a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini

 

[Esce oggi per Argolibri, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, «Tacete, o maschi». Le poetesse marchigiane del ‘300, accompagnate dai versi di Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda e Franca Mancinelli e dalle figure di Simone Pellegrini. Pubblichiamo in anteprima i quattro sonetti di Ortensia Di Guglielmo – più uno di Petrarca – , seguiti da una lettera in versi ad Ortensia di Antonella Anedda. Ringraziamo Fabio Orecchini e Argolibri].

 

ORTENSIA DI GUGLIELMO

 

al Petrarca *

 

IO vorrei pur drizzar queste mie piume

Colà, signor, dove il desio m’invita;

E dopo morte rimanere in vita

Co’l chiaro di virtute inclito lume.

 

Ma l’volgo inerte che dal rio costume

Vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita:

Come degna di biasimo ognor m’addita;

Ch’ir tenti d’Eliconia al sacro fiume.

 

All’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto,

Come che qui non sia la gloria mia,

Vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.

 

Dimmi tu ormai che per più dritta via

A Parnaso te ne vai, nobile spirito

Dovrò dunque lasciar sì degna impresa?

 

L’attribuzione di questo sonetto è incerta. Ricorda Daniele Cerrato in “Presenza assenza delle petrarchiste marchigiane” (cfr. infra p. 17 “Bibliografia di riferimento”): «Nel 1635, Giacomo Filippo Tomasini, riporta nella sua opera Petrarca redivivus, il nome di Giustina Levi Perotti di Sassoferrato, come autrice del sonetto «Io vorrei pur drizzar queste mie piume», che Giovanni Gilio invece, nella sua Topica poetica del 1580, attribuiva a Ortensia di Guglielmo».

 

*

 

TEMA, e speranza entro il mio cor fan guerra,

E quanto innanzi lo sperar mi tira,

Tanto il timore indietro mi ritira;

M’innalza quel, questo mi getta in terra.

 

Mi scioglie l’un, l’altro più stretto afferra,

Ed in mille pensier m’involve, e gira:

Onde lo spirto mio piange, e sospira,

Ma non per questo il suo valor lo sferra.

 

Al fin, poiché il tardar nulla rileva,

E fatta del mortal periglio accorta,

La speme i colpi suoi tutti rinforza:

 

Anima, dice, alla celeste porta

Diamo l’assalto; e se il nemico aggreva,

Sai che il regno del Ciel patisce forza.

 

*

 

[Francesco Petrarca: sonetto di risposta ad Ortensia di Guglielmo] *

 

LA gola, e ‘l sonno, e l’oziose piume

Hanno del mondo ogni virtù sbandita,

Ond’è dal corso suo quasi smarrita

Nostra natura vinta dal costume:

 

Ed è sì spento ogni benigno lume

Del ciel, per cui s’informa umana vita;

Che per cosa mirabile s’addita

Chi vuol far d’Elicona nascer fiume.

 

Qual vaghezza di Lauro? Qual di Mirto?

Povera, e nuda vai, Filosofia

Dice la turba al vil guadagno intesa.

 

Pochi compagni avrai per l’altra via;

Tanto ti prego più, gentile spirito,

Non lassar la magnanima tua impresa.

 

Che questo sonetto sia stato effettivamente scritto in risposta a quello di Ortensia di Guglielmo, rimane ancora, filologicamente, incerto. Lo riportiamo, in ogni caso, per non escludere la possibilità che un tale scambio di versi sia realmente avvenuto. Ne dà notizia Daniele Cerrato, nel suo articolo, “Presenza assenza delle petrarchiste marchigiane”, ricordando come sia stato nel 1678 un erudito, Egidio Menagio, a dichiarare che il sonetto venne scritto alla «Signora Giustina Levi Perotti da Sassoferrato [sul nome si veda la nota precedente] in risposta a questo, da detta Signora scritto a detto Petrarca» (Menagio, 1692: 279). Come ricorda Cerrato, Menagio giustifica la sua attribuzione così: «[…] si vede chiaramente, sì per le cose in questi due Sonetti contenute, che sono d’un istesso sentimento, sì per le medesime desinenze: anzi per le medesime voci poste in rima, fuor di una, che è quella d’invita». Sono considerazioni che, sottolinea Cerrato, «provengono da un erudito importante e apprezzato, che ha dedicato vari studi all’analisi dell’opera petrarchesca. Non si tratta dunque di affermazioni estemporanee, ma inserite all’interno di un’analisi approfondita e articolata del sonetto in questione».

