di Roberto Cescon

 

[È uscito in questi giorni, edito da Mimesis, il libro di Roberto Cescon Disabile chi?, una perlustrazione dell’idea della disabilità nell’estetica e nella società contemporanea. Ne pubblichiamo i primi quattro brevi capitoli].

 

1.

IL BACIO

 

Guarda The kiss di Marc Quinn: un uomo e una donna in marmo bianco, mutilati e deformi, si baciano su un piedistallo.

Cosa puoi dire ancora? La posa topica delle figure si staglia con classica naturalezza per interrogarci sul senso della bellezza che accoglie l’imperfezione.

Ma cosa hai visto innanzitutto? Una mancanza. Manca qualcosa che distingue quelle figure dall’idea di normalità che hai dentro di te.

Non è vero, sono due amanti come tutti gli altri. Coraggio, togli la maschera da falso redentore e  ragioniamo insieme.

 

L’immagine del disabile ha bisogno  della  normalità per misurare la sua mancanza, perché ciò che distingue il disabile dall’idea di normalità è uno stigma. Stigma per i greci era un segno fisico associato alla condizione morale della persona: per esempio agli schiavi venivano marchiate le iniziali del padrone. Un paio d’occhiali ci dice che una persona ha un difetto visivo. Durante la seconda guerra mondiale una donna veniva rasata se aveva collaborato coi nazifascisti. Lo stigma è un attributo che giudica una persona inserendola in una categoria. Lo stigma del disabile è la sua disabilità fisica o mentale. Tu  non  sai chi siano quelle due figure che si baciano, ma ormai le riconosci per l’evidenza del loro stigma, che le separa dalla tua idea sedimentata di normalità. La disabilità è un pezzo della persona che ne definisce l’identità virtuale[1].

 

Fissa ancora un po’ i due amanti di marmo. Ne sei attratto perché c’è qualcosa di  inquietante nel fissarli, ma allo stesso tempo una soglia ti separa da loro, perché qualcosa non si dà. Cosa? Il corpo disabile si espone, ma la sua condizione resta nel fondo perché non si esaurisce nella sua immagine, capace solo di far affiorare un’oltranza di senso senza esaurirla. In quei due amanti il fondo è risalito, ma non riusciamo a compiere il sentiero a ritroso perché continuiamo a guardare i loro corpi. Dopo essere risalita a noi tramite i due amanti che si baciano, la disabilità ripiega nel fondo, lasciandoci nella superficie dello stigma, che produce stereotipi. Dunque, più la disabilità si espone, più deve essere cercata  in  profondità.  Come trovarla?

 

2.

ELLEN STOHL

 

Ellen Stohl è una ragazza paraplegica che nel maggio 1987 ha destato molto scandalo per alcune sue fotografie pubblicate su Playboy: in una il suo corpo disegna una curva sinuosa sul lenzuolo bianco, mentre lei − la testa  tra le braccia che la avvolgono in un abbraccio delicato − chiude gli occhi sorridendo; in un’altra i suoi occhi giovanissimi bucano l’immagine, una spalla scoperta lascia trapelare il reggiseno e l’indice tocca le labbra sorridenti; in un’altra è nuda, seduta al contrario sulla sua carrozzina, il busto è coperto dallo schienale, le braccia incrociate coprono i seni. Le altre foto di Ellen Stohl che puoi trovare in rete la ritraggono, più avanti negli anni, con sua figlia in braccio sulla carrozzina e insieme al marito e alla figlia, sul divano, mentre fa segno di vittoria[2].

