di Sergio Benvenuto
Black Mirror è una serie televisiva di fantascienza che chiamerei ravvicinata. Titolo azzeccato, dato che uno specchio nero non rispecchia nulla. Mostra le derive mostruose che possono prendere le tecnologie oggi comunemente usate. In un episodio della serie (Nosedive, 2016), siamo in una società molto simile alla nostra, dove ciascuno è continuamente valutato, per via elettronica, dagli altri – estensione iperbolica delle valutazioni che si fanno oggi di ristoranti, hotels, libri, articoli, mettendo i like. Per qualsiasi interazione umana, dall’andare a prendere un caffè insieme fino a feste e celebrazioni ufficiali, gli altri ti valutano. Il punteggio di ciascuno è pubblico attraverso un sistema centrale che computa le valutazioni, ragion per cui chi ha un elevato punteggio, ovvero un ampio successo sociale, appartiene a una sorta di aristocrazia, che gode di privilegi de facto. Chi ha valutazioni molto basse appartiene invece alla feccia sociale, il sistema elettronico centrale impedisce persino che si aprano davanti a lui le porte automatiche degli hotel…
Come si vede, è un sistema radicalmente democratico. Vale il voto di chiunque, il proprio rango non è in base al censo né al potere politico, ma in base al gradimento dei più. Eppure è una società dispotica. Una società che si basa sul principio della simpatia reciproca può essere non meno gerarchizzata, non meno spietata, di una società feudale. Non è necessariamente vero che le democrazie siano più egualitarie degli altri regimi: le preferenze della massa possono creare sperequazioni abissali.
1.
Cito questo episodio di Black Mirror volendo parlare delle recenti e ben note posizioni prese da Giorgio Agamben (2020a, 2020b. 2020c) sulle implicazioni politiche dell’epidemia di coronavirus. Queste hanno travalicato l’ambito dei circoli filosofici, dando vita a una sequela virale di commenti. Questo solo perché Agamben è il filosofo italiano più noto e letto oggi. Meritatamente, data la sua straordinaria capacità ermeneutica di leggere testi – non solo filosofici, ma anche letterari, artistici, politici – in modo acuto, fresco, inatteso, provocatorio.
Purtroppo, come accade a molti filosofi, Agamben è stato accolto da una vasta platea proprio per le sue tesi a mio avviso più discutibili, ovvero per la sua visione generale della politica di oggi. Questa sua visione politica è alla fonte della sua ormai ben nota posizione sul coronavirus – che sarebbe un’epidemia artefatta per permettere ai poteri politici di controllare capillarmente la popolazione. Un’esternazione che ha creato sconcerto.
Nel libro Stato di eccezione Agamben (2003) riprende un’idea del giurista nazista Carl Schmitt, secondo cui il vero potere politico consiste nell’imporre lo “stato di eccezione” (come avviene spesso nelle guerre totali, e come è avvenuto appunto per la pandemia di covid-19), ovvero la sospensione di alcuni fondamentali diritti civili e di certe norme giuridiche garantiste. Quest’idea si prestava bene a descrivere il potere nazionalsocialista in Germania, che non sostituì la Costituzione di Weimar con un’altra Costituzione: semplicemente sospese certi diritti e certe leggi. La tesi fortunata di Agamben è nel prospettare l’idea che tutte le società di oggi, in particolare quelle dell’Occidente, tendano a instaurare uno “stato di eccezione” permanente che permetta il controllo e il disciplinamento delle popolazioni.
Di solito questa posizione viene vista come una prosecuzione del lavoro critico di Michel Foucault contro lo stato disciplinare[1]. Ma per Foucault non c’è un centro, un palazzo del potere, foss’anche lo stato. I rapporti di potere si esercitano a tutti i livelli; un capofamiglia, ad esempio, può essere più dispotico di un governo centrale. Mentre mi pare che Agamben veda nel potere politico il vero agente fondamentale del potere. Per me, questa è una unilaterale semplificazione.
2.
