di Lorenzo Bernini
[Pubblichiamo il quarto intervento della rassegna intitolata Chi ha ucciso la critica? Un’indagine indiziaria, a cura di Mariano Croce, in cui autrici e autori si confrontano sulla recente contrapposizione, dialettica o meno, tra critica e postcritica. I primi interventi possono essere letti qui, qui e qui].
1. In punta di piedi: Dopo una serie di articoli sulla postcritica ospitati da Le parole e le cose, entro nel dibattito in punta di piedi e fuori tempo (nel tempo sospeso dell’emergenza sanitaria – questo testo è stato steso nel mese di aprile 2020 –, benché sia stato invitato a intervenire ben prima che questa scoppiasse), ma non in punta dei piedi solo perché fuori tempo. Potrebbe infatti sembrare, e a ragione, che la postcritica non sia affar mio: non cioè affare di uno – mi si permetta una presentazione – che da poco ha pubblicato un libro nel cui sottotitolo quei titani della critica che sono Freud, Marx, Fanon e Foucault compaiono a braccetto[1]. Ci entro quindi in punta di piedi, e per cautela mi affido a chi, in Italia, questo dibattito lo ha portato, prima con la traduzione del saggio di Davina Cooper Utopie quotidiane[2], poi con due articoli pubblicati sulle riviste «Politica e società»[3] e «Iride»[4] nel 2017 e nel 2018, quindi curando sul tema un numero monografico di «Politica e società» (n. 2 2018, in cui compare un terzo articolo[5]), e infine con un libro breve e intenso, Postcritica: Asignificanza, materia, affetti (Quodlibet 2019). Citerò in particolare da quest’ultimo, con la consapevolezza – che per chi legge valga da avvertenza – che in esso, come negli altri testi che ho elencato, Mariano Croce non si limita a spiegare che cosa sia la postcritica, ma della postcritica produce una versione personale e originale. Sarà a questa versione della postcritica, quindi, che per iniziare mi richiamerò.
Nella definizione di Croce, la postcritica è «una cartografia che rileva legami imprevisti tra le cose» (49), o meglio ancora è una cartografia che «crea legami con le cose che eccitano la rottura di modelli reiterati consentendo di fare ingresso in nuove individuazioni». La postcritica, in altre parole, «crea nuovi legami con nuovi attori», «esalta[ndo] la via dei legami affettivi» (70). E tuttavia, nonostante questa insistenza sul nuovo (i corsivi erano miei), «la postcritica non ha alcuna propensione alla dialettica», perché nella sua prospettiva «nessun momento supera nessun altro» (74). Pertanto, ed infine, essa è «capace di fare le stesse cose che fa o faceva la critica in modo diverso» – che Croce ritiene più efficace (8). Questa articolata definizione mi permette di definire il mio rapporto con la postcritica, di specificare il senso che acquisisce per me il prefisso ‘post’ nella misura in cui posso fare la postcritica, in certa misura, mia. Se il ‘post’ non ha il senso di un superamento ma conserva il senso del rinnovamento, per me può avere anche il senso di un ripensamento: della ricerca di un nuovo che non sia fuga lineare nel futuro, ma differente curvatura dei rapporti con il presente e con il passato. Detto altrimenti: se negli ultimi anni la mia pratica teorica è stata affettata da una certa flessione postcritica, questa flessione non contraddice la vocazione critica delle mie ricerche, di cui è semmai una variazione. Tanto che continuo a pensare – ho già fatto il mio coming out –, con Freud, Marx, Fanon, Foucault (ed altre e altri, ça va sans dire). Nel mio caso, quindi, la postcritica diventa occasione di allacciare legami nuovi con la tradizione critica, riconfigurando la rappresentazione che abbiamo di essa. Precisato questo, appoggio i talloni.