 

Cosa ne pensi? Secondo me è bello il “messaggio” che trapela da quelle foto: io sono disabile, ma sono  normale, ho una famiglia, posso posare nuda perché sto bene con  il mio corpo. Tuttavia in quelle fotografie Ellen Stohl è “dimezzata”: da una parte bella, dall’altra disabile, dimostrando che disabile è un pezzo della persona, che inevitabilmente definisce la sua identità agli occhi di chi guarda. È come se l’esperienza del vedere quella normalità esibita con coraggio non ti permettesse di cogliere l’attraversamento del trauma che incornicia un’esistenza comunque rotta. Quelle immagini fanno prorompere la disabilità di Ellen Stohl nella normalità erotica o familiare, ma continuano a trattenere un enigma. La bella ragazza, sdraiata sul letto, nel tuo sguardo si ritira mostrandosi e rivelando uno scarto insondabile tra la sua presenza e una profondità invisibile. Come sostiene Nancy, “l’altro si ritira nell’abisso del suo ritratto, ed è in me che risuona l’eco di questo ritiro”[3]. Solo prestando ascolto a quell’eco sussurrato, puoi avvertire che, ritraendosi, l’altro condivide con te che guardi un’alterità che grava nel fondo di ciascuno di noi.

 

3.

IL PUER E IL SENEX

 

Lungo i portici della mia città un giorno ho visto una mamma dire non guardarlo a suo figlio che stava fissando un bambino tetraplegico in un passeggino spinto dalla madre; quest’ultima ha sentito e ha sorriso indulgente a quel bambino, che continuava a fissare suo figlio come ipnotizzato. Perché non doveva guardarlo? Perché ha continuato  a guardarlo?

 

Poco più in là il passeggino si è di nuovo fermato perché il bambino tetraplegico si è imbattuto in un suo compagno di scuola accompagnato dalla madre,  che lo ha salutato con entusiasmo, lo ha accarezzato e lo ha sommerso di complimenti: che begli occhi, che dolce, che amore…Un atteggiamento così diverso rispetto al primo? Due sono i sentimenti a prevalere di fronte ad un disabile: la pietà è lo strato superficiale, ovvero la compassione per un’esistenza cui sentiamo mancare qualcosa rispetto all’idea di normalità socialmente accettata, mentre lo strato più profondo va a toccare la paura irrazionale che si cela dietro a quell’immagine.

 

Secondo Leslie Fiedler la pietà è l’espressione dell’archetipo del puer, mentre la paura di quello del senex: sia il puer sia il senex sono deboli e indifesi, ma mentre il puer evoca protezione, il senex è ciò che temiamo, poiché  associato al consumarsi della vita. Per questo la pietà nasconde il terrore primordiale di avere a che fare con i disabili, eludendo il nostro rapporto non tanto  con loro  quanto  con  ciò che rappresentano: una condizione di vita sospesa, legata all’imprevedibilità stessa dell’esistere che ci sovrasta.

 

L’immagine di quel piccolo corpo disabile sotto i portici è allora l’incarnazione della tua vulnerabilità, perché l’essere umano nasce e vive continuamente esposto al rischio biologico dell’esistere.  Tu  credi  che  la  tragedia dell’imprevedibilità sia esterna a te perché ti sta di fronte, mentre ti riguarda ad ogni respiro. Il disabile è il perturbante, quella zona di “inquietante estraneità” che abita in te e che temi di fissare per non essere inchiodato alle terribili domande di senso. Per Aristotele “eleos kai fobos”, pietà e terrore, scaturiscono nello stesso istante nella scena tragica, a partire dalle azioni dei protagonisti, producendo nello spettatore una catarsi come riparo dalla scena stessa, che lo pone a una distanza prossima a coinvolgerlo[4].

 

La disabilità è uno “scacco alla vita”[5] che potrebbe accaderti all’improvviso, tanto che nella letteratura anglosassone sull’argomento i normali sono detti temporary abled. Il disabile ti induce a sospendere l’esistenza in una dimensione altra e a riflettere sulle condizioni di possibilità del tuo esistere alla luce della  morte.

