di Sara Sermini
È davvero una follia pensare una politica che sia anche poesia
piuttosto che una poesia spesso desiderosa di emulare la politica?
— A. Anedda, Sfollati a Lesbos, 2015
C’è una frase di Kafka che Antonella Anedda – poeta, saggista e anche docente di Letteratura contemporanea – ha citato una volta a lezione e che da allora custodisco con cura: «Nella lotta tra te e il mondo scegli il mondo». Ho ritrovato poi la stessa citazione, leggendo Dal balcone del corpo, in epigrafe a una poesia. E sono forse proprio queste parole che possono fungere da lente di ingrandimento per leggere i suoi versi: da Residenze invernali a Notti di pace occidentale, da Il catalogo della gioia a Salva con nome, passando Dal balcone del corpo fino al più recente Historiae, uscito lo scorso anno per Einaudi. Una poesia politica, quella di Anedda, nella misura in cui, appunto, sceglie il mondo; e quest’ultima raccolta, forse più delle altre, può dirsi schierata: dalla parte del mondo, appunto, dalla parte di quel ‘noi’ che lo abita e che, abitandolo, costruisce la propria narrazione, la propria storia.
«Papà, spiegami allora a che serve la storia», chiese una volta un bambino al padre che di mestiere faceva lo storico, e Marc Bloch prontamente annotò la frase nel suo quaderno di lavoro, per poi concentrare in quel verbo, ‘servire’, le ragioni della sua Apologia della storia. Se rivolgessimo la stessa domanda ad Antonella Anedda ci direbbe, forse, che la storia, quella fatta sulle carte con fatica e rigore, è come la poesia: non serve a niente e non serve nessuno, non è a servizio di nessuno. Quella storia che nelle raccolte di Anedda fino a Salva con nome era entrata obliquamente nei suoi versi – come quella «navata di chiarore» che si apre improvvisa nella stanza, di notte, allo spalancarsi del frigorifero – ora diventa l’argomento stesso della raccolta. Fin dal titolo di Tacito, Historiae, che Antonella Anedda fa suo, eleggendo lo storico romano a portavoce della ricerca di una lingua che sappia ridire la storia:
Rileggendo Tacito durante questa estate di massacri
il conforto veniva dal latino, la nudità dei fatti,
l’assenza o quasi di aggettivi,
il gerundio che evita inutili giri di parole.
Confrontando la traduzione con l’originale,
il testo italiano colava più lentamente sulla pagina.
In giorni pieni d’insegne levate in diversi schieramenti
la sintassi agiva come un laccio emostatico, frenava enfasi e lacrime.
[…]
Si decide in questi versi un itinerario: «il cammino verso ciò che è chiaro», verso una lingua che dica «solo ciò che deve», lo stesso cammino che era stato intrapreso da Tacito «quando aveva sessant’anni» e, proprio come Anedda, aveva iniziato a scrivere le sue Historiae. «La promessa di un semplice linguaggio» è ciò che aveva inseguito anche Amelia Rosselli, poeta che tra i primi recensì la poesia di Anedda, trovando forse in essa una comunanza d’intenti: «stringersi all’osso dei propri pensieri», citazione di una prosa di Anedda che dava il titolo alla nota di Rosselli, pubblicata su «il manifesto» l’8 maggio 1992. Potremmo forse parafrasare questa dichiarazione di poetica con il titolo che Anedda ha scelto per il suo corso sulla poesia del Novecento: “intensificare la realtà”, asciugando la lingua fino all’essenziale. In «lode dell’esattezza e del rigore», Anedda ricerca un fare geometrico, scientifico, incisivo come la cesoia che ‘decide’ le parole, tagliando fuori sempre e inevitabilmente un’altra parte del mondo e della verità:
Geometrie
Davanti alla dismisura delle cose cerco di provvedere,
scendo nel loro baratro. Ogni volta riemergo
con il metro, il compasso, la mente piena di cifre.
Mi struggo per la geometria, mi ostino inutilmente
a calcolare l’area del cubo, del parallelepipedo,
del prisma, nomi di un’aria di cristallo priva di veleno.
È un sogno infantile di teorema,
un innesto di mondo su un segmento di radice.
Se la osservi rimanda a un’equazione, al suo quadrato,
con l’ala dei numeri che svetta su ciò che è smisurato.
La discesa nel baratro delle cose significa anche un’immersione linguistica, nella limba sarda o nel bacino della traduzione (non a caso Anedda traduce una parte dell’Antropologia dell’acqua di Anne Carson), ma è anche un’immersione reale e corporea nelle acque di mari, laghi e fiumi che segnano la geografia della sua scrittura: «L’istinto è buttarsi di testa, inghiottire il verde e l’azzurro, percepire le alghe, sentire l’onda provocata dal tuffo nelle orecchie. In quello scendere il tuo io diventa ciò che è: non è importante, sta solo dentro la candela» (Isolatria, 2013). L’acqua, forse uno degli elementi più presenti nella poesia di Anedda, porta in sé la contraddizione del vivere: è lo spazio del movimento e del naufragio, della quiete e della tempesta. È uno spazio liquido, in cui la storia personale e la storia collettiva si fondono fino a dissolversi:
Esilii
… plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli.
Tacito, Historiae, I, 2
Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale.
Allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda, nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può – sì – sciogliersi nel sale.