 

*

 

AL PAPA, CHE STAVA IN AVIGNONE

 

 

ECCO, Signor, la greggia tua d’intorno
Cinta di lupi a divorarla intenti;
Ecco tutti gli onor d’Italia spenti;
Poi che fà altrove il gran Pastor ritorno.

 

Deh quando fia quell’aspettato giorno,
Ch’ei venga per levar tanti lamenti;
E riveder gl’abbandonati armenti,
Che attendon sospirando il suo ritorno?

 

Muovil tu Signor mio pietoso, e sacro;
Ch’altri non è, che il suo bisogno intenda
Meglio, o più veggia il suo dolore atroce.

 

E prego sol, che quello amor t’accenda,
Qual per farli un celeste almo lavacro
Versar ti fece il proprio sangue in Croce.

 

*

 

VOrrei talor dell’intelletto mio

Tanto sopra me stessa alzar le penne;

Che potessi veder quanto sostenne,

Per amor nostro, il gran figliuol di Dio.

 

Come pieno di zelo ardente e pio,

Sendo egli offeso, a chieder pace venne.

Come, e qual fren con noi tanto lo tenne:

E come su la Croce al fin morio.

 

Ma vinta al fin dalla grandezza immensa

De l’audace disio ripiego l’ali

E dico, o grande amor, chi ti comprende?

 

Quando ti seguo più, tanto più sali;

Ti fai maggior, quanto più in te si pensa;

Te intende sol, chi fa che non t’intende.

 

 

 

 

 

 

ANTONELLA ANEDDA

 

Sonetto disubbidiente

 

Tu vorresti drizzare le tue piume (attenta, che il termine si usa anche per l’oca)

Là dove il desiderio (della gloria?) chiama

e dopo morta rimanere in vita (che ossessione: elimina l’ossimoro, non è meglio l’effimero?)

con la virtù di un lume (togliamo “inclito”?)

 

Dici che il volgo è inerte, reo e ha smarrito la via (quale?)

ti addita col suo biasimo (è normale, come i maschi nei social

seguaci di quell’Onan che non ha meglio da fare)

una che tenta di salire il fiume delle arti e non è Musa (…)

 

Dicono, (come qualcuno oggi?) che devi stare a casa

anzi nell’orto (ti chiami Ortensia, dunque lì devi stare, a fare giardinaggio)

Che devi coltivare la salvia, il rosmarino – non il lauro o il mirto

e non devi pensare, – questo è il vero peccato –

ma stare con la mente intenta al tuo cucito.

 

Ortensia, non scrivere a Petrarca (se è vero che hai chiesto il suo parere)

cosa vuoi che risponda – chiedi a un altro poeta (del futuro) scavalca i sessi

lascia che un’H s’illumini davanti alla vocale. Diventa Hortense, smetti

di essere virtuosa, poi trasformati di nuovo, diventa la libellula di Amelia,

disperdi il seme, l’umore, smetti di sospirare per la fama

disubbidisci

stai fuori dall’elogio e dalla rima, diventa spensierata,

filosofa dei boschi, deponi la speranza e la paura

diventa un corvo, una cornacchia, trovati da sola.

 

 

[Immagine di Simone Pellegrini].

 

1 thought on “Tacete, o maschi. Le poetesse marchigiane del ‘300

  1. Una volta questa era una rivista/blog seria/o. Posso intuire le motivazioni alla base del volume, ma non era corretto pubblicare anche una premessa in cui si specificava che i testi delle supposte poetesse non sono considerati autentici dalla maggior parte dell’accademia?

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