È come se, dice Fiedler, la tua (presunta) normalità, sentendosi minacciata, volesse segretamente caricarli tutti su una nave − la nave dei folli di Bosch − che i venti possano spingere il più lontano possibile. Nella carezza al bambino in carrozzina c’è questa verità che si fa brivido nell’aria, così come nell’atto di voltarsi e di passare oltre, poiché quel brivido ci è già sbattuto contro. Del resto, è facile parlare del dramma quando i protagonisti sono i bambini, ma dopo? Già immaginando quel bambino tetraplegico tra quarant’anni la tua compassione vacillerebbe[6].

 

Le persone disabili tendono a diradarsi dalla sfera pubblica man mano che diventano adulte[7].  Lo  so  che stai pensando che è da cinico il mio tagliare con l’accetta la realtà, o forse ti sono venuti in mente Bebe Vio, Alex Zanardi, Ezio Bosso: esempi di disabili adulti presenti nella sfera pubblica senza indurre in compassione. Tra poco arriveremo anche a loro. Nel frattempo  pensa  a tutti gli altri: secondo l’ONU, 650 milioni, il 10% della popolazione della Terra, la “terza nazione del mondo”, che cresce, secondo l’OMS, di 8000 bambini al giorno. E pensa a “tutti i giorni”, che non durano un concerto o  un talk show.

 

4.

MOSTRI

 

Se questa visione perturbante della disabilità appartiene all’uomo moderno, nelle culture arcaiche forme di squilibrio deambulatorio come “zoppicare, avere un tallone vulnerabile, strisciare una gamba, saltellare su un piede solo, camminare con un piede scalzo, inciampare”[8] identificano un essere umano in grado di cogliere, per esempio, il passaggio delle stagioni o quello tra la vita e la morte. Pur rappresentando un’umanità incompiuta, il disabile è il mostro investito di una funzione mistico-sacrale, capace di monstrare un prodigio. Il monstrum ammonisce la comunità in virtù del turbamento che provoca[9], perché supera il limite naturale e mina i normali codici culturali e sociali.

 

Oppure, sempre in epoche remote, il mostro è eliminato, abbandonato (vedi la pratica dell’esposizione dei bambini o il diritto del pater familias di uccidere il figlio deforme[10]) perché incarna il male e tutto ciò che sfugge al controllo, è un altro il cui posto è fuori: fuori dalla famiglia, dalla polis, dalla specie umana, che invece ha bisogno della normalità come luogo mentale per soprav- vivere. Del resto questo essere posto fuori, di cui l’errore del corpo è segno visibile, ha anche a che fare sia con i riti di iniziazione, intesi come processi di trasformazione del sé più che come strumenti di legittimazione e controllo sociale, sia con il ritornare a sé per comprendersi. C’è una parte di te che scopri solo quando ti ritiri in te stesso per leggere la realtà attraverso un nuovo ordine simbolico. In fondo reale è ciò che accade nella tua mente. Dobbiamo far morire la realtà di prima per toccare l’abisso della nostra alterità, sepolta dal senso di colpa e dagli altri, che guastano il possibile in nome di un’infelicità condivisa nella logica del sacrificio. Perciò guardarsi dentro significa togliere le catene del magari e toccare il fondo oscuro che ci portiamo dentro, urlando il respiro inquieto della propria presunta libertà.

 

Sarà lo sguardo medico ed evoluzionista a concepire la disabilità come oggetto di studio (vedi lo sviluppo scientifico della teratologia dall’Umanesimo), in quanto l’uomo diviene sempre più come un “prodotto storico” e la malattia come accidente. Tuttavia, poiché in tal modo si crea il problema dell’incontro con i normali e con il limite che soggiace alla norma, dal XIX secolo circa i disabili vengono internati per esempio in ospedali, manicomi e nelle workhouses (dove la filantropia ricalca quell’archetipo del puer già ricordato prima). I disabili sono inclusi, ma entro strutture controllate che li certificano come nuova categoria sociale. Questo si lega anche al fatto che nel sistema produttivo moderno la mancanza di able-bodieness (idoneità fisica) crea una condizione di handicap (svantaggio) nell’assolvere il lavoro, fondamen- to economico della vita sociale.

