra loro, «nonostante i lunghi anni di affettuosa e non oziosa fedeltà», un «estraneo»; e in effetti (documenta la bellissima strenna einaudiana delle sue Lettere e schede editoriali, allestita da Pane nel 2018), a fronte dei mille progetti gloriosamente in porto, non mancano le “incompiute” dolorose (e a posteriori inverosimili): come uno dei vertici assoluti della prosa del Novecento, la Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam, da lui invano proposta a Via Biancamano e uscita invece, due anni dopo, da De Donato (o, ancora, Hrabal, Remizov, Witkiewicz, Zbigniew Herbert: andati per lo più ad abbellire, anni se non decenni dopo, i cataloghi adelphiani…). Per non parlare dell’Accademia: lui, che è stato fra i massimi maestri del Novecento (come testimonia tutt’oggi il culto sanguinoso degli ex allievi), soffriva le stretture del «ranch» disciplinare; citerà una lettera di Šklovskij a Jakobson: «La verità è che sei un clown, – ma dimmi: perché fai l’accademico? Sono tediosi, vecchi tre secoli. Sono incessanti, immortali». E se la prenderà con la «ciurmaglia» di quei «critici, che non hanno nemmeno il sospetto di ciò che siano la sincronia e la convergenza delle arti».

 

A dispetto degli spazi ristretti (ma ben più generosi di quelli odierni) parrebbe proprio questo dei giornali, in effetti, il playground più congeniale alla mercuriale libertà di accostamenti, in specie agli equilibrismi verbovisivi e scenici che sono il reame di Ripellino: il quale spesso usa questi pezzi come «affluenti dell’Orinoco» della prosa saggistica maggiore (quella di capolavori come Praga magica o Saggi in forma di ballate): al modo che attribuiva al maestro Ettore Lo Gatto, studioso e giornalista. Anche qui va in scena la sua «prosa in subbuglio, tutta squarci, folgorazioni, delirio» (così definisce quella di Andrej Belyi); anche qui si assiste al gioco di maschere che gli farà definire la «critica» un «travestì di romanzo e poesia». Unico termine di paragone possibile, quello di un compagno del Gruppo 63, Giorgio Manganelli (che peraltro non lo amava): in quella similcritica, menzogna di terzo grado, che era per lui appunto la recensione – come ci ha mostrato la pirotecnica silloge appena curata da Silvano Nigro per Adelphi, Concupiscenza libraria – siamo agli antipodi del «tiravìa giornalistico» tanto disprezzato da Ripellino (il quale una volta, nove anni prima del dovuto, da un certo giornale si vide dato addirittura per morto).

 

Ha ben detto una volta Alessandro Fo che «le prose “giornalistiche” di Ripellino sono anche un importante episodio didattico, una lezione di stile, di Scrittura che […] si apre in alta lezione di etica». Etica del giornalismo, certo, ma in primo luogo dell’esistenza. Ogni occasione, anche minima, poteva essere il varco di una rivelazione (per esempio le tre paginette scritte a tamburo battente all’uscita del deludente film tratto dal Maestro e Margherita, nel ’72, gli consentono di sciogliere diversi enigmi del capolavoro di Bulgakov). Lui, che visse sempre in proroga, se lo diceva: «Bisogna compiersi fino in fondo, “essere”, prima che vengano a prenderti». A prenderlo non verrà qualche torva ghepeù kafkiana, ma quel suo senso di urgenza era non meno metafisico. «Imperversa, imperversa, prima che sia troppo tardi», scriverà nella sua ultima raccolta di poesie. L’ultimo pezzo è un programma di sala per lo spettacolo memorabile di Carmelo Bene, Quattro diversi modi di morire in versi del ’76, e si conclude coi versi di Majakovskij, «Io voglio esser compreso dalla mia terra: / se non sarà compreso, che importa. / Per la terra natia passerò di sghembo / come passa la pioggia storta». Lo sghembo Ripellino, letto oggi, ci pare la cosa più “retta” che si possa immaginare. E vale allora, piuttosto, quest’altro suo pronostico: «sparita la stirpe degli Aridi, un giorno / parecchi avranno sete di bianca fantasia. / Per loro io lavoro, per di qui a cento anni».

 

Angelo Maria Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), a cura di Umberto Brunetti e Antonio Pane, Torino, Aragno, 2020, due voll. per 864 pp. complessive, € 60.

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Tuttolibri»

 

8 thoughts on “Angelo Maria Ripellino, o dell’imperversare

  1. “ Domenica 22 novembre 1998 – Alla memoria di Angelo Maria Ripellino – che non ho mai conosciuto, che non ho neanche mai letto – dedico questo testo di diario – che mi è venuto in mente – che d’altra parte gli era dedicato: « Sabato 29 giugno 1996 – “ All’anima del trucco! “ » “.

  2. “Com’era tutto «magico», in Angelo Maria Ripellino, oltre che la sua Praga. Era una personalità incantatoria e assorta, abitante del Meraviglioso e abitata dal Fantastico. Trasognato, ispirato, esorbitante e lampeggiante, misteriale e cinetico. Attratto dall’imagerie come dalla clownerie, dal ciarpame carnevalesco dei ceffi, dei ghigni, dei grugni, dalle cabale e frappe bislacche nelle appariscenze sgangherate e diaboliche.”

    Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi, Milano, 2014 p. 434

  3. “L’unica nostra consolazione è vedere al mattino nei bidoni della spazzatura i resti di gójlemess, che durante la notte si sono disgregati in un marciume d’argilla. Ma è magro conforto: per un golem che si dissolve, cento altri ne spuntano, mentre purtroppo si vanno spegnendo di crepacuore o tapinano per il mondo i migliori di noi.”

    Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi, Torino, 1973 p. 187

  4. Oh, se invece di tanta minutaglia,/ nei miei versi torpidi e sbandati, /si spiegasse l’intera carta del mondo./ Ma che fare se agli occhi si stagliano/ solo frastagli di foglie, cavallini malati,/ cionche reliquie, congedi con brividi,/ e quindi lividi autunni che piangono?/ La memoria fallisce, e non sa dirvi/ dove si trovino il Brahmaputra e Rio Branco,/ gli affluenti dell’ Orinoco, lo stretto della Sonda./ Conosceva tutto a menadito,/ e ora invece è trombone arrugginito,/ una navicella che affonda.
    Grandissimo Angelo Maria Ripellino!

  5. “ Sabato 14 novembre 1998 – Ieri alla radio parlavano anche di Ripellino. Dicevano che nell’università insegnano numerosi suoi allievi, segno che in un certo senso c’è stata una « scuola » di Ripellino. Dicevano anche che d’altra parte c’è il pericolo del « ripellinese », che sarebbe non imparare da Ripellino ma copiare Ripellino. Come fosse una giacca. C’era anche uno che diceva « Siate buffi, come diceva Ripellino ». Era un po’ buffo, mentre lo diceva. (Io non ho avuto maestri. Pensavo poco fa che, quando ho conosciuto Fortini – lui aveva più o meno l’età che ho io ora – c’era ancora il tempo perché diventasse il mio maestro – io ho notato soltanto che parlava sempre e non stava mai a sentire. Forse per questo non ho imparato niente. Forse – è buffo – io imparo/insegno solo le giacche. Che, come è noto, non parlano) “.

  6. Ripellino «non si spacciava se non per quel che era: un entusiasta della poesia e dell’arte, un onnivoro lettore di opere d’avanguardia, un collezionista di metafore vertiginose. La Rivoluzione russa era per lui anzitutto una rivoluzione poetica, teatrale, scenografica, e Stalin colui che l’aveva schiacciata. Questa posizione è in lui del tutto autentica, aliena dalle teorizzazioni.»
    +
    (Cesare Cases, Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, pp. 439-444, Einaudi, Torino 1985)
    +
    P.s.
    Vedi anche http://www.poliscritture.it/2018/04/20/per-ricordare-angelo-maria-ripellino/

  7. “ 22 luglio 1995 – « Nei caffè notturni di Praga persiste un mondo che amo, il mondo degli anni Venti. Come se ci si fosse fermati alla giovinezza di Nezval. Non ho paura degli anacronismi, non sono di quelli che in ogni ora del giorno ruminano il tema “ arte e industria “. Mi lascio trascinare dalla malinconia delle cose antiquate. Al Barbora, al Tecko-club: pareti rossastre, nubi di fumo soffocante, penombra, un pianista, un violino, una bottiglia di vino ungherese, e un piccolo cerchio di danze. Poi esci da queste cave nella notte di Praga. Vai sul ponte Carlo: una doppia fila di fanali poliedrici, hoffmaniani solca la foschia giallo-malva. Nel velluto dell’acqua dormono vacillanti palazzi, si snodano lunghi rocchetti di luce appannata. L’ogiva delle torri sul ponte è come le ogive dei quadri di Zrzavy, e le ogive di Zrzavy sembrano uscite dal Processo di Kafka. Verticalismo e mistero, cinquettìo di fanali, e poi vacillanti passaggi di ubriachi. Ecco, così gli uomini passano nella storia, con gli stessi barcollamenti, in una simile foschia. Culto non Culto, terrori, disastri, burocrati, l’acqua alla gola, persecuzioni, miserie, bussano alla tua porta di notte, poi torni, sari riabilitato (forse da morto), che importa, monumenti sorgono e crollano, – ma Praga rifiorisce, immutabile, eterna. » (Angelo Maria Ripellino, È l’ora di Praga. Fogli di diario praghese, 1963) “.

  8. “A Roman Jakobson
    To you, Roman, in memory of those Roman evenings full of talk about modern Art, the Marx Brothers, the poetry of Neszval, Seifert and Mayakovsky, when Khlebnikov was deemed the greatest poet of the century”.

    Angelo Maria Ripellino, Tentativo di esplorazione del continente Chlébnikov, in Velimir Chlébnikov, Poesie. Saggio, antologia e commento a cura di Angelo Maria Ripellino, Einaudi, Torino, 1968 p. V

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