di Francesco Scarabicchi
Mario Giacomelli sapeva quel che sanno alcuni poeti: c’è un punto della propria espressione (della propria arte) in cui si sceglie, testimoniandolo, di fermare l’immagine di un frangente di tempo nel mondo affinché non scompaia per sempre. E sapeva anche che la fotografia (come ogni altra forma d’arte) è un mezzo, un ponte di transito, una delle molte vie per definire il pensiero di una intuizione, per dar forma all’inquieta passione, per scegliere la bellezza del senso che il proprio mondo riflette e rivela. Giacomelli conosceva la necessità che conduce verso regioni distanti e vicinissime, la discesa fino al dolore degli uomini, nel buio di notte profonda, tra decadenza, solitudine e perdita, nella pietà d’ogni esistenza che si consuma e si spegne. Ha attraversato gli anni nella luce consapevole che sta in un verso di Jorge Louis Borges (“Instantes”): “no te pierdas el ahora” (“non perdere l’adesso”), sulle cadenze dell’ansia dell’osservatore, con gli occhi in fuga o fermi su ciò che aveva scelto. I cicli tematici della sua opera fotografica sono appunto composti come capitoli progressivi tenuti da legami cronologici e segnano i passaggi del suo transito, i gradi dell’ispirazione e delle convinzioni che hanno sempre convissuto con la presenza della poesia, suggeritrice fedele cui prestare ascolto per definire le trame interiori e il ‘verso’, oltre all’essenziale musica del dire nella dettatura estrema.
Viaggiatore insonne dei sensi, autodidatta come lo sono solo i grandi artigiani della forma e del senso (quelli che si può ancora, con dignità e pudore, chiamare maestri), Giacomelli ha segnato il cammino esclusivo di una identità atipica, irripetibile, nell’intensità sensuale, febbrile e appassionata di chi si è costruito la scuola del suo stile senza essere allievo se non della vita e dell’universo delle proprie visioni. Ha guardato le ombre e il buio del Novecento illuminando i contrasti e il dramma delle esistenze senza nome, dei luoghi di un’Italia svelata là dove la ferita muta del male e della morte è più acuta e profonda (l’ospizio dei vecchi, il mattatoio, Lourdes) o dove la sua natura isolata e senza clamori parla la lingua più autentica e povera (Scanno, la campagna delle Marche, le spiagge, i paesaggi dall’alto, la Puglia, le scene della neve). Ogni sequenza del racconto contiene la trama di una narrazione che non si concede all’episodico, all’occasionale, ma chiama il compiuto itinerario, le stazioni del percorso. Nessuna visita è avvenuta in assenza di poesia: David Maria Turoldo, il Lee Masters dell’Antologia di Spoon River, Pavese, Emily Dickinson, Montale, Léonie Adams, Leopardi, Mario Luzi, Borges. Compagni di strada a confermargli il privilegio della voce e dello sguardo, l’ascolto degli occhi mai sazi e rapidi ad accorgersi del movimento impercettibile di un viso, di un gesto, la fuga delle nuvole sui campi, l’assetto geometrico delle colline lavorate, un lavandino sbrecciato, la nuca di un seminarista durante la danza dei pretini ormai fra le icone del secolo scorso al quale Giacomelli, in qualche modo, ha voluto appartenere spegnendosi a Senigallia il 25 novembre del 2000. Capitava d’incontrarlo lungo il Corso della sua città di mare in bianco e nero, i capelli e gli abiti, lo stesso delle sue stampe e della scrittura, lo stesso di una misura assoluta e intransigente, buio di camera oscura da cui nascevano, come emersi da chissà quale fondo, i miracoli della luce che la sua Comet Bencini catturava dal 1953.
[Immagine: Mario Giacomelli, Campagna marchigiana (© Eredi Giacomelli) (particolare) (mg)]
“…in bianco e nero, i capelli e gli abiti, lo stesso delle sue stampe e della scrittura, lo stesso di una misura assoluta e intransigente, buio di camera oscura da cui nascevano, come emersi da chissà quale fondo, i miracoli della luce…”
Che altro aggiungere?
Grazie a Scarabicchi – anche qui ribadisco tutta la mia stima per lui.