di Alessandra Sarchi
[E’ uscito da poco per Einaudi Il dono di Antonia, il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi. Ne proponiamo un estratto].
Sulla tavola erano arrivate delle coppette di mirtilli con gelato alla crema, nessuna di loro sembrava ricordarsi di averle ordinate. Eppure erano lì, profumate. Avevano ripreso a parlare da dove si erano interrotte la volta precedente. Sara disse, rivolta ad Alice: finora ci hai raccontato solo di tua madre.
Alice rispose che era vero e che sua madre da un certo momento in poi era stato l’unico legame con suo padre. Anche quel pomeriggio, in cui era andata a trovarla, prima del loro incontro. Avevano bevuto un infuso alla menta; le tazze di porcellana col residuo verde sul fondo erano un pericolo. Alice le aveva prese dal tavolinetto e le aveva portate nel lavabo in cucina, prima che sua madre le facesse cadere, rischiando a sua volta di inciampare nei cocci. L’avevano già trovata con inspiegabili tagli sulle braccia, per poi scoprire che aveva rotto un vaso di marmellata, scovato a pezzi da Nurial sotto una credenza, una scia nera di formiche intorno. Vedeva le cose, o le scambiava per altro? A quello stadio della malattia non era facile a dirsi.
Sua madre stava ancora guardando fuori dalla finestra, quando Alice si preparava per uscire. Le aveva appoggiato una mano sulla spalla e la madre, girandosi, aveva detto: – Le ha portate Giorgio –, con un moto d’intesa, come se stesse parlando non a sua figlia, ma a un’amica, e indicava le rose.
Non nominava suo marito, suo padre, da moltissimo tempo.
Vado, mamma, ciao. Ci vediamo presto, le aveva detto.
La madre aveva risposto, ciao Brughi , strizzandole l’occhio.
Erano quasi quarant’anni anni che nessuno la chiamava più con quel nomignolo, lei stessa non avrebbe saputo dire l’ultima volta che ci aveva pensato. Aveva provato tenerezza: dentro quel nome risuonavano le favole di Rodari, le case sugli alberi, la sigla d’inizio delle trasmissioni Rai.
La ricordavano anche Sara e Antonia: “tutto cangia, il ciel s’abbella” e la spirale bianca sul cielo azzurro dei vecchi schermi televisivi convessi. La musica era il finale del Guglielmo Tell di Rossini, e ad Alice faceva venire in mente due genitori giovani e belli come dovevano essere i genitori di quegli anni, gli anni ’70, in cui lei era stata bambina. Come sono belli e giovani i genitori del Settimo Sigillo – quante volte l’avevano guardato insieme! – gli unici che scampano alla morte, perché solo la giovinezza e l’ardore possono sconfiggerla. Non era vero, ma bisognava crederci. Ogni generazione lo faceva, e quella dei suoi genitori lo aveva fatto nel modo più ostinato possibile, concluse Alice.
Certe volte uscendo da casa di sua madre guardava le fotografie appese nel corridoio. A dire il vero non aveva nemmeno bisogno di guardarle, anzi aveva l’impressione che fossero loro a guardare lei, che era cambiata nel tempo, anno dopo anno, mentre loro erano rimaste sempre uguali. Corpi giovani, abbronzati sulla spiaggia e in montagna, le pance morbide senza essere grasse di chi non ha ancora conosciuto l’ossessione delle diete, i capelli folti e sempre lunghi, gli occhi animati di chi crede sarà possibile costruire il mondo a propria immagine e somiglianza, in una felice appartenenza, come si appartengono quelle pelli dorate, quelle facce distese e piene.
Eravate pazzi, le veniva da dire ogni tanto fissandoli, pazzi e spergiuri, e siete stati fregati.
Sara la interruppe e disse che anche lei guardava le foto della sua infanzia coi genitori e si stupiva sempre dei corpi, pancette e cosce fasciate nei pantaloni a zampa di elefante e nessuno che se ne vergognasse. A un certo punto doveva essere spuntata in casa una video cassetta di esercizi di aerobica di Jane Fonda, anche se non ricordava di aver mai visto sua madre in tuta da ginnastica, magari faceva gli esercizi di nascosto, quando non c’era nessuno nei dintorni.
Ma veniamo al soprannome Brughi, riprese Alice, serrando le dita delle mani davanti a sé. Era nato una domenica pomeriggio di fine primavera, doveva essere il ’75 o il ’76. Suo padre aveva mantenuto la promessa di costruirle una casetta in giardino, sotto il pero. Alice aveva una camera da letto spaziosa con molti giochi, bambole e una cucinetta, ma le era stato proibito di tenere acqua, erbe e sassi, cosa che poteva fare in giardino, perciò le serviva un rifugio. Erano andati insieme il sabato pomeriggio a comprare il necessario in una ferramenta e in una falegnameria. Lei lo avrebbe aiutato, questo era il patto.
