di Mariangela Caprara
La pandemia ha sospeso molti discorsi avviati sulla scuola, ha rarefatto le possibilità di scambio tra gli insegnanti e gli studiosi, e così sono rimasti un po’ ai margini felici spunti di riflessione come quelli contenuti nel volume La storia raccontata ai bambini curato da Luisa Tasca, uscito per Le Monnier nell’autunno del 2019. È però un atto di doverosa resistenza, in questo momento, quello di riattivare la riflessione profonda sulle discipline che alimentano il curricolo scolastico. La storia, presente in tutti gli indirizzi di studio, è la materia forse più ‘in perdita’ nelle nostre scuole, come da alcuni anni si viene denunciando, e forse è da collegare a questa pluriennale crisi scolastica della storia la crisi della società civile italiana. Focalizzare l’attenzione sull’insegnamento della storia ai bambini è quindi un’operazione delicata e nello stesso tempo forte, forte anche in senso politico, perché in questo volume viene rivelato il sostanziale annacquamento dello studio e della memoria dei fatti, anche nella loro crudezza, proprio a partire dall’infanzia, parte di un meccanismo di manipolazione civile della memoria certo non nuovo, ma in questa fase orientato verso nuovi e subdoli obiettivi.
Dei meccanismi di manipolazione della storia nella scuola italiana ripercorrono il corso i saggi di Simonetta Soldani e Monica Galfré, coprendo il periodo che va dall’unità d’Italia alla Repubblica, sostenendo un approccio metodologico nuovo alla ricostruzione di questo orizzonte: non basta infatti esaminare e confrontare i programmi scolastici o gli intenti governativi rivelati dai proclami e dalle indicazioni burocratiche, ma è necessario addentrarsi nella «scuola in atto» (Soldani, p. 145), con i suoi condizionamenti. Contesti mentali, linguistici, culturali, ma anche ambienti precari in cui la scuola svolgeva le sue giornate e in cui venivano calati i programmi hanno certo prodotto (e continuano a produrre) risultati diversi. Dunque faticoso è stato, nell’Italia post-unitaria, il cammino della auspicata storia nazionale rispetto alla storia sacra, che ha imposto tra l’altro un persistente modello di narrazione retorica ed edificante anche alla storia laica; faticoso è stato l’adattamento linguistico dei testi scolastici ad un’utenza quanto mai varia. Il mito risorgimentale, prediletto quale luogo dell’edificazione nazionale, è emerso come racconto eroico ed esemplare, necessariamente spogliato della complessità dei fatti agli occhi degli scolari, in una «lontananza della storia e pervasività della patria» (Soldani, p. 162). Non si pensi che l’età repubblicana abbia operato una definitiva cesura anche rispetto alla mitologia storica della scuola fascista: il racconto mitico della storia ai bambini procedeva nella esaltazione di nodi nazional-patriottici ancora diffusamente nella scuola degli anni Settanta, dei quali la contestazione impone, in modo radicale, la cancellazione. Galfré (p.191) mostra inoltre come in buona sostanza anche la scuola fascista e immediatamente post-fascista abbia imposto lo studio della storia solo fino alla prima guerra mondiale, con ciò aggirando questioni politiche scottanti in una dinamica spesso operante nella mentalità scolastica: il rifugio nella contemplazione di un grande passato nazionale. Benché in mutate atmosfere, le questioni sollevate dalle studiose restano vive e rischiano di riversarsi sull’insegnamento trasversale dell’educazione civica appena introdotto nel curricolo scolastico: storia manipolata in chiave moraleggiante/edificante, retorica che altera la natura dei fatti, culto nazionale della Costituzione.
