di Pietro Pascarelli
Ho un’antica e istintiva simpatia per le cose modeste, e (almeno in apparenza) ordinarie. Racchiudono funzioni e significazioni misteriose, hanno visto forse in altri mondi cose che vorremmo conoscere. Se solo sapessimo! Ma di solito non sappiamo.
Si pensi, volendo trovare esempi illustri e forse ai margini ultimi del possibile, alle misteriose piccole palle di celluloide dal rimbalzo perpetuo che un pensionato trova in casa, annunziate oltre la porta d’ingresso da uno strano ticchettio, al suo rientro una sera in un racconto di Kafka del 1915, dal titolo Blumfeld, ein älterer junggeselle (Blumfeld, un vecchio scapolo), o anche ad oggetti comuni ma in realtà fatati, come la lampada di Aladino.
Pur riconoscendo tali oggetti come da me ben distinti, li sento subito partecipi della mia vita, sento che mi riguardano, e che possiamo fare delle cose assieme. E nello stesso tempo sento che da loro, presenze amiche, mi potrà provenire un qualche dono speciale. Un oggetto d’uso di scarso valore mi arricchisce, mi chiama a mettermi in ascolto o, il che è lo stesso, a inventare per lui qualcosa, a riconoscerne le potenzialità nascoste, soprattutto se si tratta di abiti e indumenti in genere. L’oggetto è la sponda sui cui approda e si delinea l’espressione di me stesso.
Preciso subito che intendo riferirmi qui proprio a cose semplici, ossia non ricercate, di poco prezzo, e destinate al mercato popolare, oggetti d’uso e non soprammobili, fatti per nutrire i sogni e confortare i giorni dei poveri diavoli o di fortunati visionari, cose non prima immaginate e descritte, a differenza di quelle citate con pedigree letterario.
La cornice in cui potrei inserire il discorso, che qui tocca un caso particolare, è quella universale che contempla il rapporto fra umano e materia, e i rapporti intensi che possono stabilirsi fra mondo della vita, e specificamente la soggettività umana, e mondo degli oggetti di per sé inerti cui ho accennato in due saggi precedenti: La rivoluzione della poesia. Un’arancia a orologeria (A Clockwork Orange) di Anthony Burgess, e Erotismo e distruttività, Otto F. Kernberg.
Un rapporto in cui l’investimento vitale (di libido) anima gli oggetti e innesca il manifesto dispiegarsi di qualità e di una dinamica potenziali, avviando un intreccio inatteso di percezioni e azioni.
Parlo di mercato popolare perché era quella la normale destinazione originaria, fatta salva l’attrazione che questi mercatini possono esercitare su chiunque indipendentemente dal ceto. La vendita, cui talvolta in Lucania ho assistito personalmente, avveniva ad esempio nelle piazze dei paesini del Sud italiano. Si trattava di piccoli oggetti da bazar che erano venduti tutti e ciascuno a un prezzo unico, diciamo trenta lire (lo stesso prezzo dell’ingresso nei cinema del mio paese, che era convertibile anche in un corrispettivo di uova fresche). C’erano pettini, collane e bracciali, tappi e strofinacci, spagnolette di filo per cucire, orli per abiti, serie di aghi, piccoli utensili da cucina, specchietti e fermacapelli, e mille altre cose ancora.
Gli acquirenti erano donne soprattutto, chiassose e sorridenti o mute e concentrate, ma non mancavano, attorno al banco su cui era stato rovesciato il contenuto di un enorme lenzuolo, sparuti uomini curiosi che non toccavano però quasi mai la merce, a differenza delle donne, le quali la rimiravano già da lontano, estasiate dai dettagli di cose a lungo desiderate, e poi se la rigiravano fra le dita di fronte al mercante, detto da quelle parti non a caso “scialapopolo”. Un distributore terreno di manna celeste, un uomo-angelo che porta sfizio, ristoro, “scialo”, ossia spandimento di beni. Un angelo irriverente ed eccitante, un forestiero smaliziato, magari un levantino proveniente dalla “marina” pugliese, o un “napoletano”, che portava lo scompiglio nei cuori delle ragazze. Non tanto per la sua persona, o per i suoi ammiccamenti, che pure facevano la loro parte, ma per le visioni che sapeva in un momento evocare con la sua sola attesa apparizione nei torridi pomeriggi estivi, quegli stessi pomeriggi in cui in Sicilia, come narra, mi pare, Ercole Patti, i giovani immersi nella noia ed esposti a venti forti di sensualità passavano il tempo a popolare di belle ragazze fantasticate lo spazio dinanzi a loro seduti all’ombra fresca di un caffè. Ne delinevano i contorni con gesti sicuri delle mani, le ritoccavano, le contemplavano soddisfatti, non erano più soli.