2. Indovina indovinello: Quale pratica teorica, «crea legami con le cose che eccitano la rottura di modelli reiterati consentendo di fare ingresso in nuove individuazioni»? È una delle definizioni della postcritica elaborate da Croce che sono appena state citate, risponderà chi ha letto fin qui con attenzione. Ed è esatto: eppure, a mio avviso, queste stesse parole possono essere usate per definire la critica, o almeno una certa critica. E non soltanto a mio avviso. Nel recente articolo The Inorganic Body in the Early Marx: A Limit-concept of Anthropocentrism[6], Judith Butler (ecco una delle altre) sostiene che nella sua critica alla critica – perché di questo comunque si tratta, come ora cercherò di mostrare – Bruno Latour commette un errore di generalizzazione. Questi, infatti, denuncia il carattere ‘negativo’ della critica, che a suo avviso consiste nel rifiuto sospettoso, pessimistico e preventivo di quanto accade nella realtà sociale. Mentre, per Butler, non sono affatto questi atteggiamenti ad accomunare tutte e tutti coloro che praticano pensiero critico. Al contrario, a suo avviso, la ‘negatività’ che caratterizza la critica consiste nella sospensione dell’opinione secondo cui la realtà sociale è immutabile, e gli attori sociali sono immutabili assieme ad essa: per Butler la critica si adopera appunto per la rottura di modelli sociali reiterati al fine di promuovere nuove soggettivazioni (o di fare ingresso in nuove individuazioni). Quello che allora vorrei fare qui è tentare di dare ragione di un’equazione che sfida il principio di non contraddizione e assieme la concezione lineare del tempo, altre alla logica della dialettica: l’equazione secondo cui la postcritica è uguale alla critica, o detto in altri termini, il ‘post’ della critica è già da sempre alla critica presente.
Stando a Latour[7], il peccato originale del teorico critico/della teorica critica risiede nella sua presunzione di occupare una posizione privilegiata da cui le/gli sarebbe possibile comprendere il funzionamento della società (al fine di rifiutarlo) meglio di chi opera in essa. Il teorico critico/la teorica critica avrebbe cioè la pretesa di elevarsi dalla posizione comune dell’umanità per assumere quella che Latour chiama “la prospettiva dell’uccello” (bird’s eye view): per descrivere cioè dall’alto una società che non gli/le piace come se essa si dispiegasse compiuta davanti al suo sguardo sprezzante. A questa alata superbia, Latour contrappone la modestia di un ricercatore/una ricercatrice sociale che anziché «penetrare la scorza dura del reale o innalzarsi sopra di essa» (15), si accontenta di stare sulla superficie come gli altri attori e attrici sociali, con gli altri attori e attrici sociali: non come un uccello supponente e sdegnoso, ma come una formica partecipe e curiosa che cartografa un territorio che non potrà mai dominare nella sua totalità, e che anzi si fa via via sotto le sue zampette, sorprendendola ad ogni passo.
Questa proposta metodologica, formulata da Latour in seno alla teoria sociale, è stata poi ripresa da Felski[8] nell’ambito degli studi letterari. Anche per lei i limiti della critica risiedono innanzitutto negli atteggiamenti di chi la pratica, in particolare nell’atteggiamento sospettoso di cui – secondo la felice espressione di Ricoeur – sono stati maestri Nietzsche, Marx e Freud (e anche Fanon e Foucault). In quell’atteggiamento sospettoso che poi gli epigoni di Nietzsche, Marx e Freud – secondo l’altrettanto felice espressione di Eve Kosofsky Sedgwick[9] – hanno esasperato in un atteggiamento paranoico. L’atteggiamento tipico della teorica critica/del teorico critico, sostiene Felski con Latour, è quello di chi incessantemente dubita di ciò che appare come appare nella sua minuzia quotidiana, e di conseguenza cerca conferma, al di sotto o al di là di ciò che appare, di una differente verità generale o epocale, di una verità cupa e pessimistica di cui la teorica critica/il teorico critico sarebbe già depositaria/o. Niente sorprese, quindi, per la critica, niente meraviglia. E niente trasformazioni per un soggetto della teoria che resta sempre uguale a se stesso/a se stessa, sempre preso/a dal rifiuto di ciò che accade per difendere un’immagine pura di sé a cui è troppo innamorato/a per cambiare. Questa ermeneutica paranoica, spiega ancora Felski, nella teoria critica si dà principalmente in due forme differenti: nella forma dello scavo (digging down), cioè nella demistificazione della falsa coscienza attraverso l’interpretazione dell’inconscio individuale e collettivo; e nella forma della presa di distanza (standing back), cioè attraverso un’analitica delle relazioni di potere che mira a denaturalizzare e storicizzare ciò che al senso comune appare come scontato e naturale. Al modo di Freud, per farla breve (lo scavo), e al modo di Foucault (la presa di distanza).