Il tema dello stato di eccezione divenuto normalità si completa poi con il tema dell’Homo sacer (Agamben 1995). Sacer in latino era sia “sacro” che “esecrando”, e l’homo sacer era una persona che perdeva qualsiasi diritto civile, nel senso che chiunque poteva depredarlo o ucciderlo, senza che questo atto fosse incriminabile. L’homo sacer veniva restituito a quello che si diceva un tempo “stato di natura”, e che Agamben chiama “nuda vita”. Per Agamben gli internati nei campi di lavori forzati o di sterminio durante il nazismo erano homini sacri, privi di qualsiasi diritto, e abbandonati all’arbitrio dei loro aguzzini. (Da notare comunque che Agamben non si riferisce ai campi del Gulag sovietico, come se non fossero esistiti. Un non-detto che dice molto secondo me.) Ma estende il senso di homini sacri includendovi anche gli immigrati, in particolare quelli clandestini, i quali sono spesso rinchiusi in campi in attesa di accertamenti sulla loro identità e sul loro diritto a essere accolti come rifugiati. Agamben insinua che tutti stiamo diventando in qualche modo come gli immigrati clandestini che dall’Africa arrivano in Europa, o dall’America del Sud a quella del Nord… Diciamo che i “campi” agambeniani rischiano di essere come la notte in cui tutte le vacche appaiono nere.
Eppure essere homo sacer è qualcosa che tanti hanno voluto essere, e sognano di essere. Penso ai grandi esploratori, da Magellano ad Amundsen, da Livingstone a Robert Peary, andati in aree ignote senza diritti e senza cittadinanze. E penso anche alla ricerca, da parte di tanti, di un altrove, come la fuga di Rimbaud in Asia e in Africa, o il volontario esilio di Gauguin a Tahiti. Quanti di noi non sono stati tentati di ripetere l’exploit di Mattia Pascal? Godere dei diritti civili, essere inseriti nel “sistema” come suol dirsi, ha per ciascuno un prezzo, troppo alto per alcuni: quello di doversi comportare come gli altri si aspettano che uno si comporti. I diritti civili ci sono garantiti finché siamo “buoni cittadini”, ovvero finché facciamo esattamente quel che fa comodo agli altri – altrimenti ci attende o la galera, o i domiciliari coatti, o la clinica psichiatrica, o la marginalità. In tutte le società, ogni godimento di diritti è sub condicione.
3.
L’episodio di Black mirror che ho rievocato mi ha fatto riandare a esperienze molto personali, che mi hanno marcato. Ho trascorso la mia vita di teenager a Napoli, negli anni 1960. Come molti adolescenti, sentivo allora il bisogno di differire in qualche modo dai concittadini, di distinguermi perché l’adolescenza è l’età della singolarizzazione, e si esalta quell’unicità che si pensa di essere. E l’unicità si coagula nell’apparire, perché non sapendo chi si è ci si proclama attraverso il proprio apparire. Così prima mi feci crescere la barba – che all’epoca nessuno portava in Italia – e poi mi feci crescere i capelli, sulla scia di Oscar Wilde e di Einstein, e questo ben prima che i capelli lunghi diventassero la moda di tutti i maschi. Questo modo di presentarmi era una provocazione per il popolino – ma il diminutivo dovrebbe essere preso come accrescitivo – che mi perseguitava sistematicamente. Ogni dieci metri qualcuno mi insultava. Certe volte fui fisicamente aggredito, perché ero un “capellone”, come si diceva allora. La Voce del Popolo letteralmente mi espelleva dal proprio grembo. La comunità cittadina non tollerava la mia singolarità.
Sentii allora che dovevo perseverare assolutamente nella mia scandalosa pettinatura, era ormai una missione per me, era testimoniare con una specie di martirio quotidiano la mia libertà di contro al conformismo della Gemeinschaft, della terribile Comunità. Se si cede sulla capigliatura – mi dicevo – si può cedere poi su tutto: allora si sarà antisemiti sotto Hitler, stalinisti sotto Stalin, cattolici solo perché si vive in un paese cattolico, mussulmani solo perché si vive in un paese mussulmano… Del resto, notai che man mano che andavo al Nord – da Napoli a Roma a Milano a Londra… – l’insurrezione popolare contro i “capelloni” si mitigava fino a sparire. Ovvero, man mano che prevaleva la Gesellschaft, si diradava la tirannica pressione della Gemeinschaft.
Il punto era però che già allora ero di sinistra. Quindi, “il popolo” era un significante rivestito di un valore altamente positivo. Eppure dovevo constatare, sulla mia pelle, quanto la retorica sulla bonomia del popolo fosse mielosa ideologia: l’uomo e la donna della strada sono una macchina repressiva non meno potente del KGB o della Gestapo. La prima polizia che ti costringe a non deviare dal binario su cui devi procedere sono i vicini, chi ti incrocia per strada, i compagni di scuola o di lavoro… I vicini sono il nostro black mirror.