Visioni, dicevo, di mondi diversi dove palpita una vita piena e generosa di incontri e occasioni. Non sempre c’erano soldi per comprare quelle quisquilie luccicanti, quei ninnoli benauguranti e invitanti, e allora gli sguardi si facevano quasi furtivi, il trasporto verso le cose era dissimulato, il possesso si faceva miraggio, un piacere da rimandare. Il mercato diventava scuola di vita, l’uscita di casa senza soldi era rinuncia solo apparente, e serviva a scambiare sguardi e promesse. A meno che non arrivasse Mandrake a trasformare col suo gesto illusionistico le emozioni e un ciuffo di basilico in banconote fiammanti con cui acquistare cianfrusaglie a trenta lire per tutta la vita.
Accanto alle piccole cose a prezzo unico e fisso c’erano i banchi con i prodotti più grandi, sempre economici, e con prezzo da contrattare.
Stranamente in quest’odierna modernità arrogante ma non troppo, data la crisi economica, sono tornati sia il mercato tipo “trenta lire” sia la possibilità di tirare sul prezzo, come si è sempre usato a sud e a oriente.
Andiamo agli oggetti, alla loro capacità di fascinazione presente ora come allora.
Ci sono camicie solo apparentemente povere, nude, senza incarto. Come può riconoscere un’occhio allenato ad andare oltre le apparenze ma cogliendovi una traccia, nella mantica di un mondo con le parole ancora legate alle cose, esse si rivelano dopo l’acquisto particolarmente morbide e resistenti, ma soprattutto dotate di un particolarissimo stile, e donano una specie di nuova immagine di sé, di rinnovata freschezza del corpo e delle sue linee, di nitore del volto che incorniciano. La loro semplicità si rivela destinata per contrasto ad abbracciare la magnificenza dei re. Dopo averla indossata, l’acquirente spicca il volo e incontra la più inattesa bellezza. Il bianco della stoffa venato di lilla, di ghiaccio, di arancio abbaglianti, viene da un bagno di fiori e di luce, la piega della stoffa nasconde carezze. Il segreto della griffe, l’alone magico della propaganda che monopolizza una bellezza di classe e ne custodisce un’estetica esclusiva e supponente, appare superato per effetto della fortuna e del caso, che soprintendono alla vita di tutti, e della Provvidenza, che pare soprattutto attenta alla buona sorte dei meno abbienti, e a mandare certi messaggi all’intero mondo degli uomini. Rinasce un dialogo di tutti, in cui ciascuno si riconosce nella sua fantasia e abilità, con le cose e la loro creazione e la possibilità della speranza, dico non della singola speranza, ma della totale trasformazione nella speranza e in un’altra intelligenza di tutto un mondo congelato in proprietà esclusive e sbarramenti.
Scopriamo lo stilista assente, una maestria astrale diffusa, una potenzialità di genio, una qualità incommensurabile al di là di ogni persona e virtualmente alla portata di tutti, libera.
Certo esistono diverse qualità di stoffa, migliori e peggiori, ma è il loro imprevedibile
effetto finale che più conta ai nostri fini, e spesso capita pure che la stoffa della roba cheap sia per oscure ragioni assai buona. Ricordo pantaloni indistruttibili e non per questo meno confortevoli. Con alcune paia di pantaloni cheap sono riuscite imprese passate nella leggenda. Questi fedeli compagni hanno promosso e donato avventura ed eros, con la loro aderenza all’immaginario più ardito hanno fatto aprire le porte del cielo, per citare Bob Dylan. Capaci di rimescolarsi nel mondo senza sporcarsi, senza sgualcirsi perché al di sopra delle rigidità formalistiche, essi vi spingono all’azione audace ma non temeraria, danno di voi la giusta impressione di una persona affidabile e non sdolcinata o troppo pretenziosa o timorosa, capace di entrare in piena confidenza con la vita.
Potersi cambiare i pantaloni, avere un pantalone in più, un altro pantalone, può cambiare una notte di maggio, e trasformare la noia in avventure memorabili.
