Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
[La rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, su Le parole e le cose 2 è nata dal desiderio di entrare in dialogo, chiamando poeti e scrittori a rispondere a un identico questionario.
La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.
Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.
L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).
Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.
Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro?
Ora, dopo un anno di riflessioni condivise, è giunto il momento di ampliare la conversazione anche oltre la poesia. Può valere, quest’analogia col Terzo Paesaggio, per le arti, per il teatro, per la filosofia, per altre pratiche? Da qui nasce una nuova serie di conversazioni, che abbiamo chiamato Poesia, terzo paesaggio? ALTROVE.
(Laura Pugno)].
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Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Riprendo, in questo spazio, l’analogia di cui ho detto più sopra: che la situazione della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Ti sembra che quest’analogia possa valere anche per il tuo campo, di riflessione e d’azione? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?
Più in generale, mi soffermerei sull’idea di residuo, perché lo spazio poetico è senz’altro residuale e marginale, ma abita tutti i paesaggi, immaginabili e inimmaginabili, dentro e fuori dall’editoria e dentro e fuori dalla poesia. Penso a un tipo particolare di residuo, non a qualcosa che rimane incastrato tra i denti di cui dimenticarsi una volta tolto, ma piuttosto a ciò che rimane o che è in avanzo, e che non può essere ignorato anche quando viene rimosso. Mi immagino più banalmente il canto di una specie di uccello data per estinta, che si risente in luoghi inattesi, dopo aver seguito rotte migratorie ignote. Se è uno spazio, è lo spazio della distanza e ha un infinito potenziale: il poter tornare ovunque sotto forma di fantasma, che con il selvatico/selvaggio condivide un’apertura verso l’Altrove, apre uno spazio sovversivo in cui convivono silenzio e massima significazione.
Questo fantasmatico ripresentarsi può essere problematico perché i fantasmi fanno paura e questo sentimento crea un circolo vizioso di paralisi e chiusura, quando invece dovrebbe portare aperture radicali e spirito d’esplorazione, un momento transitorio che educa al conflitto e alla messa in discussione in primo luogo di sé stessi, come ci insegnano i detective – non a caso – selvaggi di Roberto Bolaño.
Questo è lo spazio poetico, selvaggio e infestato, in cui mi sono persa senza rispondere veramente alla domanda, forse perché non credo che la poesia – editorialmente parlando e come preciso genere letterario – si collochi fuori dalle logiche del mercato che anche in questo ambito dettano le regole del gioco. Se abita il margine è perché è marginalizzata, non per posizionamento politico: questo paradigma andrebbe capovolto, altrimenti la poesia rischia di essere solo qualcosa che non conta nulla perché non vende.
E il resto – della filosofia, dell’arte, del teatro, le altre pratiche, et al? Che tipo di paesaggio occupano, se lo occupano, intorno a questo incolto, residuo, “friche”?
Nella nostra società, letteratura e arte non si collocano in uno spazio meno marginale di quello poetico, di certo abitano architetture e ambienti diversi, motivo per il quale il loro stato di abbandono può sembrare più o meno evidente. Ad ogni modo non sono considerate una necessità, un’urgenza. In un breve saggio in cui racconta la sua iniziazione poetica, Audre Lorde scriveva che «la poesia non è un lusso. È una necessità vitale della nostra esistenza», riferendosi a sé e a tutte le donne spogliate di una voce per esprimere la loro condizione: l’arte, nel suo senso più ampio, dovrebbe far suo questo slancio in relazione alla sopravvivenza di tutte le comunità marginali che la abitano. Per questo motivo, nella desertificazione del nostro tempo, non basta l’indecisione dell’incolto o la dimensione della riserva protetta. Estendiamo l’analogia del Terzo Paesaggio alla cultura più in generale: per superare l’essere friche di questi spazi bisognerebbe ragionare di più in termini di relazioni, delle influenze che questi spazi hanno al loro interno, ma anche con ciò che sta intorno, sulle alleanze che possono nascere. Questo sta alla base del pensiero ecologico, ma mi fa pensare anche alla poetica della relazione teorizzata da Edouard Glissant, secondo cui la Relazione è «conoscenza in movimento dell’esistente», è un’estetica della turbolenza che mette insieme lo scambio e il cambiamento. Lo spazio comune del futuro si trova in questo margine di rischio.
E uscendo verso il fuori? Verso la X, come scriveva Italo Testa nel primo di questi dialoghi. Dove ci conduce questa conversazione? Verso quale politica nel senso più ampio di questa parola, che riguarda non solo il politico come è normalmente inteso ma anche l’umano e il non-umano?
La domanda posta in questi termini mi fa pensare alla corrente di pensiero avviata dall’antropologo e filosofo brasiliano Viveiros De Castro e alle sue ricerche sulle cosmogonie amerindie. Queste popolazioni concepiscono in modo radicale la dimensione politica dello spazio che abitano, riconoscendo in animali e piante vere e proprie entità politiche, tanto che:«ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia. Non esiste dunque una differenza assoluta di statuto tra società e ambiente, come se la prima fosse il “soggetto” e la seconda l’”oggetto”. Ogni oggetto è sempre altro soggetto ed è sempre più d’uno». Questa conversazione allora vorrei che ci portasse nel campo di un «tutto è politico» potenziato e non antropocentrico, verso un concetto ibrido di umano che lima costantemente i confini tra ciò che consideriamo natura e ciò che definiamo cultura.
Che cos’è che non ti ho chiesto, e che vorresti dire?
Mentre rispondo a queste domande, mi ritrovo a leggere le poesie di Thierry Metz, non poeta giardiniere, ma poeta manovale, abitante a suo modo di un Terzo Paesaggio. Questi i suoi versi che vorrei condividere:
Lui chiede: che cosa speri qui
cosa
dove costruire –
nell’imprecisione del fuori
con: pezzi di legno
foglie …
lavoro dove si raccoglie il possibile
nel focolare vicino alla fiamma
ma viaggio nel profondo
di ciò che è disatteso.
Thierry Metz, Sulla tavola inventata, Edizioni degli animali, 2018