Stava tenendo insieme due assi di legno, quando suo padre le aveva detto: – Passami una brugola dalla cassetta degli attrezzi. –
Alice non sapeva quale fosse la brugola e gli aveva mostrato tre diversi pezzi, di cui l’ultimo era quello giusto. Suo padre l’aveva preso e le aveva insegnato a usarla. – È divertente la brugola – aveva detto Alice, intendendo più la parola che l’oggetto in sé; le piaceva il suono.
Suo padre l’aveva osservata avvitare per qualche secondo poi: Guarda, guarda. Mani lunghe e delicate, adatte a lavori di precisione, lavori di fino. Brughi. Potrei chiamarti Brughi. Ti piace? –
Alice aveva provato una felicità che neanche poteva dire per non rischiare di sprecarla e che superava le cose già bellissime che sentiva, la dolcezza dell’aria di primavera – si poteva stare in giardino solo con una felpa – l’odore della pizza che sua madre stava cuocendo in forno e che arrivava dalla finestra aperta.
La felicità con suo padre, quando accadeva, andava oltre, verso qualcosa di meno definito di ciò che aveva un nome e un contorno preciso, era una specie di espansione.
In seguito aveva chiesto a sua madre quali fossero i lavori di fino e lei, la testa per aria sdraiata sul divano in cerca di sollievo dall’emicrania che arrivava alla fine della settimana lavorativa, di solito proprio la domenica sera, le aveva risposto: la sarta, l’orafo, il dentista, il chirurgo. Alice conosceva una sarta e conosceva un dentista, a nessuno dei due associava il tocco magico che suo padre le aveva fatto immaginare potesse sprigionarsi da mani lunghe e delicate, come aveva definito le sue, ma sul chirurgo e sull’orafo poteva fantasticare parecchio.
Per tutta l’estate e l’autunno inoltrato, aveva giocato dentro la casetta, anche quando faceva molto caldo o tirava già il vento pieno di foglie secche. Quanto le era piaciuto che suo padre la chiamasse fuori dal suo rifugio, usando sempre il nomignolo Brughi. Evocava cose piccole e preziose, misteri.
Si era convinta che esseri speciali visitassero la casetta quando lei non c’era, elfi o gnomi, – suo padre le assicurava di averne visto uno di notte, – ma forse anche fate, e portavano qualche sorpresa, una rosa o un cioccolatino, si divertivano a spostare gli oggetti come se cercassero di mandarle messaggi in codice. Allora lei studiava un cucchiaino fuori posto, un tracciato di foglie che forse conduceva da qualche altra parte in giardino. Aveva provato a uscire col buio, quando questo genere di avvistamenti doveva essere più propizio, ma suo padre l’aveva subito scoperta e richiamata: Brughi, dove vai a quest’ora? Era stata contenta di farsi portare in braccio da suo padre a letto, dopotutto non era così sicura di volere incontrare elfi e gnomi da sola.
La casetta non aveva retto il peso di una grossa nevicata, arrivata quell’anno anzitempo, a metà novembre. Il tetto era crollato e i muri si erano imbarcati. La primavera successiva suo padre non aveva avuto modo di rimetterla in piedi e si era limitato ad accatastare i legni nella rimessa. Anche il nomignolo Brughi era caduto in disuso.
Per qualche tempo l’aveva chiamata Lucciola. L’aveva battezzata così una sera di maggio in cui erano andati in bicicletta a sentire un comizio – il genere di cose a cui suo padre partecipava spesso, tanto che lei all’epoca era convinta che andare ai comizi, sfilare in grandi gruppi per le vie e per le piazze fosse il suo lavoro.
Nel parco dove si teneva l’incontro, Alice aveva scoperto i lumini a intermittenza che sbucavano in mezzo alle siepi e lungo un fosso. Lumini notturni, li aveva chiamati. – Sono lucciole -, le aveva detto suo padre lasciandola libera nel prato, mentre si dirigeva verso un palco basso dove un tizio parlava al microfono. Alice le aveva inseguite e aveva provato a catturarne una in mano, come con le farfalle.