Perfino in uno strofinaccio, purché cheap, cioè non già marchiato dal consumo e dalla riduzione del potere dell’invenzione e della fantasia, del potere di trovare quel che non c’era e quel che non c’è, possiamo trovare tesori.
Ci sono nastri e spille per capelli semplicemente splendidi nella loro sobrietà, nei lampi di amichevole intesa che lanciano dal fulgore di strass e perline. Ci sono linee che fermano e tengono uniti la nuvola dei capelli e chi li guarda: scorrono come le ore della sera, leggere e gravi insieme. Non hanno la pretesa di attrarre su di sé, rimandano al potere incantevole dell’altro che li indossa e ammiriamo. Non si guastano, non si alterano quasi mai col tempo, non perdono lo smalto dei primi giorni né pretendono le cure dei metalli preziosi, cha a volte aborrono il contatto con la pelle e i suoi umori. Sono di plastica, ma sembrano di madreperla, e argento o oro. Non vogliono aver valore, ma dar valore, e convertono in luce le tenebre del nulla che scongiurano.
Potere è disporre di ciò che si può avere. Un potere spinoziano che riempie la vita con semplicità.
E che dire del contrasto fra un semplice tessuto privo di ricami e altre finezze e il delicato splendore dell’incarnato femminile?
Un prodigio che prescinde completamente dal pregio del tessuto.
Potrei notare inoltre, parlando sia di pezzi singoli che dell’accostamento di diversi capi di vestiario, che la loro fascinazione non dipende dalle nostre fantasie in materia. Uno fa molti sforzi, prima di un appuntamento importante si pettina con la riga a destra come un tempo usava fra gli attori americani, si profuma, indossa quel che gli sembra il meglio che ha, non sapendo che il risultato sperato dipende solo dal caso, da una “pura combinazione”, o meglio, come diceva il mio amico poeta Vito Riviello, da una magia. Spetta a Eros creare legami.
Potremmo allora rilassarci un po’, e aver fiducia che qualcosa di buono possa accaderci.
Ridimensioniamo così l’arroganza e riscopriamo i limiti del sapere e dell’aspettativa ordinari. Ci chiama, ci avverte della sua presenza, se siamo attenti, qualcosa di ben migliore.
Uno spirito sublime, un’anima del mondo, una forma superiore di conoscenza. Una forma di razionalità che valorizza anche l’irrazionale, che non accetta riduzioni, autosvalutazioni, inibizioni, sottomissioni, censure e conformismo.
L’umiltà dei piccoli oggetti senza pretese li rende inoltre ottimi in certi casi per farci compagnia, per proteggerci dall’horror vacui. Non richiedono sistemi antifurto, svolgono assai bene la loro funzione senza chiedere niente. Possiamo metterli ovunque, guardarli, liberamente disporne, toccarli, spostarli, usarli. Stringerli senza timore. Nella nostra intimità con loro scopriamo accorgimenti inaspettati che li rendono più maneggevoli e sicuri, stabiliamo un legame duraturo e solido. Non importa che siano belli purchè li troviamo accoglienti e familiari.
Ci sono − diffusi soprattutto nei piccoli centri non so perché, forse per una prevalenza in essi di sognatori − anche piccoli accessori da cucina o elettrodomestici sfuggiti con la loro originalità all’omologazione della grande produzione, che si amano spesso anche per la loro simpatica e tenera bruttezza. Sono presenze cui possiamo in qualche modo attribuire un significato da scoprire: sono forse lì per dirci o darci qualcosa di speciale. Le forme delle carrozzerie di fornetti, frullini, macinacaffé, caffettiere, presentano inusitate particolarità: rigonfiamenti come un militaresco petto infuori, o profili stranamente sbilenchi, dei manici lignei o supermorbidi al silicone con incavi appositi per le dita e colori acidi, cromature motociclistiche, oppure trasparenze, pannelli di comando con un eccesso di manopole, tasti luminosi, spie. Di certo il caffè macinato da quella certa macchina o i cibi usciti da quel certo forno ci paiono acquistare un aroma singolare, e le sue linee ci fanno meditare, perché non hanno per noi, abituati all’uniformità dei prodotti consueti, niente di scontato. Questi oggetti hanno talora perfino un nome, naturalmente insieme familiare e sorprendente, facile da ricordare.