 

Ma il monstrum è voluto da Dio o è un errore della natura? Se la natura può compiere errori, come è possibile che essa sia stata creata da Dio? La storia filoso- fica del male e della disabilità è un mosaico sgargiante di risposte: 1. Dio non esiste perché tutto è materia le- gata al caso e alla necessità. Le malformazioni sono esi- ti sfortunati della nascita, in cui si rivela la nudità della vita umana esposta alla “rapina del nulla”[11]; 2. Dio esiste, ma non si cura delle vicende umane: la disabilità è un fattore naturale endogeno; 3. La disabilità è una patologia karmica legata alla colpa delle vite precedenti; 4. Dio, onnisciente e onnipotente, vuole la disabilità per: punire un peccato commesso, ricordare alla comunità il nulla da cui proviene l’uomo e la caducità della vita terrena (Agostino), far capire i limiti della condizione umana, redimere l’uomo dal peccato; 5. Dio non vuole la disabilità perché contrasta con la sua somma bontà; 6. Non è Dio (causa prima), perfetto, bensì la natura (causa seconda) a generare cose imperfette perché è calata nel mondo, ma l’imperfezione particolare rivela comunque la generale perfezione del mondo, poiché la Provvidenza non impedisce il male. Dunque, pur non volendoli, Dio concede che ci siano i disabili, benché noi ne ignoriamo la ragione, poiché la prospettiva umana non si accorda con quella divina; 7. Secondo lo gnosticismo, Dio non vuole i disabili, che invece sono il frutto della corruzione insita nell’atto stesso della creazione[12]; 8. La disabilità è il luogo dove si manifesta Dio, la cui dimensione misteriosa non può mai contrastare con la centralità del suo amore. Del resto nell’Apocalisse si dice che l’Agnello è “immolato sin dalla fondazione del mondo” (13, 8), ovvero il fondamento della vita è la sofferenza, necessaria per permettere la libertà di ogni creatura. In altre parole la libertà, concessa da Dio all’uomo come supremo atto di amore, non sarebbe tale in un mondo privo di dolore.

 