Da vicino, nella conca formata con le mani perché non volasse via, la lucciola catturata aveva smesso di illuminare. Perso il bagliore, assomigliava a un moscerino o a certi insetti più duri che quando li schiacciavi facevano crac. Si era domandata se fosse stata lei a far perdere alla lucciola il suo splendore, e aveva deciso di liberarla. Per farlo aveva aperto le mani, ma la lucciola era rimasta per un po’ ancora incollata a uno dei suoi palmi, come se le piacesse il calore, scura e compatta con le ali chiuse, poi era volata via. Alice l’aveva seguita con gli occhi zigzagare fra i rami della siepe, ma la luce non era tornata.
Quando anche gli altri avevano cominciato a disperdersi, perché quello che parlava col microfono aveva finito e non c’erano più commenti e domande da fare, suo padre l’aveva trovata seduta lì sotto, la faccia fissa verso l’interno, fra i rami.
Le aveva detto: – Sono belle, vero? Ma non devi toccarle –
– Eh, lo so. Altrimenti si spengono. –
In quel momento Alice era stata circondata da tre lucciole, immobile si era goduta l’aureola che le disegnavano intorno.
– Gli piaci, Vengono da te. Sei come loro. –
– Vorrei tanto – aveva sospirato Alice.
– Lucciola. D’ora in poi ti chiamerò Lucciola. –
Alice aveva esultato quando il padre l’aveva chiamata così davanti a sua madre – Lucciola, portami il giornale per favore – ma anche davanti ai suoi amici – Lucciola, non sarebbe ora di andare a letto? –
Poi però lui se ne dimenticava, e lei ritornava Alice. Dopo Lucciola per qualche mese era stata Titti, come l’uccellino pauroso e mellifluo dei cartoni animati, e poi di nuovo solo Alice. Con la stessa facilità con cui suo padre si era inventato un nomignolo, se lo dimenticava e non esisteva più. Alice si sentiva come i lumini notturni che potevano perdere la luce e ritornare cupi insetti.
C’era stato un momento preciso in cui i nomi erano spariti di colpo. Quando suo padre aveva cominciato a passare sempre più tempo in quel seminterrato che chiamavano cantina, ma che in realtà era un ampio salone con un tavolo da ping pong, un divano e scaffali ingombri di oggetti, riviste, dischi. Non era mai solo, c’erano altri appartenenti come lui al sindacato, che era il posto dove lavorava: Alice lo aveva finalmente imparato. Le aveva spiegato che quando lavori c’è sempre qualcuno che ti vuole sfruttare e lui doveva evitare che questo avvenisse, doveva difendere i diritti dei lavoratori. Si ritrovavano lì, nel dopocena, ma a volte anche dopo il lavoro. Alice ne sentiva dal piano di sopra le discussioni animate, cercava qualsiasi scusa per scendere a dare un’occhiata, non era semplice, sua madre le diceva che erano cose da grandi. Una volta era riuscita a intrufolarsi, con il pretesto di portare un pacchetto di sigarette. Stavano dipingendo scritte con la vernice su grandi lenzuoli bianchi. Una recitava: ASSALTO ALLO STATO. Un’altra: DECRETO LO STATO DI FELICITA PERMANENTE. Quest’ultima le era piaciuta perché conteneva la parola felicità, anche se all’epoca non sapeva cosa volesse dire ‘permanente’, l’aveva sentita usare da sua madre a proposito dei capelli e del parrucchiere. Alice aveva riprodotto le scritte con le stesse maiuscole nere su fondo bianco sul suo album di disegni.
Poi una mattina di fine dicembre era stata trasferita in braccio, ancora in pigiama e mezza addormentata, nella casa accanto, – come faceva sua madre a non ricordarsene? In seguito aveva sempre negato che fosse andata così. Alice si era portata dietro proprio quell’album. Elvira, la vicina che l’aveva accolta, aveva notato le scritte sull’unico foglio non riempito di disegni e le aveva lette ad alta voce, commentando soprappensiero: eh, fosse così semplice decretare la felicità.
Alice si era ricordata con un certo senso di colpa, un po’ di tempo dopo – ma la scansione dei mesi e degli anni di quel periodo le è sempre sfuggita – di aver già mostrato l’album ad Elvira, di aver permesso che leggesse le scritte che venivano dai lenzuoli verniciati giù in cantina. Forse Elvira lo aveva riferito alla polizia. Forse Elvira aveva visto dell’altro, armi magari, entrare in quella tavernetta. Se era vero quello che diceva sua madre a quei tempi, e cioè che c’era tutta una cospirazione per incastrare suo padre.