C’è nei versi di Anedda un’attenzione per le cose, per gli animali, per le persone che nasce dall’osservazione attenta dei luoghi in cui la loro storia si consuma e che della storia portano le tracce: «un pesce chiamato gallinella», «un grumo di formiche» o un «geco» hanno lo stesso peso delle «case contadine del Duemila» osservate dal suo balcone, o dei «palazzi affollati di lenzuoli», dei «supermercati con le merci scontate», ma anche «di una madre in ospedale», dei «perduti, gli stranieri, i prigionieri tempestati di spine». C’è un patire-con-loro che assume i contorni della ciotola d’acqua che si lascia sulla soglia di casa per quel pellegrino che, come ognuno di noi, fugge «nell’onda di una memoria della specie». Lo sguardo di Anedda è sempre rivolto alle cose fragili, inermi, ai dettagli che sfuggono colti nella loro nuda vita, e la scrittura interviene anzitutto in loro difesa, come già dichiarato nelle Notti di pace occidentale:
[…]
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.
“La P di poesia è la P di povertà ed è la P di perdita”, dice spesso Anedda; e si ritrova quella P nel suo catalogo della gioia: «È la lettera della prova e dei pensieri, delle labbra che provano a pronunciare, che provano a pensare piene di pastoie, piene di passione». Nell’alfabeto ebraico di Rabbi Akiva, che Anedda ci consigliò di leggere a lezione, la lettera “Pe” (פה) ricorda la bocca, organo della parola e della fame. Mi piace pensare che nell’alfabeto di Anedda si trovino le tracce della «grammatica dei poveri» di cui parlava Amelia Rosselli nelle Variazioni belliche. La “PPPoesia” – come la chiama Giovanni Giudici in quel componimento intitolato Labiale muta che proprio a Rosselli è dedicato – è l’arte del silenzio, un’arte in levare, perché sa spogliare le cose fino a farle staccare dal fondo e brillare di una propria luce: una luce che è parola e che è cosa, «la cosa chiamata poesia», per dirla con un verso di Jiří Orten tradotto da Giudici che Anedda cita spesso alle sue studentesse e ai suoi studenti, creando un’improvvisa vicinanza all’oggetto-poesia.
C’è un filo che collega le cose, le parole e le persone alla storia, come il filo che usava Maria Lai per cucire le sue Geografie, intessendo relazioni nello spazio di uno scampolo di stoffa. Geografie è diventato il titolo del prossimo libro di Anedda. «Esistere è occupare spazio, costruire spazio, inventare spazi, specie per chi occupa poco spazio»: immagino che questa frase di Lai, che Anedda ha scelto di citare in chiusura del suo scritto per il catalogo della mostra sull’artista sarda (Maria Lai. Tenendo per mano il sole, MAXXI Roma, 19 giugno 2019/12 gennaio 2020), sia il filo che – in un gesto profondamente politico come quello del ‘cucire’ – leghi Historiae e Geografie. Sembra di tornare sui banchi di scuola. Si incomincia sempre da capo, con lo sguardo rivolto alla storia, come l’angelo di Klee: «ogni sette anni si rinnovano le cellule» (o, come diceva Giudici, parafrasando Arendt lettrice di Agostino in Vita activa: «incominciare è il nostro unico modo di esserci»). Si incomincia leggendo: «(LEGGI LE HISTORIAE DI RODOLFO IL GLABRO / 5 libri sulla nudità della fame)». Un consiglio maiuscolo: la lettura è l’“acqua che insegna la sete”, è la vera ricchezza, mentre la scrittura è un esercizio di povertà.
I versi poveri, lapidari, di Antonella Anedda ci conducono nelle pieghe della storia, dove si nascondono gli scarti quotidiani, le spoglie del mito, la polvere che si deposita nelle case abbandonate di chi fugge. Questi resti consunti della storia sono ciò che rimane al poeta, «povera cosa che tesse questo ordito», insieme ai fili per intrecciarli.
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[Si pubblicano qui, con il gentile consenso dell’autrice, due testi inizialmente pensati come introduzione a S. Sermini, «E se paesani / zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli, introduzione di Antonella Anedda, Firenze, Olschki, 2019]
Antonella Anedda
POVERA è questa povera cosa che tesse questo ordito. Povero è questo oltraggio al mito. Povera stuoia di acciaio e lana. Povera stuoia pelle nella consunzione, povera spoglia pestata dalla storia.
POVERO è un sostantivo ambiguo. Povero è chi ha poche ore. Povero è chi ha solo il palato. Povero è chi si mette in viaggio e spera e dispera di tornare.
Povero è chi ha paura. Chi insegue, chi è inseguito.
Povera è la lingua che conosci chiusa in gola e sommersa dai suoni sconosciuti.[1]
Povertà. Cronache, 2019
Non so quale nuovo rigore mi abbia portato a voi, case dal terreno nero
— Amelia Rosselli
Di nuovo voi case dal terreno nero. Voi muri neri eretti sui confini.
Zolle nere. Tende nere.
Povertà è una parola medioevale che si arma nel mondo occidentale
(LEGGI LE HISTORIAE DI RODOLFO IL GLABRO
5 libri sulla nudità della fame)
Zolle nere. Tende nere.
Guarda il telegiornale
Deserti, piogge, fuoco. Gente in fuga.
Crolli. Detriti, resti di cose usuali.
Case scardinate.
Povera è questa Italia che smotta zero a zero.
POVERA (o forse no?) è la forma che si decompone.
[1] Questa prima parte del testi è stata pubblicata, con qualche variazione, sulla rivista online Specimen: http://www.specimen.press/articles/compagnia-delle-poete-translates-antonella-anedda/
[Immagine: Pino Pascali, Stuoia o tela di Penelope, lana d’acciaio intrecciata, 1968 (Galleria Nazionale D’Arte Moderna – Roma)].
Interessante e coinvolgente!! AD.