A questo punto vale la pena ricordare, nella storia della disabilità, la figura di Georges Couthon, uno dei protagonisti della Rivoluzione francese. Nato a Orcet nel 1755, secondogenito del notaio Joseph, egli studiò Legge e fu avvocato; garantiva il patrocinio gratuito a Clermond-Ferrand, cosa che gli valse il titolo di “avvocato dei poveri”. Di un temperamento mite e moderato, fu membro del Comitato di Salute pubblica e Presidente della Convenzione (22 dicembre 1793). Nell’ultima parte della sua vita, a causa del succedersi degli avvenimenti politici, si schierò dalla parte del Terrore, scrivendo la terribile legge del 22 pratile, che istituiva i Tribunali rivoluzionari. Couthon è noto anche come il rivoluzionario “cul-de-jatte”. Dal 1787 fu infatti colpito da una malattia degenerativa, di cui non si conosce bene la natura: prima fu costretto a camminare aiutandosi con un bastone, poi con due grucce; già nel 1792 doveva essere portato “a braccia” dentro l’aula della Convenzione. A poco a poco perse l’uso delle gambe (in un discorso del 1792, egli dirà: “io che, colpito da una infermità che mi priva dell’uso di una delle gambe, non posso fare un passo senza l’aiuto degli altri”[13]). Molto tempo dopo il dottore Crabanés la diagnosticherà come “pachimeningite cronica della regione dorso- lombare”[14]. Forse ai suoi spostamenti era addetto una specie di militare. Comunque si muoveva con una sedia a rotelle (oggi conservata presso il Museo Carnavalet di Parigi), “munita di due manovelle adattate all’estremità di ogni bracciolo”[15]; gli era stata procurata dal collega della Convenzione Javogues, per facilitare la possibilità di muoversi a Lione, dove Couthon era stato incaricato di riportare ordine dopo le rivolte in città. Su di lui calò la ghigliottina il 10 termidoro 1794, lo stesso giorno in cui vennero giustiziati Robespierre e Saint-Just. Lo dovettero sollevare su una barella per salire al patibolo. Lo coricarono su un tavolo da un lato, dal momento che non riusciva a distendersi prono. Tutte queste operazioni durarono un quarto d’ora. L’articolo 21 della Costituzione del 1793 sul diritto all’assistenza reca il il segno della sua visione politica: “i soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve assistenza ai cittadini infelici sia procurando loro il lavoro, sia assicurando i mezzi di sussistenza a quelli che non sono in condizione di lavorare”. Assistere i bisognosi è considerato un diritto fondamentale dell’uomo. Aveva suggerito a Robespierre di istituire la Festa della Sfortuna, di cui abbiamo memoria nel discorso più noto di quest’ultimo: “Riunite gli uomini e li renderete migliori: poiché gli uomini riuniti cercheranno di piacersi l’un l’altro e non potranno piacere se se non facendo cose che li rendono stimabili. […] dobbiamo invitare alle nostre feste la Natura e tutte le virtù. […] E dobbiamo pure istituire una festa commovente: la Festa della Sfortuna […]. Gli schiavi adorano la fortuna e il potere. Noi onoriamo la Sfortuna, la Sfortuna che l’umanità non può bandire interamente dalla terra, ma che essa consola, e allevia con rispetto”[16]. Nel segno della scristianizzazione della società, i rivoluzionari credevano in un Essere Supremo, come “forza cieca” che “presiede i destini e colpisce a caso il crimine e la virtù”. Questa imprevedibilità della Sfortuna, che colpisce il destino di ogni uomo, può risvegliare la giustizia e la fraternità e ispirare “più rispetto per i suoi simili e per se stesso”[17].

 

Nel Novecento, anche a causa della disabilità di massa (dovuta alla guerra e agli infortuni del lavoro) e dello sviluppo del welfare, si afferma invece una nuova concezione del mostro, che da altro-da-me diviene vicino-a-me e, di più, dentro-me. I libri di Dostoevskij o I fiori del male rappresentano forse gli archetipi di tale cambiamento, dove il male è una scelta possibile dell’uomo, sovrastato dalla lontananza rispetto all’Ideal cui lo seduce la corrotta modernità. “Sono testardi i peccati, deboli i pentimenti”, dice Baudelaire, rivolgendosi al lettore nella prima poesia della sua opera. Se dentro all’uomo c’è qualcosa di ingovernabile che può condizionarlo minandone la ragione, ecco farsi strada la concezione del perturbante, che spaventa poiché è risonante e incontrollabile.

 

Note

 

[1]          Secondo Erving Goffman, l’identità sociale virtuale corrisponde alla categoria e al carattere che attribuiamo ad una persona; non solo in presenza di uno stigma, essa può essere diversa dall’identità sociale attuale, che invece corrisponde alla categoria e al carattere proprie di una persona (E. Goffman, Stigma. Notes on The Management of Spoiled Identity, Simon&Schuster, New York, 1963, trad. it. R. Giammanco, Stigma. L’identità negata, Ombre corte, Verona, 2003, pp.  12.13).

[2]               [2] Da ricordare anche i lavori del fotografo californiano Michael Stokes, interessato a rappresentare veterani di guerra in posa da modelli con gli arti amputati in vista: vedi in particolare Masculinity (2012), dedicato a Alex Minsky, un ex marine  con una gamba amputata a causa dello scoppio di una bomba in Afganistan. Altri suoi lavori sono: Bare Strenght (2014), Always loyal (2015) e Adonis blue (2016).