Quel che ricordava lei era che nel suo lettino singolo sfregava i piedi contro le lenzuola per scaldarsi. Sentiva l’umido dappertutto, sulla testa, sulle palpebre incollate e sulle piante intorpidite dei piedi. Per un po’ non aveva saputo, poi aveva origliato i discorsi di sua madre al telefono e aveva cercato di immaginare, ma quell’immaginazione la tormentava, la portava in luoghi incerti, muri neri, sbarre, porte chiuse da cui era difficile liberarsi. Al biglietto che suo padre le aveva fatto arrivare, da quel luogo che sua madre non aveva mai chiamato per nome, ma dal quale lui non poteva uscire, Alice non aveva creduto. Lo aveva appoggiato al comodino di fianco al pesce di plastica colorata che faceva da lampada. “Alice torno presto, tu intanto fai la bravissima. Papà”.
Infine aveva saputo. Un giorno era tornata a casa da scuola, riferendo a sua madre che Riccardo Romagnoli, compagno di banco, le aveva detto che suo padre era in prigione, perché era un terrorista. Era successo durante la ricreazione. Subito Alice aveva pensato che fosse per via del fatto che gli aveva rifiutato un morso del suo panino al prosciutto, era già la seconda volta che glielo negava, provocandolo, così, a dire la più grossa cattiveria che gli passava per la testa, a sputargliela fuori insieme a qualche disgustoso fiocchetto di saliva prodotto fra i denti e l’apparecchio odontoiatrico. Ma Riccardo aveva chiamato altri due compagni e anche loro avevano confermato: a quanto pareva tutti sapevano che il padre di Alice era in carcere. Lungo il tragitto in bicicletta fra la scuola e casa, mentre finalmente poteva piangere senza essere vista, Alice aveva continuato a sperare che fosse un brutto scherzo. Ma anche sua madre era crollata. Nella mesta luce della cucina – c’era la crisi energetica, sulla corrente bisognava risparmiare anche se a febbraio il buio calava presto – sua madre le aveva detto che papà era stato accusato ingiustamente, solo perché voleva difendere i diritti di tutti i lavoratori, e che sarebbe rimasto in prigione ancora per poco, fino al processo, dove lei era certa avrebbe trionfato la verità, cioè che era innocente. Allora sarebbe tornato a casa, ma fino a quel momento lei doveva essere forte, non dare retta a ciò che potevano dirle i compagni, erano tutte bugie. Suo padre non aveva mai fatto del male a nessuno. Non era un terrorista, cioè uno che semina il terrore.
L’aveva stretta in un abbraccio e quello, molto più delle parole, le aveva dato sollievo. Ma proprio mentre stava abbarbicata a sua madre, aveva fissato lo sguardo sul frigorifero dove vagavano le lettere dell’alfabeto- calamita con cui lei e il padre avevano giocato tante volte. In alto nello scomparto del freezer era rimasta una frase composta da suo padre: Dio, spazio bianco e sotto, ma non sulla stessa linea, non, poi di nuovo sulla stessa linea di Dio, c’è.
Lo aveva composto poco prima di andarsene e ci avevano scherzato insieme, lo facevano sempre. Uno componeva una frase, l’altro poteva toglierne o aggiungerne un pezzo e vedere se aveva ancora senso, e quale.
Quel non, lo vuoi o non lo vuoi, le aveva chiesto? Alice aveva risposto che preferiva Dio c’è, ma le dispiaceva togliere il non. D’altronde, vedeva spesso quella scritta Dio c’è, su alcuni palazzi in città, e si era domandata se davvero Dio avesse scelto quei luoghi per manifestarsi.
E se lo mettessimo sotto, in un buchetto fra le altre parole? Così se vuoi lo puoi ripescare oppure no, aveva concluso suo padre. Lo sguardo fisso alle lettere nere sulla placca bianca del frigorifero, il vuoto in mezzo la divertiva e la turbava al tempo stesso. Suo padre le aveva detto: “Con le parole è possibile giocare in infiniti modi, e questo è uno. È anche possibile smettere di giocare”. Era una delle ultime sue frasi che ricordava.
Era morto in carcere, prima che potesse svolgersi il processo. Infarto. Aveva quarantadue anni.
Ancora adesso non sapeva se suo padre fosse stato un terrorista oppure avesse solo aderito a qualche azione un po’ estrema tipica di quegli anni. Tanti erano stati arrestati e poi rilasciati. Tanti si erano fatti trascinare in situazioni alle quali poi non erano seguiti fatti. Molti innocenti avevano fatto il carcere, e altrettanti colpevoli l’avevano scampata.
