Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi
[Dopo la pausa estiva, riprende la rubrica a cura di Massimo Gezzi, costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco Targhetta,Marco Balzano e Marilena Renda e Gian Mario Villalta, oggi risponde Paolo Febbraro].
1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?
A pieno orario, Italiano e Storia nel triennio finale di un Istituto Alberghiero di Roma, per dei ragazzi che vogliono diventare dei receptionist d’hotel.
2) Ho intitolato un recente contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in uno zoo?
No: io lavoro in un teatro. L’aula in cui metto piede non sarà mai una gabbia, o una riserva protetta. Fra le cose che dico all’inizio dell’anno c’è questa: “non avete il diritto di disturbare, ma avete il diritto di distrarvi e non seguire”. Chi vuole prendere il suo “6” basta che studi un po’ sul libro e dica due cose sensate. Va benissimo. Con tutti gli altri, con i coinvolti, la poesia non va rispettata o recintata: va proposta a piene mani, suonata, gustata, persino irrisa. È un orizzonte totale, capace però di scrutare nei nostri capillari più fini. Per i ragazzi è la grande occasione di sciogliere nodi e diradare quelle opacità che li fanno disperare o li inselvatichiscono. Con loro, poi, non faccio mistero che la poesia è anche pericolosa, e che questo è il vero motivo per cui viene letta poco. I classici sono tali non perché più antichi, ma perché la loro follia è di qualità altissima. Fra scatenamento e disciplina, la poesia vive in un equilibrio difficile e impegnativo, tutto da scoprire: e i ragazzi devono essere aiutati a trovare il proprio punto di bilanciamento. Ricordo molto bene le sofferenze che attraversano l’adolescenza. D’altro canto, se il verso è uno strumento che attinge a qualcosa di strutturale della nostra mente-corpo, di primario, la prosa non è da meno con altri modi e obiettivi. È bello spiegare ai ragazzi le differenze, farsele spiegare da loro. In ogni caso, la differenza tra prosa e poesia non è la condanna di uno dei due generi, ma l’occasione per sentire che cose profonde sono la perizia letteraria, la metrica, la retorica. In classe, fra Storia e Italiano, discutiamo molto sulla Tecnica, soprattutto in questo periodo. La Tecnica ci ha permesso di “salvare” l’attività didattica dalla pandemia, che tuttavia proprio la Tecnica ha provocato, promuovendo gli enormi assembramenti umani e la rapidità degli spostamenti. Ecco invece che, in letteratura, la tecnica risponde a impulsi fondativi, ad associazioni ardite e normalissime insieme. Poi torniamo sull’argomento quando eseguo una “tavola parolibera” di Marinetti. Lì la tecnica serve a qualcos’altro che a mostrare e glorificare sé stessa? Ci sono varie risposte, spesso interessanti.
3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?
Insegnare letteratura è per me la terza cosa più bella al mondo dopo amare la mia donna e leggere/scrivere poesie. Lo metto alla pari con il vivere un paio di mesi l’anno in Irlanda. «Inefficace, goffo o controproducente»: inefficace certamente, chi mai è sempre efficace ogni giorno per decenni, tanto più con una materia instabile (e stabilissima, al tuo contrario) come la letteratura? Goffo e controproducente no. Ogni insegnante insegna per prima cosa il proprio rapporto con la disciplina che ha scelto. I ragazzi sentono se tu stai parlando di qualcosa di decisivo per la tua esistenza, e per la comprensione del mondo. Comprendere il mondo, a sua volta, significa farsi abbastanza grandi e ricettivi per accoglierlo, e per rifiutarlo quando è opportuno. Dico spesso ai miei alunni: “vi invidio, perché non avete ancora letto tutti i libri che ho già letto io”. Per me la letteratura è un amore, una meraviglia, e anche qualcosa d’intollerabile. Due scrittori che detesto, come D’Annunzio e Ungaretti, sono due affronti alla mia persona: quando li spiego in classe non nascondo nulla della mia avversione, e stimolo i ragazzi a contraddirla. Dopo quasi trent’anni d’insegnamento, vivo ancora molti momenti di grande benessere ed empatia, di spontaneità. È bellissimo vedere i ragazzi commuoversi alla morte di Clorinda, perdere l’orientamento nel Palazzo di Atlante, oscillare nell’ossimoro di Pace non trovo e non ho da far guerra, o imparare a sbugiardare Francesca da Rimini quando prova ad attribuire all’Amore le responsabilità dell’innamorata. L’importante è questo: i giovani devono avvertire che nulla di quanto dici è futile, secondario, marginale. Per riuscirci, sperimento molte strategie. Ad esempio: leggo in classe La sera del dì di festa, poi dico che a mio parere questa è una poesia splendida, ma ha al suo interno un verso, un solo verso, molto brutto. Qual è, secondo loro? Un po’ increduli sul fatto che Leopardi abbia potuto scrivere un brutto verso, si mettono subito a cercarlo; così, sono “costretti” a rileggere da soli tutta la poesia; e quando chiedo cos’hanno trovato, vengono fuori il loro gusto e il loro orecchio. Di fatto, imparano a distinguere Leopardi da Leopardi, a esercitare la critica. Un altro trucco l’ho imparato da quanto mi hanno raccontato di Caproni maestro elementare. Leggo una meravigliosa quartina di Penna, «Tu morirai fanciullo ed io ugualmente. / Ma più belli di te ragazzi ancora / dormiranno nel sole in riva al mare. / Ma non saremo che noi stessi ancora». A quel punto dichiaro che in tanti anni non sono mai riuscito a capire il significato dell’ultimo verso. Loro che ne dicono? Insomma, il gioco sta in questo: cercare di divertirsi, e non sottovalutare mai i propri alunni.