Freud e Foucault, due degli autori attorno ai quali si sono polarizzate le mie ricerche sul sessuale politico, sono quindi tra gli obiettivi polemici favoriti della postcritica. Infatti, se Croce afferma di voler «trascurare la polemica [per sfuggire] alla contrapposizione tra critica e postcritica, futile e fin troppo accademica» (69), Latour e Felski, invece, in questa contrapposizione polemica ci sguazzano, e non risparmiano bordate critiche alla critica, intesa come theory o come studies, cioè a tutto quello stile di pensiero che negli ultimi trent’anni è divenuto mainstream in un certo milieu accademico di sinistra che si autorappresenta come minorstream – uno stile che anche nella filosofia politica italiana a suo modo ha fatto presa, eleggendo tra i suoi assi portanti la riflessione foucaultiana sulla biopolitica e quella psicoanalitica (a dire il vero più lacaniana che freudiana) sul legame sociale. In questa polemica contro una maniera filosofica assai diffusa, la postcritica dimostra quindi la sua vocazione critica, e a mio avviso coglie nel segno. L’università è in effetti satura, lo sappiamo bene, di un pensiero critico che sembra girare a vuoto. L’università è in effetti affollata di una scontata tipologia di intellettuali narcisisti/e che autoalimentano il proprio vittimismo compiaciuto contro strutture di potere che non si sforzano di analizzare nelle loro reali dinamiche sociali, ma che presentano attraverso la mediazione di un pantheon di autori che avrebbero già detto tutto, tra cui Foucault e Lacan (come ho appena anticipato, Lacan più di Freud) oggi la fanno appunto da padroni. La critica che la postcritica muove a questi esercizi di scuola, a questi presuntuosi voli d’uccello la cui destinazione è già scontata – cioè che nulla va mai bene a parte l’eterno vittimismo della/dello intellettuale –, a mio avviso è assai salutare nel suo essere appunto critica. Questa critica permette infatti di riattivare un pensiero operazionale, direbbe Karen Barad[10], tentacolare, direbbe Donna Haraway[11], «chemiottatico» e creativo, dice invece Croce (78), che riprenda a mappare direttamente la realtà e a istituire nuovi legami concettuali con essa. E non si tratta, spiega ancora Croce, di sostituire al sospetto la sindrome di Pollyanna per cui tutto va bene: si tratta di discernere le forze decrementali da contrastare da quelle incrementali da assecondare (77 ss.). Si tratta di un pensiero che respinge le aggregazioni mortifere e infelici, per partecipare alle aggregazioni felici. Cosa di cui la critica non sarebbe invece capace.
È infatti soprattutto a questo proposito che la polemica scoppia nel canone postcritico e la postcritica si fa critica alla critica, presa di distanza da un senso comune filosofico che avrebbe fatto il suo tempo, scavo capace di far affiorare le motivazioni paranoiche e narcisistiche delle teoriche e dei teorici critici. Non è in fondo anche questa un’espressione della negatività di cui parla Butler?
3. Anche questa è chemiotassi: Poi per me, che ho scritto un libro ‘con Freud e Foucault’, vale anche il contrario. Vale cioè anche che la critica è una postcritica, che lo è già da sempre. Per me, le critiche che la postcritica muove a una certa critica colgono nel segno soprattutto perché consentono di distinguere una buona critica da una cattiva critica (anche questa è chemiotassi). Dove la cattiva critica è il volo di uccello paranoico e narcisistico che ho sopra descritto ‘con Latour e Sedgwick’; mentre la buona critica è quella che sa unire alla negatività di cui parla Butler, cioè alla sospensione dell’atteggiamento che dà per immutabile la realtà e le soggettività, la positività di un pensiero sorgivo che potenzia o crea connessioni e soggettivazioni nuove. Questo, checché ne dica Felski, è ad esempio ciò che ha fatto Foucault in libri come Storia della follia nell’età classica (1961), Sorvegliare e punire (1975), La volontà di sapere (1976) che sono stati elaborati a partire dalla condivisione dell’esperienza di movimenti politici che alla protesta univano la creazione di nuove soggettività, nuove pratiche, nuove comunità. I movimenti per la chiusura dei manicomi e la riforma della psichiatria, quelli che protestavano contro le condizioni disumane delle carceri francesi, quelli antiautoritari e di liberazione sessuale: esperienze collettive che non hanno rifiutato il mondo, ma che lo hanno trasformato – con le loro vittorie, e anche con i loro fallimenti –, e a cui dobbiamo molto di ciò che oggi siamo diventate/i. È a queste esperienze che la critica di Foucault si connetteva.