Aveva appoggiato azioni eversive, e quali? Aveva ospitato armi nel seminterrato? Questo non si trovava nei capi d’accusa. Ma allora cosa aveva fatto? Molte delle persone che erano solite frequentare la loro casa non si erano più fatte vedere, di punto in bianco. Molte altre le avevano evitate per un certo periodo. Erano stati anni durissimi per lei e sua madre.
Si era sentita ricamare addosso una diffidenza sociale silenziosa. Provava imbarazzo e disagio davanti alle trasmissioni in cui si ricostruivano gli anni di piombo, e quando si commemoravano pubblicamente le vittime. Poi è vero che la gente dimentica ciò che non la riguarda in maniera diretta, ciò che non le serve nell’immediato, i dettagli, le parole esatte, i personaggi secondari, i passaggi intermedi. Tutto ciò che per un giorno è stato cronaca si perde, nel giro di un tempo che una volta era molto più lungo e oggi tende a essere più breve perché il flusso di notizie è incessante, diventa prima o poi una nebulosa, un sentito dire, un’impressione e poi nemmeno più quello. Ma c’era una vergogna maggiore e più indecente per lei: l’amore per suo padre non portava fin dall’inizio una macchia fasulla?
Se anche a distanza di anni non riusciva a stabilire chi fosse stato suo padre, era perché lui doveva essere malato di falsità, false le sue parole, false le sue promesse, falso il suo credo. False Brughi, Lucciola e Titti.
A pensarci bene, tutto quello che aveva fatto nella vita era stato per allontanarsi da quell’inganno, per lavare una macchia. Aveva scelto di studiare medicina per essere utile all’umanità
Eppure, disse alla fine di quel lungo racconto, non riusciva a essere utile a sua figlia.
[Immagine: Cristopher Bucklow, Tetrarch, 2:26 pm, 31st May, 2010].
“Il dono di Antonia” non è un libro che “documenta” argomenti di attualità – la procreazione assistita o l’ anoressia.
E’ invece un bellissimo romanzo con molti punti di vista di diversi personaggi. Con molte immagini e figure: l’uovo, l’acqua, il cibo e il corpo. Con molto pensiero, non direttamente saggistico ma aperto alla pluralità dei punti di vista. Con la capacità di mettere in dialogo campo visivo e campo della scrittura.
E’ una narrazione felice, con cui Alessandra esplora ancora una volta i confini problematici fra corpo e storia, fra natura e cultura, fra corporeità e tecnica, con dispositivi letterari ( invenzione, figuralità, lingua, stile). Entra nella mente dei personaggi, produce nel lettore identificazioni inattese, porta alla luce figure dell’oscurità e tematiche di solito banalizzate perché colonizzate dai poteri (in primo luogo, “il nome della madre”).
Le due storie narrate sono perfettamente simmetriche e speculari: Antonia Fabbri si ritrova fra Anna, adolescente, figlia partorita e cresciuta che la rifiuta, rifiutando il cibo e Jessie, un figlio sconosciuto con cui ha solo un legame biologico, che la cerca. E’ una vicenda che ci riguarda, tutte e tutti, nelle nostre profondità elementari.
In sintonia….
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L’Autonomo l’avevano arrestato per “reati associativi”. Così, da un giorno all’altro. Dopo quella prima lettera, dove chiedeva di indirizzare la risposta ad uno fuori dal carcere, che gliel’avrebbe poi fatta avere, scrisse che era stato sequestrato dieci giorni in una caserma di T. Poi aveva passato15 giorni d’isolamento nelle celle “giù” del carcere di S. E quindi “in comune”. Si doveva dare coraggio da solo. Il carcere, scriveva, non è la fine del mondo. E poi tra i “politici” aveva trovato una situazione avvelenata. Delazioni e pentimenti. Qualcuno fidato ancora c’era. Diceva. Lui, che era abituato a girare per Milano, a conoscere da vicino le fabbriche dove, nell’ultimo decennio, erano fermentate lotte o quasi lotte o presunte lotte, ora, come quasi tutti, dipendeva dall’informazione che passavano giornali, radio e televisione. Aveva perso ogni aggancio con quelli che prima frequentava. Di colpo, zZac! Prof Samizdat era il primo a cui scriveva. Eppure si erano frequentati solo a scuola come colleghi e nel “lavoro politico” davanti a qualche fabbrica di Sestosangiò e Cinis. Là le loro organizzazioni, pur in competizione, un po’ scendevano a patti e tramite loro – carne e ossa, saluti e battute – collaboravano.
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( da Prof Samizdat, inedito)
@ Ennio Abate
In sintonia, ma c’è un’abisso. La tua prosa è giusta; l’altra…