di Enzo Rossi

 

David Graeber è morto a Venezia il due settembre scorso. Abbiamo perso il più importante intellettuale della sinistra radicale contemporanea. È probabilmente troppo presto per misurare il vuoto che ha lasciato. Per ora possiamo solo cercare di elencare i suoi più importanti contributi alla rivitalizzazione di teoria e pratica della resistenza al capitalismo e allo stato.

 

Graeber nasce a New York nel 1961, da una famiglia ebraica secolare della working class vecchio stile: padre veterano della Guerra Civile Spagnola, madre operaia e attivista sindacale. Nell’America del New Deal il brillante giovano di Chelsea—allora un quartiere tutt’altro che gentrificato, come David tenne a precisare in una delle nostre ultime conversazioni—riesce ad arrivare alla prestigiosa University of Chicago, e da lì a lanciare una scintillante carriera come antropologo, ma senza mai mettere da parte i suoi progetti politici.

 

Il lavoro sul campo porta Graeber in Madagascar, dove per due anni conduce una ricerca molto originale sui discendenti degli schiavi. In quest’isola Graeber scopre un sincretismo tra distanti culture che insieme cercano di forgiare un’alternativa a modelli di sviluppo autoritari e statalisti, creando zone autonome provvisorie che non rimpiazzano lo stato ma esistono in un sostrato alternativo alle istituzioni ufficiali. Da qui l’idea, centrale in gran parte del lavoro successivo di Graeber, che la controcultura può creare il nuovo nella carcassa del vecchio—i movimenti sociali possono prefigurare un domani alternativo.

 

Forse il contributo più originale e duraturo del lavoro intellettuale di Graeber è proprio questo: una originale sintesi tra un approccio storico di lunga durata e lo studio etnografico dei movimenti sociali. Questa sintesi mostra come ciò che chiamiamo culture o cultura sia il prodotto di antichi movimenti sociali di successo—un successo così pieno da diventare quasi invisibile. Ma uno scavo genealogico e archeologico—metaforico e reale—può rivelare come ciò che un tempo sembrava utopico possa trasformarsi nel nuovo normale. E naturalmente questa conoscenza storica e antropologica può e deve guidare la nostra azione politica nel presente e nel futuro.

 

Questa intuizione rimarrà al centro del lavoro successivo di Graeber come intellettuale attivista, sempre affiancato da posizioni accademiche di primo piano, prima a Yale (istituzione lasciata con acredine dopo una disputa sulla sindacalizzazione di dottorandi e dottorande), poi Goldsmisths, e infine la London School of Economics.

 

L’impegno sociale di Graeber s’impenna a partire dalle proteste anti-globalizzazione di fine anni ’90, culminate con i fatti di Genova del 2001. La fama internazionale arriva nel 2011, con la nuova ondata di proteste anticapitaliste. Graeber è tra i pionieri dell’accampamento di Occupy Wall Street a Zuccotti Park dove, in un piccolo gruppo, crea lo slogan “We are the 99%” (Graeber aveva descritto le tecniche di autogestione “orizzontali” e antiautoriarie usate da Occupy e molti altri movimenti radicali in un importante libro del 2008, Direct Action: An Ethnography).

 

Sempre nel 2011 esce Debt: The First 5,000 Years. In questo volume—già un classico moderno—Graeber mostra come fenomeni quali l’attivismo prefigurativo antigerarchico e anticapitalista di Occupy sono in realtà manifestazioni di un universale culturale: il “comunismo quotidiano”, ossia una relazione sociale di scambio in base ai bisogni. In misure diverse, il comunismo quotidiano affianca le relazioni di mercato e le relazioni gerarchiche praticamente in ogni società conosciuta. Infatti l’attuale egemonia capitalista non è che un esempio di una estrema e deliberata espansione della sfera delle relazioni di mercato ai danni delle altre due—un’operazione talmente riuscita che l’anomalia storica di un sistema sociale imperniato sulla mercificazione appare naturale, in linea con il comune senso morale. In piena crisi economica, Debt squarcia questo velo ideologico, dimostrando come debito e austerity altro non sono che strategie per mascherare l’oppressione violenta delle classi dominanti con tecnocrazia e moralismo.

 

Negli ultimi anni Graeber è assorbito da due progetti. Il primo è The Dawn of Everything, una collaborazione con l’archeologo inglese David Wengrow su un altro volume monumentale—completato ma non ancora pubblicato—che promette di trasformare il modo in cui concepiamo l’evoluzione delle forme di organizzazione sociale dalla preistoria ad oggi, con lo sguardo fisso sul domani.

 

Il secondo è un’estensione della sua attitudine critica all’intero mondo del lavoro. I libri The Utopia of Rules (2015) e Bullshit Jobs (2018) mostrano come la necessità del lavoro e la rigidità delle regole burocratiche che lo accompagnano sono tentativi di puntellare un capitalismo all’ultima spiaggia: “è come se qualcuno là fuori si fosse inventato lavori senza senso solo per fare in modo che tutti continuino a lavorare”.

 

Ma Graeber ci ricorda anche che la fine imminente del capitalismo, o almeno del capitalismo che conosciamo, non è necessariamente un segno di progresso: “Tra cinquant’anni avremo senz’altro un sistema che non sarà capitalista”, dice in un’intervista del 2018, e “potrebbe trattarsi di qualcosa di ancora peggiore. Quindi è imperativo rompere il taboo che circonda ogni tentativo di creare qualcosa di migliore.” Ora che David non è più con noi, questo messaggio diviene ancora più urgente.

 

 

[Immagine: David Graeber parla al Maagdenhuis di Amsterdam nel 2015]

1 thought on “Occupy the Future. In memoria di David Graeber

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