All’epoca mi raccontai la storia che gli intellettuali di sinistra si raccontano da un paio di secoli: che il popolo lavoratore sarebbe buono, ma che il sistema capitalista in cui è preso lo rende cattivo. Che l’”ideologia capitalista” e gli “apparati ideologici di stato” corrompono la mentalità del popolo, il quale deve essere riportato alla sua “natura” buona di popolo, appunto. Altri poi distinguevano il Lumpenproletariat, il sotto-proletariato che allora esondava per le strade di Napoli, dal Proletariat, quello buono, il proletariato delle grandi fabbriche. Distinzione artificiosa, come se fosse possibile separare con una forbice il sotto-proletario dal proletario… Ci vollero anni prima che uscissi da questa ninna-nanna che l’intellettuale di sinistra si canta per non vedere in faccia la realtà: che il dispotismo, oltre che dal tiranno, viene dal Popolo.
È questo un tema ricorsivo del pensiero conservatore. Chateaubriand, per esempio, un reazionario bacchettone diremmo oggi, in Memorie d’oltre-tomba, commentando la Rivoluzione francese a cui aveva assistito, faceva notare che il re, i nobili, hanno un potere soprattutto simbolico, ma non hanno alcun strumento per controllare capillarmente la vita della gente. La polizia può fare interventi puntuali, ma non ha enormi capacità repressive (oggi però sarebbe diverso, grazie alla tecnologia). Invece il popolo – inteso come quegli “altri” che anche per Sartre, in sostanza, erano l’inferno – ha una forza di controllo sul singolo, se è deviante, che nessun apparato di stato ha: è il vicino che ti denuncia se sei ebreo in epoca di occupazione nazista, che ti deride se sei omosessuale, che ti lincia se si sparge la voce (vera o falsa che sia) che sei pedofilo, che ti aggredisce per strada se sei di un’etnia maudite… Questo ovviamente in una Comunità che si vuole coesa, solidale, identica a sé, omogenea, sana.
La storiografia dell’Occidente (ma per le altre parti del mondo credo che sia lo stesso) andrebbe seriamente rivista in questa luce. Il pensiero liberal e democratico ci ha raccontato che prima prevalevano sul popolo i dispotismi della Chiesa e degli imperi, dei nobili e poi dei borghesi, ecc. Per esempio, ci dice che a partire dal XV° secolo si è sviluppata nei paesi cristiani una caccia alle streghe, oltre che agli eretici, ordita dall’Inquisizione, ovvero dal potere ecclesiastico, durata circa tre secoli. Ma se andiamo a rileggere i processi per stregoneria (Levack 1984; Barstow 1994), vediamo che per lo più le denunce venivano “dal basso”, dai vicini o concittadini della strega o dello stregone. Venivano accusate donne eccentriche, spesso nubili, un po’ strane, che non “legavano” tanto col vicinato…. L’Inquisizione doveva allora occuparsene per forza, e il fatto che una persona fosse in odore di stregoneria per la vox populi era per l’Inquisizione “prova” necessaria, e in certi casi anche sufficiente, per condannare l’accusata per stregoneria.
Del resto, anche ai giorni nostri, nelle società democratiche, avvengono cacce alle streghe. Fu il caso delle svariate traversie giudiziarie di Pasolini, accusato “dal basso” delle cose più strambe (Siciliano 1978). Perché Pasolini divenne per l’”uomo e la donna comuni” l’epitome dell’eccentricità anti-popolare, della singolarizzazione provocatoria: omosessuale pederasta, comunista, cantore della canaglia pezzente, regista di film erotici e scabrosi… Un altro perseguitato per la sua eccentricità fu il campione di scacchi Bobby Fischer. Anche nelle democrazie si vengono a creare corrispondenze di amorosi sensi tra le maggioranze e la magistratura, tra “il popolo verace” e gli apparati del dominio politico, così il deviante viene avvolto da un purificatorio fumus persecutionis.
4.
La prima volta che mi recai in un paese scandinavo sentii parlare spesso, da parte dei miei amici in quei paesi, di qualcosa che non avevo mai sentito prima: Janteloven, la legge di Jante. In quei paesi è termine di uso comune, e direi che alcuni ne sono persino ossessionati.