[3]               [3] J.-L. Nancy, L’altro ritratto, Castelvecchi, Roma, 2014, p. 31.

[4]               [4] Aristotele, Poetica, 6, 1349b 27-28.

[5]          “Ogni conoscenza ha la propria origine nella riflessione su uno scacco alla vita. Ciò non significa che la scienza sia un ricettario di procedimenti d’azione, ma al contrario che il progresso della scienza suppone un ostacolo all’azione. È la vita stessa, con la differenza che essa pone tra i propri comportamenti propulsivi e i propri comportamenti repulsivi, che introduce nella coscienza umana le categorie di salute e malattia. Queste categorie sono, biologicamente, tecniche e soggettive e, non biologicamente, scientifiche e oggettive” (G. Canguilhem, Du social au vital, Le normal et le pathologique, P.U.F., Paris, 1966; trad. it. di D. Buzzolan, Dal sociale al vitale, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 2008, p. 184).

[6]               [6] A questo proposito, nel documentario Genitori (2015) Aldo Fasulo ha provato a raccontare la tenace esperienza di genitori non di bambini, ma di uomini e donne disabili, che condividono drammi e pensieri, incontrandosi presso l’Associazione Vivere Insieme di San Vito al Tagliamento (Pordenone).

[7]               [7] Per meglio dire, la loro è una sfera pubblica alternativa, vissuta nei centri diurni e in altre forme di socialità, nonché di lavoro.

[8]               Questo elenco è presente ne Il formaggio e i vermi. La cosmogonia di un mugnaio del Cinquecento di C. Ginzburg (Einaudi, Torino, 1976, p. 221, cit. in M. Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, p. 20). Si ricorda anche lo stesso nome di alcuni personaggi dei miti, come Labdaco, padre di Laio, “zoppo”; Laio, padre di Edipo, “sbilenco”; Edipo, “piede gonfio”. Inoltre Efesto nasce deforme, così come zoppo è Dioniso e suo figlio Priapo che, amorphos e col membro sempre in erezione, si esibisce allo sguardo degli altri.

[9]               L’altra radice etimologica di monstrum è monēre (ammonire, far ricordare).

[10]            “Cito necatus insignis ad deformitatem puer esto”: sia subito ucciso il neonato mostruosamente deforme (Leggi delle XII tavole).

[11]            S. Natoli, Dolore necessario, dolore eliminabile, in Il dolore innocente, Fondazione Don Carlo Gnocchi-Àngora, Milano, 1999, p. 85.

[12]            Nel corso del tempo i filosofi e la Chiesa hanno ricondotto la disabilità a “errori di procreazione”: l’ubriachezza del padre, mancanza di forza del seme paterno (Aristotele), fare l’amore durante le mestruazioni, fare l’amore col tavolo rovesciato, far l’amore alla luce di una lampada (paralitici), fare sesso orale (muti), parlare durante il sesso (sordi), guardarsi gli organi genitali (ciechi), fare sesso durante la Quaresima o di domenica, fare sesso cercando eccessivamente il piacere, fare sesso con animali (specie da parte di atei e sodomiti), fare sesso col Diavolo.

[13]            F. Piro, La festa della sfortuna, Rizzoli, Milano, 1989, p. 58.

[14]            F. Piro, ivi, p. 16.

[15]            F. Piro, ivi, p. 17.

[16]            M. Robespierre, Sui rapporti delle idee religiose e morali con- tro i principi repubblicani e sulle feste nazionali, discorso pronunciato il 18 floreale a. II (7 maggio 1794), cit. in F. Piro, ivi, p. 164; anche in M. Robespierre, La rivoluzione giacobina, U. Cerroni (a cura di), Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 207.

[17]            M. Robespierre, in F. Piro, ivi, p. 163.

 

 

[Immagine: Marc Quinn, Antoher Kiss, 2006 (particolare)].

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