Foucault era un intellettuale militante, coinvolto in prima persona nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta del Novecento: non scriveva sorvolando la realtà sociale, ma prendendovi parte direttamente. La sua pratica teorica ci conferma anzi che il posto della critica è nel bel mezzo della cosa stessa. E infatti, ne La volontà di sapere, Foucault stesso biasima quegli intellettuali che, credendo di poter godere di un «beneficio del locutore», si limitano a predicare il rifiuto dell’esistente, come se questo bastasse a liberare loro dalla condizione in cui versano le altre attrici e gli altri attori sociali. Perché la critica, per Foucault, non è fine a se stessa, né è l’attività solitaria di un singolo/di una singola, ma si accompagna all’elaborazione collettiva di controcondotte etiche, alla creazione di spazi liminali o interstiziali della politica e della socialità in cui diviene possibile mettere in crisi il presente, e se stessi nel presente, per sperimentare modi di vita alternativi. Lo stesso si può dire, per fare un altro esempio, dei lavori di Butler degli anni Novanta del Novecento e del primo decennio degli anni Duemila[12] che, muovendosi in continuità con il pensiero di Foucault, hanno assecondato la crisi dei modelli patriarcali ed eterosessisti di identificazione sessuale fornendo strumenti per comprendere e per produrre tutto un fiorire di soggettività nuove (si pensi a come la galassia trans* si è arricchita di sfumature da allora: transgender, gender fluid, non binary, genderqueer…) e di comunità nuove – comunità a cui Butler stessa non ha mai fatto mistero di appartenere. Non mi sembra quindi un caso se in molti luoghi della postcritica, tra cui il libro di Croce, riecheggiano chiare note foucaultiane: nella presa di distanza – appunto – da quella moda teorica della ‘svolta linguistica’ (altro mainstream) secondo cui non si danno cose e materia ma oggetti per soggetti; nell’invito ad abbandonare il mantra filosofico secondo cui tutto si dà soltanto nel linguaggio dell’umano e per l’umano; nella riscoperta di una lingua letteraria e poetica in cui la parola si fa cosa, e solo tra le cose la soggettività umana è individuabile, come corpo tra corpi. La proposta teorica della postcritica realizza, continua a realizzare, quella morte dell’uomo che Foucault annunciava ne Le parole e le cose (1966).
4. Essere giusti: Ne Le parole e le cose, a questo disfarsi dell’umano tra le cose del mondo collabora, tra l’altro, anche la migliore psicoanalisi. Se infatti, ne La volontà di sapere, è proprio un uso semplicistico della psicoanalisi nelle teorie della rivoluzione sessuale degli anni Settanta che Foucault stigmatizza quando mette in guardia dalla retorica del beneficio del locutore, ne Le parole e le cose, è come se Foucault difendesse preventivamente un’altra psicoanalisi (chemiotassi?) dalle accuse di Felski. Ma quale scavo? ma quale dentro? – sembra chiedere retoricamente il filosofo francese –: la psicoanalisi, una certa psicoanalisi, è piuttosto la riscoperta di un fuori. Anch’essa situata nel bel mezzo della cosa stessa, lungi dal ricondurre l’umano a un’interiorità e a un’integrità, la psicoanalisi è esplorazione, mappatura, cartografia di una regione transindividuale in cui l’umano si dissolve nel flusso delle relazioni. E la psicoanalisi stessa, non dimentichiamolo, prima di essere un apparato teorico è relazione – relazione di cura. Come Foucault riconosce (anche ne La volontà di sapere), Freud sfidò la prospettiva organicista e degenerazionista che era senso comune della psichiatria ottocentesca (ecco la sua ‘negatività’) e che avrebbe avuto poi fortuna nell’eugenetica nazista, per istituire una pratica clinica nuova in cui la parola performa, agisce, cura, tocca e trasforma quel corpo che è il soggetto. Nonostante la mia pratica teorica sia stata affettata da una certa flessione postcritica, o meglio anche in virtù di questa affezione, è a questo Freud che torno, con Foucault e altri/e maestri/e del sospetto, nel mio ultimo libro: torno a Freud come a colui che ha ricondotto la forza perturbante del sessuale alla condizione ontologica originaria dell’esposizione del soggetto al flusso delle relazioni (vulnerabilità o precarietà, la chiama Butler). Il sessuale come lo descrive Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), il sessuale pulsionale, il sessuale infantile, è infatti un’esperienza radicale di asignificanza, che coattivamente sospende la soggettività, la fa esplodere in un godimento senza senso, la fa perdere nel mondo. Lo scandalo, per me interessante, che Freud rappresenta rispetto all’ontologia di stampo deleuziano-spinozista a cui sovente la postcritica si richiama, è poi che per Freud il sessuale non sempre asseconda il conatus, il desiderio autoconservativo, e anzi rappresenta una pulsione decrementale, dissipativa, persino distruttiva dell’integrità del soggetto. Ma questo è un altro argomento, che eccede questo scritto.