Ci si riferisce a un romanzo satirico pubblicato nel 1933 in danese da un autore danese-norvegese, Aksel Sandemose, Un fuggitivo attraversa le sue tracce[2]. Si è in una immaginaria piccola cittadina danese, Jante, dove tutti conoscono tutti, nella quale vige una sorta di Decalogo, che così snocciola:
1 . Non credere di essere qualcosa di speciale.
2 . Non credere di valere quanto noi.
3 . Non credere di essere più furbo di noi.
4 . Non immaginarti di essere migliore di noi.
5 . Non credere di saperne più di noi.
6 . Non credere di essere più di noi.
7 . Non credere di essere capace di qualcosa.
8 . Non ridere di noi.
9 . Non credere che a qualcuno importi di te.
10 . Non credere di poterci insegnare qualcosa.
C’è anche un undicesimo articolo, minaccioso, conosciuto anche come “la legge penale di Jante”:
11 . Non crederai che non sappiamo qualcosa su di te?
La Legge di Jante dice in sostanza: “Non devi pensare di essere uno speciale, migliore di noi!” Secondo tanti scandinavi questa è la regola implicita della vita nei loro paesi.
I paesi scandinavi battono tutti i record mondiali per quella che si conviene chiamare oggi qualità della vita. Sono i paesi con la maggiore democrazia e libertà dei media, con minori diseguaglianze economiche e maggiore eguaglianza di genere, con il più alto livello culturale medio, con la migliore informazione sul mondo, con il reddito pro capite più alto, ecc. Eppure sentono che questa massima qualità della vita esige un prezzo, qualcosa come un appiattimento verso una medietà collettiva, anche se si tratta di una medietà superiore al resto del mondo[3]. Vibra l’angoscia per una eccessiva eguaglianza, sognata dai “socialismi reali” ma di fatto realizzata dai capitalismi nord-europei. Janteloven è lo spettro che rovina la festa democratica scandinava. È come se tante persone di questi paesi, che esaltano democrazia diritti e libertà, si sentissero schiacciati da quella collettività che pure hanno messo al centro della loro idea di benessere. Il grande civismo ha un prezzo.
5.
Bisogna ammettere, insomma, che il potere che viene dall’alto – qualunque sia questo “alto” – si fonda quasi sempre sull’assenso dei più. E spesso sono i più all’origine dell’oppressione delle minoranze.
Non bisogna credere che l’antisemitismo abituale nelle società cristiane europee fosse una decisione della Chiesa e dei principi (i quali piuttosto avevano bisogno dei servigi dei banchieri ebrei): era un sentimento ostile che veniva dal basso, dai “poveri cristiani”. E’ ben noto che, storicamente, gli ebrei odiati non erano i ricchissimi, i Rothschild, ma gli ebrei poveri che vivevano nei ghetti, i piccoli prestatori a usura… Ho conosciuto vari antisemiti che non erano né cristiani né fascisti, ma solo antisemiti… perché si deve sempre odiare qualche minoranza. È la vocazione innata delle maggioranze, odiare o perseguitare qualche minoranza. Parafrasando Brecht, “beate le minoranze che non hanno bisogno di eroi!”
Per esempio, i 15 ebrei che vivevano a Trento nel 1475 furono accusati di aver ucciso un bimbo cristiano di due anni a scopi rituali, tutti torturati e poi suppliziati (Toaff 2008). Fu il popolo trentino, già sobillato dal predicatore francescano Bernardino da Feltre, a schierarsi compatto contro quegli ebrei, mentre il legato del papa, il domenicano Battista dei Giudici, un prelato non fanatico, aveva trovato infondate tutte le accuse contro gli ebrei, classificandole come “invenzioni e favole” buone per “donnicciuole superstiziose, vecchie pettegole e frati questuanti”. Ma anche in quel caso prevalse la democrazia, ovvero l’odio delle donnicciuole e dei pettegoli per gli ebrei.