4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittore e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?
Facendo lezione da decenni, la prima cosa che esigo da me stesso è di non annoiarmi. Quindi cerco di dire sempre qualcosa che faccia rimanere sveglio me per primo. Purtroppo sono un ascoltatore molto esigente, quindi mi trovo spesso a dover cogliere qualcosa che non avevo già colto. Quando capita, è tutto materiale buono per la mia saggistica, se riesco a ricordarmene, o per la poesia, se riesco a dimenticarmene.
5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.
Ovviamente, alcuni ragazzi scoprono presto delle mie poesie sul web, e me ne chiedono qualcosa. Di solito taglio corto e svicolo. Ma se la richiesta viene ripetuta anche durante la quinta e ultima classe, comprendo che non si tratta di curiosità, ma di interesse, e allora rispondo. Però ci sono anche altri episodi. L’anno scorso, per il bicentenario dell’Infinito, «Il messaggero» pubblicò una pagina intera di poesie ispirate, a loro dire, al capolavoro leopardiano. Erano in buona parte di rara bruttezza. Le ho lette ai ragazzi, spietatamente, poi ho ascoltato i loro pareri. Sai qual è stato il sentimento prevalente? Non la derisione, ma il dispiacere. Dopo tre anni in cui avevo proposto splendidi esempi di poesia, ecco che qualcuno li scippava di una legittima aspettativa. Si sono domandati: cos’è accaduto alla poesia? Perché chi scrive queste cose viene scelto e pubblicato? Possibile che pensando all’Infinito si possano scrivere poesiole simili? Erano delusi e interdetti.
6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei uno scrittore: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?
La scuola non deve insegnare a scrivere versi, deve far comprendere che leggerli è un’esperienza non sostituibile da altre. Chiunque può vivere benissimo senza mai leggere una poesia: e forse sarei vissuto meglio se non ne avessi mai scritte. Tuttavia, ciò che una poesia in versi può compiere nella mente del lettore è qualcosa di tipico, di peculiare. Forte di queste due consapevolezze apparentemente divergenti, spingo alla lettura ma non alla scrittura. I miei colleghi organizzano dei premi di poesia all’interno dell’istituto, ma ho sempre rifiutato di far parte della “giuria”: a diciassette o diciott’anni non bisogna inseguire minimi allori, e neanche l’illusione del “pubblico”, ma la propria formazione. Così, lo stimolo a scrivere viene indirettamente, semmai, dall’esempio del mio coinvolgimento personale. Scrivere è molto bello e molto faticoso, dico ai ragazzi che me lo chiedono, e può servire a diverse cose utili. Ma se vogliono l’arte dovranno lavorare per decenni. Seguo volentieri i loro primi passi, senza risparmiare le necessarie, gentili rudezze.
7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innescano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:
Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.
Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?
È talmente praticabile che lo metto in pratica da tanto tempo, almeno in parte. Le formulette non fanno per me e non fanno per la letteratura. Hai presente quando alcuni alunni dicono «Foscolo appartiene al Neoclassicismo, Leopardi appartiene al Romanticismo»…? Da brividi. Tuttavia, Piras scherza, e lo si vede facilmente. Quando dice «Obbligo per i docenti di fare le loro discipline… scegliendo qualche testo che amano» cade in una contraddizione in termini. Nessuno può essere obbligato a scegliere, obbligato ad amare. I docenti non vanno obbligati a non obbligare… vanno solo scelti bene, pagati bene e fatti lavorare con fiducia. Degli obblighi da Stato Etico ne ho fin sopra i capelli. «Anarchia, senza metodo» è poi una frase che Wittgenstein definirebbe insensata: l’anarchia non esiste. Qualunque metodo trasforma sé stesso fluidamente, ma lo fa in quanto tale. Infine: «senza interrogare». E chi interroga più? I miei alunni apprendono presto che quando metto un voto, lo faccio valutando non ciò che essi sapevano un minuto prima di parlare, ma ciò che hanno compreso, e imparato di loro stessi, durante la mezz’ora del nostro colloquio. Non solo: i giovani si devono commisurare a qualcosa, contro qualcosa. Devono crescerti in faccia, sfidarti, con salti in alto, scarti laterali, travestimenti. Hanno bisogno di sentire che tu sei il loro maestro, e che hai l’autorità per suggerire il luogo del difetto, ciò che non scoprirebbero senza di te.
8) Ultima curiosità: fai l’insegnante di lettere (o di altro) anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante di lettere (o di altro), da qualche parte nel tuo percorso?
Nessuno impara da solo. Alle scuole medie inferiori ai temi d’italiano prendevo “6 meno” o “6 più”. Così, a tredici anni e mezzo scelsi di dar retta a mio padre e di frequentare l’Istituto Tecnico Commerciale. Cinque anni più tardi, m’iscrissi a Lettere. In quel frattempo, avevo incontrato Carla Cerri, una delle persone più trasformative della mia esistenza.
Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi
[Immagine: Foto di Friedrich Seidenstücker]