Bisogna «essere giusti con Freud» – è questo invece il punto –, come Foucault intimava già nella Storia della follia (1961). E bisogna essere giusti anche con Foucault, vorrei aggiungere, ricostruendo in un caso come nell’altro l’effettivo funzionamento delle loro pratiche teoriche, dei loro scavi e prese di distanza, a partire dai nessi che il loro pensiero seppe istituire con il proprio tempo storico, a partire dalle cartografie che i due autori disegnarono dei mondi in cui toccò loro di vivere. Ma non sempre la postcritica di questa giustizia si è mostrata capace. Le critiche che Latour e Felski rivolgono alla critica ne hanno prodotto una caricatura, che può essere giustamente utilizzata per fare la satira di una cattiva critica – che, del resto, a sua volta fa un uso caricaturale di autori come Foucault o come Freud o come Lacan o altri/e, monumentalizzandoli/e, facendone paradigmi e sistemi chiusi che sterilizzano il rapporto tra il teorico/la teorica e il mondo. Ma la critica non è soltanto questo. La critica è già da sempre anche postcritica quando trova il posto che a mio avviso dovrebbe essere il suo: nel bel mezzo della cosa stessa.
Laddove certo non si trovano, per fare un recente esempio che alle lettrici e ai lettori di questo blog immagino ben noto, gli articoli sull’emergenza sanitaria causata dalla COVID-19 che Giorgio Agamben ha pubblicato sul sito della casa editrice Quodlibet (arriva infine il fuori tempo). In questi testi, il ben collaudato apparato critico che il filosofo italiano ha assemblato negli anni rielaborando con grande originalità concetti tratti da Foucault, Arendt, Benjamin e Schmitt (biopolitica, nuda vita, stato di eccezione) è stato dispiegato per commentare la realtà della pandemia senza davvero prenderla in esame, senza davvero prendervi parte (come se questo fosse possibile). Non riesco a trovare un esempio più calzante per descrivere quell’atteggiamento che Foucault chiama “il beneficio del locutore”. Ergendosi su un piedistallo, spiccando il volo al di sopra del comune sentire, senza alcuna partecipazione emotiva all’emergenza sanitaria e al lutto collettivo, con toni sprezzanti, in quegli articoli Agamben non solo denuncia la possibilità di abusi di potere aperta dall’emergenza[13], non solo paventa la degenerazione dei rapporti umani a causa del distanziamento sociale, la diffusione di un clima di diffidenza e delazione e di obbedienza incondizionata[14]. In quegli articoli, Agamben ci giudica dall’alto in basso, o meglio si prende gioco di noi, di noi tutte e tutti smarriti/e e angosciati/e, di noi che abbiamo paura della morte, che teniamo alla nostra vita e a quella delle persone a cui vogliamo bene (non una nuda vita, come scrive lui in quegli articoli, ma una vita rivestita di sentimenti) tanto da accettare senza proteste le severe restrizioni che ci sono imposte[15]. Una critica ulteriore mi sento qui di aggiungere alla sacrosanta critica che la postcritica ci insegna a fare della cattiva critica quando ne compie lo scavo psicologico: tra i suoi sintomi più gravi, oltre al sospetto paranoico e alla superbia narcisistica, va elencata l’assenza di empatia.