Il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il sistema sovietico, hanno usufruito, almeno fino a un certo punto, di grande consenso popolare. Ho parlato con vari russi ed ex-sovietici abbastanza anziani da ricordarsi bene dello stalinismo e del post-stalinismo: il regime comunista – dicono tutti – godeva dell’approvazione generale. I dissidenti erano pochi, marginali, spesso disprezzati e derisi, non diversamente dagli anti-fascisti in Italia, guardati male dalla massa. Fu solo verso la fine degli anni 1970, e marcatamente negli anni 1980 – dicono – che il regime sovietico perse poco a poco consensi. Perché questo sia avvenuto, è ancora un mistero storiografico (ma la storia è sempre misteriosa). Perduto il consenso delle masse, il comunismo è crollato ufficialmente nel 1991. Dall’inizio della fine del consenso fino alla caduta sono passati poco più di 10 anni, il tempo di un paio di legislature italiane. Comunque, prima che cadesse c’era stata la perestrojka di Gorbachev, che aveva già cercato di imprimere al regime un indirizzo diverso. Per noi occidentali Gorbachev è un grande perché avrebbe scavato la fossa al comunismo, ma gli ex-sovietici lo vedono in tutt’altra luce. “Per noi – dicono – era già evidente che il comunismo era alla frutta. Gorbachev ha cercato di salvare il salvabile di quel sistema facendo alcune riforme goffe, ma ha fallito”. Un eroe per noi, un fallito per loro. Chi ha ragione? Entrambi forse, o nessuno dei due. Perché la storia è fatta di punti di vista, la Storia è sempre un puzzle di “storie”.
Un regime, per quanto dispotico o totalitario, non regge a lungo senza l’assenso della maggioranza. Se perde questo consenso, prima o poi crolla. Da qui una conclusione che a molti apparirà bizzarra: che il potere, ogni potere, in ultima istanza è sempre democratico. La democrazia moderna, pluralista, basata sul suffragio universale, è la formalizzazione direi burocratizzata della verità di ogni società: che anche quando c’è un tiranno, è nel fondo un tiranno voluto.
Un mio analizzante aveva come sogno infantile che si trascinava in età adulta quello di diventare primo ministro. Era la sua megalomania di fondo. Quando lo disse alla sua fidanzata, costei replicò: “Beh, prima di tutto devi essere eletto… E poi devi governare”. Queste precisazioni lo colpirono. Non aveva mai pensato, nei suoi sogni grandiosi, al senso stesso del termine minister, che in latino significa servitore. Il ministro è un servitore del popolo, ed è solo in quanto si pone come colui che lo serve che può anche, se è cinico, servirsi del popolo. A meno che non si tratti di un cinico tiranno, il leader politico si pone sempre in una posizione di asservimento, ogni dittatore vuole essere amato dal popolo, e sa che il suo potere gli viene dal popolo. In questo senso ogni potere politico è nel fondo democratico.
Certamente esistono vistose eccezioni al fatto che dietro un despota ci sia sempre il dominio di una maggioranza. L’eccezione è quando c’è una disproporzione di livello tecnologico tra un paese e l’altro, come fu nel caso del colonialismo europeo; una minoranza inglese ha dominato a lungo l’India, per esempio. Ma anche all’interno dei paesi coloniali (Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo, Spagna) non mi risulta che la massa popolare fosse anti-colonialista, tutt’altro. Il regime di Saddam Hussein si basava sul dominio di una minoranza – sunniti e cristiani – contro la maggioranza sciita. Ma abbiamo visto come poi è finito. La mia impressione è che l’oppressione di una maggioranza da parte di una minoranza non possa durare molto a lungo.
6.
Perciò la denuncia dello stato di eccezione come permanente non coglie la verità dell’universo politico. Certo bisogna denunciare gli stati di eccezione persecutori, come quello a opera del nazismo, o dei buddisti contro i Rohingya in Myanmar, ma quel che temo più dello stato di eccezione è lo stato di normalità. È in esso che vegetano e si perpetuano le vere dittature, quasi sempre dittature della maggioranza sulle minoranze. Lincoln nel 1861 decretò uno stato di eccezione negli Stati Uniti del Nord a causa della guerra con i Confederati, ma questo mi pare molto meglio dello stato di normalità degli Stati del Sud, che vivevano sullo sfruttamento e la schiavitù di tre milioni e mezzo di neri (essendo i bianchi oltre cinque milioni, possiamo vedere la schiavitù degli stati del Sud come oppressione di una maggioranza su una minoranza). Ben venga lo stato di eccezione contro orribili normalità.
Credo però che tutto quello che ho detto non debba persuaderci a rinunciare alla democrazia. Della quale si può dire ormai solo quello che ne disse Churchill, che era il peggior sistema politico, a esclusione di tutti gli altri. Democratici sì, ma nel disincanto, ovvero senza ideologia democraticista.