Nella parte centrale del volume trovano posto i saggi che seguono una delle piste indicate da Luisa Tasca nella premessa, quella della rimediazione della storia raccontata ai bambini nell’universo contemporaneo, dominato dalle tecnologie digitali e, più in generale, fortemente visuale nei meccanismi di trasmissione della conoscenza. I saggi di Roberto Bianchi sulla storia nei fumetti e di Romina Nesti su digital game e storia aggrediscono, con gentilezza, proprio la scuola e i suoi persistenti arroccamenti nel manualismo: perché la storia, nel suo visualizzarsi in questi media, compie una potente giravolta extratestuale, in un equilibrio non sempre favorevole alla storia stessa fra amplificazione e semplificazione della conoscenza possibile. Amplificazione è quella che si compie in particolare attraverso i giochi digitali, che spingono il giocatore non solo alla immedesimazione in un determinato contesto, ma anche alla costruzione dei fatti, in un approdo esaltante, ma potenzialmente fuorviante, alla storia virtuale (Nesti, p. 133-134). Semplificazione inevitabile è quella che deve agganciare la curiosità a quel tanto di retorica eroica o di suggestione, in special modo visiva. I personaggi storici protagonisti di eventi bellici rischiano ad esempio di vedersi trasformati in figure di supereroi. La scuola potrebbe però porsi di fronte a questi dilaganti diffusori della cultura di massa non come argine, ma come filtro, modificando le sue persistenti abitudini manualistiche, molto più persistenti di quanto si creda, anche nella scuola primaria. Ad una didattica della storia che oscilla spesso senza coerenza e senza metodo tra il laboratorio di manufatti ispirati alle età del passato e la narrazione attinta solo ed esclusivamente dal libro di testo, sarebbe di gran lunga preferibile una didattica ‘visuale’ purché verificata nella sua attendibilità, con la selezione dei prodotti già esistenti, ma anche in sinergia con gli autori di questo tipo di prodotti. Da dieci anni esiste perfino un efficace corso di latino a fumetti per la scuola, in una prima versione impostato sulla biografia di Giulio Cesare, in una più recente sul confronto (militare e di ‘civiltà’) tra Annibale e Scipione; ma si tratta di prodotti non riconosciuti come validi dalla maggioranza degli insegnanti.
Se negli strumenti ludico-visuali sembra dunque realizzarsi al grado più elevato quella mescolanza del fatto storico con il controfattuale, paventata da Tasca nella premessa, i saggi di Pascal Semonsut, Francesca Roversi Monaco e Luisa Tasca, dedicati rispettivamente al racconto della preistoria, del Medioevo e della Shoah, mostrano come ormai la trasmissione della memoria dei fatti ai bambini, affidata per lo più alla scuola, sia affiancata da importanti filoni letterari di tipo anche commerciale, in cui il fatto storico scolora in una vulgata appiattita. Da una attentissima e ampia disamina della recente letteratura per l’infanzia, emerge dunque che Preistoria e Medioevo sono al servizio di mondi fiabeschi, dove il primitivo torna ad essere il selvaggio e il medievale il magico per eccellenza. Quanto alla Shoah, l’immagine di Anne Frank ormai la condensa tutta in una agiografia liberata dalla presa di visione dello sfondo della atrocità naziste; perché ai bambini il fatto crudele è risparmiato, eppure è diventato doveroso parlare dell’Olocausto in età addirittura prescolare, riversando così sull’infanzia un bisogno che è piuttosto degli adulti. Ma Tasca su questo si esprime drasticamente: «O si racconta ai bambini quello che è successo – dando loro anche delle coordinate spaziali, temporali, causali, per quanto adattate all’età – o non lo si racconta. (…) Che l’aspetto conoscitivo e informativo sia così messo da parte ai fini di un’educazione morale o moraleggiante, mediata dal framework narrativo proprio della fiaba e della letteratura fantastica, è una questione che dobbiamo porci» (p. 95-96). Dunque al centro della riflessione sono collocate, in questa sezione, le responsabilità degli adulti rispetto all’infanzia, dentro e fuori la scuola. I bambini sono infatti tuttora, e singolarmente, fuori fuoco dal dibattito sull’uso pubblico della storia, e continuano ad essere la rete inerte sulla quale passano le palline da tennis di atavici conflitti tra dottrine e ideologie, che vogliono occupare lo spazio della storia raccontata per deformarla. In questa esclusione ha giocato un ruolo, secondo Tasca, l’assunto di Piaget, per fortuna in via di superamento negli studi pedagogici e psicologici, che vedrebbe i bambini privi di pensiero storico fino alla fine della scuola primaria (e perfino oltre, secondo Hallam). Attraverso i canali non scolastici invece il confronto con la storia è anticipato enormemente, e dunque è il momento di studiarli approfonditamente, giacché costruiscono nei bambini una cultura storica singolare e deviata, riassumibile in tre aspetti principali: la crisi del modello lineare a favore di una virtualità atemporale e per di più pericolosamente incline a sostituire la poesia e la narrativa con la storia raccontata come regno del possibile; l’uscita di scena della collettività come ‘personaggio vivo’ del racconto storico, a favore di individui in cerca di risposte che approdano alla definizione di giudizi morali sui fatti, in una dinamica in cui il presente giudica il passato e lo liquida; la confusione delle differenze culturali tra mondi nel tempo e nello spazio alla ricerca della definizione di una storia globale, commerciabile su scala globale. Chi lo voglia, troverà infine nelle pagine di questo volume anche una buona dose di antidoto al politically correct dilagante nel discorso pubblico sulla storia: che è cosa di cui abbiamo veramente bisogno, di questi tempi.
[Immagine: Zachary Gallant, War: a children’s book].