Ma la critica non si esaurisce nella sua versione cattiva. Occorre dunque fare attenzione che la postcritica non finisca per relegare importanti autrici e autori critiche/critici al ruolo di obsolete voci del passato da non ascoltare più. Anche perché il presente, di critica, ha grande bisogno: di una buona critica, partecipe ed empatica, che sappia ripensare i concetti elaborati dai maestri del sospetto, il miglior Agamben incluso (bisogna essere giusti anche con lui), e che sappia inventarne di nuovi, per istituire relazioni e soggettivazioni inedite nella realtà complessa, drammatica e incerta che stiamo vivendo, facendosi postcritica nel senso che ho discusso sopra. In uno stato di eccezione, infatti, oggi ci troviamo davvero. Davvero biopolitica e bioeconomia neoliberale governano le nostre vite. E davvero siamo precari/e e vulnerabili: a causa del virus, certo. A causa della comune condizione che gli animali umani condividono con tutti i viventi e con tutto il pianeta. Ma anche a causa dei tagli di finanziamento che negli ultimi decenni hanno spogliato la sanità, lo stato sociale e la ricerca scientifica di risorse che oggi sarebbero risultate preziose: a causa di politiche che hanno spogliato le nostre vite rendendole nude di fronte al virus. Si pensi alle vite del personale medico e infermieristico e sanitario in senso lato, esposte troppo a lungo al virus per assenza di protezioni anche se le virologhe e i virologi, negli ultimi decenni, non hanno smesso di mettere in guardia su quanto sarebbe potuto accadere e poi è effettivamente successo – una pandemia. E si pensi a quanto è accaduto nelle residenze sanitarie assistenziali per anziani/e. Come Butler ha sottolineato più di Agamben[16], la nuda vita è una vita eminentemente politica.
5. La cosa: Come un reagente, il virus sta facendo emergere in modo tanto lampante quanto traumatico contraddizioni e problemi della nostra società: non solo i tagli alla sanità e alla ricerca, ma anche le diseguaglianze economiche (quante famiglie, per fare un esempio, dispongono di connessione internet e dispositivi elettronici adeguati per assicurare l’istruzione a distanza dei figli?), il lavoro precario e nero, l’impiego massiccio di lavoratrici e lavoratori migranti, regolari e irregolari, nell’agricoltura e nelle mansioni di cura domestica (categorie lavorative difficili da aiutare con i sussidi che pure sono stati messi in campo), il divario economico tra nord e sud del mondo, tra nord e sud dell’Italia, la violenza maschile (che rende a molte donne e ai loro figli e figlie insopportabile la convivenza ininterrotta con mariti, compagni e padri maltrattanti), le condizioni di sovraffollamento nelle carceri (che le rendono facili serbatoi di contagi), lo sfruttamento intensivo, eccessivo, del pianeta e la conseguente invasione operata dagli esseri umani di nicchie ecologiche di altre specie animali (è così che si incoraggia lo spillover)… Come un acceleratore di tendenze, il virus ci espone al rischio di nuovi autoritarismi sovranisti che potrebbero approfittarsi della sospensione dei diritti di libera circolazione per sospendere altri diritti (in Ungheria, mentre scrivo, il Parlamento ha concesso al primo ministro Viktor Orbán il potere di governare con decreti legge fin quando lo vorrà, e questi ha diffuso la bozza di un decreto omnibus che, tra le altre cose, contiene l’abolizione del diritto alla transizione di genere: che c’entra questo con il virus?)… Come catalizzatore di un nuovo sentimento di responsabilità solidale, di cura della vulnerabilità proprie e altrui, il virus ci suggerisce il superamento di un sistema economico, politico e sociale che sta conducendo il nostro pianeta al collasso, ci suggerisce il rinnovamento del nostro modo di vita… Tutto questo, senza paranoia né superbia, con molta empatia, occorrerà continuare a pensarlo, con gli strumenti della critica e con quelli della postcritica: con la ‘negatività’ di entrambe che poi, a ben vedere – basta rinunciare al principio di non contraddizione e alla concezione lineare del tempo, che ci vuole? –, sono la stessa cosa.