Questo va detto tanto più che in questi ultimi anni – dopo le calamità della Brexit, dell’elezione di Trump, dell’ascesa di partiti sovranisti e populisti, dell’involuzione democratica dei regimi di Putin ed Erdogan, ecc. – fiorisce in Occidente una corrente di pensiero che dà per definitiva la crisi della democrazia, e sostiene come modello migliore quello neo-confuciano della Cina di oggi[4]. E in effetti, se si mettono a confronto leader come Trump da una parte e Xi Jinping dall’altra, chiunque riconoscerà che il cinese è cento volte più serio, competente, equilibrato dell’arruffone americano. Da qui la crescente attrattiva del modello meritocratico cinese, che risale ai mandarini confuciani (il sistema democratico è per lo più anti-meritocratico, perché non premia chi è stato valutato da competenti attraverso una lunga carriera, ma chi è stato votato da una maggioranza di incompetenti).
I teorici del sistema “cinese” ricordano che la democrazia non tutela le minoranze. In effetti, mettiamo che la maggioranza degli italiani votasse in massa un partito che voglia sterminare gli ebrei: in questo caso lo sterminio della minoranza ebraica si compirebbe democraticamente. Inoltre – ricordano questi critici – molte democrazie tendono a suicidarsi, a dare con libero voto il potere a tiranni, come nel 1923 in Italia, nel 1933 in Germania, nel 1940 in Francia dopo la sconfitta contro Hitler, nel 2012 in Egitto (fu dato il potere ai Fratelli mussulmani che erano ben poco democratici)… e gli esempi potrebbero aumentare. Per molti filosofi greci, in particolare per Platone, la democrazia portava inevitabilmente alla tirannia, perché il démos alla fin fine ha bisogno di tiranni.
Non credo quindi che oggi sia il caso di reclamare più democrazia (come facemmo con i movimenti radicali degli anni 1960 e 1970) piuttosto richiedere istanze (ma potrebbero mai esistere?) che limitino i danni della democrazia, quando questa li produce. Delle istanze che proteggano ad esempio le minoranze di ogni paese, nelle quali mi includo (non appartengo a una minoranza etnica, ma di certo a una intellettuale). Che mi proteggano dal rischio che un pazzo ignorante come Trump disponga dell’arma atomica, che uno come Bolsonaro distrugga la flora amazzonica, che la minoranza Rohingya venga sterminata o cacciata via dal proprio paese oggi retto da una democrazia… Ma che cosa potrebbe proteggermi? Non esiste un meta-potere che sia in grado di porre argine ai poteri, compresi quelli democratici, se non sulla carta.
Ciononostante, chi scrive ha deciso di credere – ancora – nella democrazia. Ovvero, malgrado tutto, in una (non dimostrata) saggezza del popolo.
Bibliografia
Giorgio Agamben (1995). Homo sacer. Torino: Einaudi.
Giorgio Agamben (2003). Stato di eccezione. Torino: Bollati Boringhieri.
Giorgio Agamben (2020a). “Riflessioni sulla peste”, Quodlibet website, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste.
Giorgio Agamben (2020b). “Chiarimenti”, Quodlibet website, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti
Giorgio Agamben (2020c). “Distanziamento sociale”. Quodlibet website, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale
Anne Llewellyn Barstow (1994). Witch Craze: A New History of the European Witch Hunts. Pandora, San Francisco.
Daniel A. Bell (2019). Il modello Cina. LUISS, Roma.
Sergio Benvenuto (2016). „Statistiche invidiose e suicidi scandinavi”, Doppiozero, http://www.doppiozero.com/materiali/commenti/statistiche-invidiose-suicidi-scandinavi, 23 gennaio 2016.
Michel Foucault (1975). Surveiller et punir. Trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.
Brian P. Levack (1988). La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell’età moderna. Laterza, Roma-Bari.
Enzo Siciliano (1978). Vita di Pasolini. Mondadori, Milano.
Ariel Toaff (2008) Pasque di sangue: Ebrei d’Europa e omicidi rituali. Bologna, Il Mulino
Note
[1] Ci si riferisce per lo più al Foucault (1975) di Sorvegliare e punire.
[2] En flyktning krysser sitt spor. Mai tradotto in italiano, a quanto ne sappia.
[3] Non è vero invece quello che gli intellettuali ripetono senza posa, che i paesi scandinavi hanno un tasso elevato di suicidi. Cfr. Benvenuto (2016).
[4] Vedi Bell (2019).
[Immagini: “Black Mirror”, Nosedive].
Condivisibile al 99,9%. Però si dice “homines sacri”.