Forse ci danno incredibilmente il brivido di immagini, di un volto e un corpo, e ci sorprendono perché non rientrano in alcun canone di bellezza o di eleganza convenzionali. Dall’ombra o dalla piena luce in cui vengono a trovarsi, specialmente in una casa di cui siamo graditi ospiti, emanano sensazioni, sentiamo la grazia di presenze benevole e sensuali che intendono farci godere una sorpresa, darci una cosa buona tutta per noi. Sentiamo il respiro, il fruscio, quasi la parola, di qualcuno che oltre ai nostri ospiti ci ama e ci fa il dono di questi oggetti così modesti da ispirare l’idea di un pieno di virtù. Spesso, per effetto forse della condivisione di una causa comune, come di uno stacco inaspettato nel corso delle cose, che essi segnalano con la loro comparsa, ci fanno rivivere con un salto in un’altra dimensione i giorni in cui scoprimmo la tenerezza, in cui per la prima volta fummo felici.
Parlano di un mondo alternativo, dove si potrebbe vivere meglio, senza tanto stress e complicazioni. Parlano forse anche di uomini diversi, di persone che non hanno bisogno di magnificarsi attraverso oggetti ricercati, e divenuti simboli di un preteso successo, di imprenditori coraggiosi senza grandi designer nel loro staff, di interpretazioni del mondo differenti.
Il fascino su di me delle cose alternative si estende a saponette, profumi e detersivi “alternativi” con nomi mai sentiti e confezioni sui generis ai limiti della bizzarria, eppure capaci di stabilire un rapporto, di suggerire emozioni nuove, di creare mondo.
Un caso particolare è quello degli oggetti Kitsch. Opere che hanno qualche tratto più definito e tipico, oggetti spesso seriali e senza autore materiale del manufatto, senza pretese sublimi, ci confortano tuttavia con dolcezze indicibili tanto sono comprensibili e ordinari nel riferimento alla loro funzione di esercizio estetico, di cosa utile ma anche d’affezione, di chiave per l’accesso ai misteri della soggettività. Si tratta di cose tipiche e fiabesche, di casette, di maialini, dai colori e dalle superfici accattivanti alla vista e al contatto.
Henry James ha introdotto la questione del kitsch nell’arte ponendola accanto all’irresolutezza della mente umana e a paralizzanti idealizzazioni in un suo bel racconto, La Madonna del futuro, ispirato al racconto di Balzac Il capolavoro sconosciuto[1]. Nel racconto di James fra le altre cose un pittore americano idealista consuma la vita a Firenze senza osare ritrarre la sua giovane modella conosciuta in gioventù per timore di non realizzare l’opera sublime che desidera, e si ritrova alla fine di fronte a sé una signora ormai attempata che non potrà mai più ispirare quel che sognava. Morirà di crepacuore. Gli fa da contrappunto sfacciato e insolente un giovane che produce piccole sculture, ninnoli da caminetto, piccoli esemplari kitsch, appunto, che gli danno successo anche all’estero.
Il controverso tema, sullo sfondo della pop art, si ripropone esemplarmente nel nostro tempo con Andy Warhol e Jeff Coons, artisti di fama le cui opere schizzano immediatamente fuori dalle categorie delle piccole cose senza valore di cui qui ho trattato.
Si nasconde dietro il kitsch e dietro la simpatia per i piccoli oggetti di buon prezzo lo specifico trionfo di un nuovo prodotto che va al di là della concezione classica dell’arte, e si celebrano i fasti del possibile dietro le virtù di una semplice camicia? Ma forse questi oggetti danno sollievo a un cupo dolore, a un’indicibile nostalgia, e sono una temporanea risposta alla ricerca dell’oggetto introvabile che apre le porte del giardino dell’Eden. E un modo per ritrovarci e conoscerci rispecchiandoci nel mondo e nei suoi oggetti investiti dal nostro sé, creati dal logos che da noi promana.
[1] Dal racconto di Balzac fu tratto con libera ispirazione La Belle Noiseuse, film del 1991 diretto da Jacques Rivette, con Michel Piccoli, Jane Birkin e Emmanuelle Béart.
Bibliografia
Henry James, The Madonna of the future (The Madonna of the Future, and other tales (1879) (London: Macmillan, Vol. 1, pagg. 1-73, tr. it. e Post-fazione di Pietro Pascarelli, Introduzione di Simone Francescato, La Madonna del futuro (2016), in Henry James, Segreti d’artista (Potenza, Edizioni Grenelle)