Note
[1] Lorenzo Bernini, Il sessuale politico: Freud con Marx, Fanon, Foucault, Edizioni ETS, Pisa, 2019.
[2] Davina Cooper, Utopie quotidiane il potere concettuale degli spazi sociali inventivi, Edizioni ETS, Pisa, 2016.
[3] Mariano Croce, “Etnografia della contingenza: postcritica come ricerca delle connessioni”, Politica e società, 1, 2017: 81-104.
[4] Mariano Croce, “Postcritica: oltre l’attore niente, Iride, 2, 2017, pp. 323-339.
[5] Mariano Croce, “Elogio dell’imprecisione”, Politica e società, 2, 2018, pp. 273-290.
[6] Judith Butler, “The Inorganic Body in the Early Marx: A Limit-concept of Anthropocentrism”, Radical Philosophy, 2.06, 2019.
[7] Bruno Latour, Reassembling the Social, Oxford University Press, Oxford, 2005.
[8] Rita Felski, The Limits of Critique, The University of Chicago Press, Chicago, 2015
[9] Eve Kosofsky Sedgwick, Touching Feeling. Affect, Pedagogy, Performativity, Duke University Press, Durham, 2003.
[10] Karen Barad, Meeting the Universe Halfway. Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, Durham, 2007.
[11] Donna Haraway, Chthulucene, Nero, Roma, 2019.
[12] Judith Butler, Questione di genere, Laterza, Roma-Bari, 2013; Judith Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis Edizioni, Milano, 2014.
[13] Giorgio Agamben, L’invenzione di un’epidemia, 26 febbraio 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia.
[14] Giorgio Agamben, Contagio, 11 marzo 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio; Giorgio Agamben, Distanziamento sociale, 6 aprile 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale.
[15] Giorgio Agamben, Chiarimenti, 17 marzo 2020https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti; Giorgio Agamben, Riflessioni sulla peste, 27 marzo 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste.
[16] Judith Butler, Gayatri Chakravorty Spivack, Che fine ha fatto lo stato nazione?, Meltemi, Milano, 2009.
[Immagine: Jean-Michel Basquiat, Baby Boom, 1982].
PER ESSERE GIUSTI CON FREUD E FOUCAULT, UN “RISCHIARAMENTO” (“AUFKLARUNG”) NECESSARIO … *
SE ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829), COME è possibile “«essere giusti con Freud» […] come Foucault intimava già nella Storia della follia (1961). E (…) essere giusti anche con Foucault, vorrei aggiungere, ricostruendo in un caso come nell’altro l’effettivo funzionamento delle loro pratiche teoriche, dei loro scavi e prese di distanza, a partire dai nessi che il loro pensiero seppe istituire con il proprio tempo storico, a partire dalle cartografie che i due autori disegnarono dei mondi in cui toccò loro di vivere” (Lorenzo Bernini, cit. – sopra)?!
NON è, forse, cosa saggia ripartire dall’ultima sorprendente lezione di Michel Foucault (1984) e decidersi a ESSERE GIUSTI CON KANT (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4800) e a riprendere la strada della “CRITICA [del “sogno d’amore”] della ragion pura”?! O NO?
*SUL TEMA, mi sia lecito, si cfr. anche la nota precedente (del 28 aprile 2020) a commento di “Chi ha ucciso la critica? Un’indagine indiziaria” (http://www.leparoleelecose.it/?p=38219#comment-428556).
Federico La Sala
Peccato che gli autoritarismi siano sempre sovranisti, affermazione che da sola svaluta la “pratica” dell’autore. Tra parentesi anche l’attività parlamentare italiana è stata di fatto sospesa durante il covid e da circa 15 anni il binomio presidente-parlamento in Francia è ormai finito, a vantaggio del primo, che vede e provvede.
Tanto per uscire dal “pensiero puro, purissimo” che il trend politico sia dettato da Orban e dalla piccolissima Ungheria. Ma come disse Tito Livio: Externum timorem maxima concordia vinculum. Traduco: c’abbiamo bisogno der nemico!
Erratum: maximae concordiae. E ritraduco: ce vuole er nemico!
Io direi piuttosto “externus timor, maximum concordiae vinculum” (II,39), se no mi manca il soggetto.