a cura di Franca Mancinelli
[Terza puntata della rubrica Punti luce, a cura di Franca Mancinelli, che ha chiesto a scrittori e scrittrici di scegliere un’immagine o un suo dettaglio, e di raccontare, nel modo più libero e aperto, questo incontro. Dopo Fabio Pusterla con Luca Mengoni, e Antonella Anedda con Sophie Calle, oggi Gian Mario Villalta ripesca una vecchia foto].
Estate + infanzia = maglietta a righe
di Gian Mario Villalta
Sei molto stanco dicevano. Faceva freddo, oh!
quanto freddo anche quando era tutto fiorito
e c’era il sole sulla specchiera dell’armadio,
il latte zuccherato per la tosse che si prendeva il fiato.
La tua prima estate ce l’hai davanti:
le rame – senza le rose – che girano l’angolo,
la salvia nei vasi sul tavolo di cemento.
La roggia invece è dietro la casa e non si vede
né i salci in fila piccoli, i tuoi preferiti,
che d’estate però sono meno belli.
Era bellissimo il muro ruvido giallo
anche se il giallo non c’è nella foto
e pare solo un po’ meno bianco del chiaro
dell’abito di tua madre e del cielo.
Gli anni sono passati siete sempre lì tutti.
Il bambino con la maglia a righe saresti tu.
Nota
Salci: alberelli di salcio caprino, di colore giallo intenso, dai quali venivano selezionati i rametti per legare le viti alla potatura”.
*
Non è salvia, a guardare bene, e il vaso è uno solo, o almeno così mi sembra. Il roseto che gira l’angolo della casa è, a sua volta, visibile soprattutto perché so che c’è. Per questo le vedo, quelle fronde vicino al muro, che so essere un roseto e lo ricordo cresciuto sulla facciata della casa, invitava a girare l’angolo com’esso, il roseto, lo girava, continuando sul fianco della casa, dove c’era più ombra. Gli stivaletti di gomma sono rossi, anche questo mi ricordo. E la maglietta a righe è l’estate. Estate + infanzia = maglietta a righe; e invertendo l’ordine dei fattori (anzi, cambiando di posto a piacere le tre “cifre” dell’operazione) il risultato non cambia.
Non si facevano molte foto quando ero piccolo, e pochissime che non fossero in occasioni ufficiali: ci voleva un fotografo; non era ancora il tempo, già prossimo, delle compatte amatoriali e delle usa-e-getta. Il fotografo, anche lui me lo ricordo – ce n’era uno solo – aveva un apparecchio grande e il treppiede, e qualcosa di più affascinante: dei fondali di stoffa (un interno di chiesa, un paesaggio di mare, una città) per fare delle foto da mandare ai parenti, per lo più emigrati, che vivevano lontano. All’occorrenza li sganciava dalla cinghia che li assicurava legati alla Lambretta, li srotolava e li appendeva al muro, così potevi avere una foto al mare scattata dietro il fienile di casa.
Non era affatto qualcosa che faceva parte della quotidianità, una foto, ed è il motivo che fa per me la meraviglia di questa posa casalinga, improvvisata, che ha quasi un’intenzione di immediatezza. Mi pare di vedere mia madre che si passa le mani sull’abito e dice “Ma così, in disordine, con le ciabatte?”. Più che in una posa, il bambino con la maglia a righe sembra colto in un gesto di preparazione alla posa, o di incapacità di assumere una posa. Basta vedere le mani, la destra con le dita aperte tese, la sinistra con le dita strette in un’involontaria rigidità di taglio. La sorella, con quella “banana” sopra la fronte, la luce sparata che le fa contrarre la faccia, viene punita a tal punto da sembrare quasi brutta. Unico riscatto la minuscola dimensione e l’aderenza perfetta alla madre, con quel gioco di linee curve e diritte che loro due fanno con il tavolo e il muro.
Prima ancora di chiedermi dove sono i tre personaggi ritratti, devo dire che di tutto il resto che nella foto si vede non c’è più nulla, tavolo roseto, muro, nulla. Neppure il cielo.
Per questo diffido delle immagini, soprattutto delle fotografie.
Le parole non sono meno legate all’istante, al tempo della loro pronuncia, ma il tempo adora la lingua! Il tempo e la lingua hanno un corpo dal quale devono nascere insieme, mentre le fotografie hanno solo occhi che guardano e una memoria che ama confondere e confondersi.
Le mie parole sono cambiate con me, la foto resta sempre la stessa, anche se non c’è più nulla di quello che continua a mostrarmi come qualcosa che c’è.
Per questo le fotografie hanno bisogno dell’arte della fotografia più di quanto le parole abbiano bisogno dell’arte della parola. Perché l’arte della fotografia inganni l’inganno, esponga ai nostri occhi l’artefatto, mostri che il vedere è una dimensione fragile, compromessa dai desideri e dalle paure, oltre che dalle intenzioni. E non solo da ciò che è presente nel momento in cui viene scattata la foto ma anche al futuro dello sguardo che vi si poserà.
Ut picura poesis è sempre stato un modo gentile per indicare un tour de force, una vera tenzone, tra il mondo delle immagini e quello delle parole. Un’immagine si espone allo sguardo tutta insieme e lo lascia libero di muoversi. La scrittura può solo mettere una parola dopo l’altra, creando un tempo dell’avvicendarsi delle parole che prende forma nella sospensione della mente tra ciò che passa e ciò che viene ai segni, alla voce.
Ut photographia poesis, a voler essere spiritosi, vedrebbe necessario mettere in campo altre astuzie, altri disinganni. È l’istantaneità dello scatto che complica tutto. È questa differenza che non fa che differire la presa sulla realtà di un’immagine che si vorrebbe catturata dentro l’istante, come null’altro che pare assomigliargli lo è mai, né la pittura né la memoria.
La fotografia chiede un pensiero dedicato, per approdare a quel condizionale che la poesia ha in regalo dalla lingua. Alla poesia è sufficiente ricreare questo condizionale nel tempo della sua composizione, e al lettore affidare lo stesso compito: sono compresenti le parole che avrebbero potuto essere dette, sono compresenti gli altri te stesso che saresti tu, a seconda della vicinanza, della profondità, delle sistole e diastole del sentire. Per la fotografia occorre pensarci, tenerlo a mente: che cosa sarebbe questa immagine se penso che non si cattura davvero l’istante, che è solo un espediente, e non è vero che è tutto presente quello che vedo, non certo lo stesso presente che pretende di mostrarmi. C’è tempo anche lì, nell’istante catturato, c’è molto più tempo tutto intorno, devo attendere che venga fuori, devo pretendere che si mostri.
Se qualcuno mi presentasse questa foto dovrei concentrarmi per capire chi sono i tre personaggi ritratti, e il tavolo di cemento, fatto da mio padre, mi aiuterebbe, nella sua unicità, quanto i corpi di due bambini e di una giovane donna. Ma se qualcun altro guarda questa foto, deve fare una strada più lunga per trovare una parte di se stesso di quanto accadrebbe con un ricordo, una forma di parole. O no? Non è così? Forse ha ragione chi ha visto nella fotografia il segno della modernità, quella realtà che è anche stata definita “l’epoca dell’immagine del mondo”. La fotografia si presenta come una moderna testa di Medusa, impietrisce l’istante. Ma il suo effetto nel tempo è quello di rivelare e rendere più evidente la fragilità dell’istante.
E quello che la poesia moderna, e quella attuale ancora di più, ha il compito di dire, la fragilità dell’istante e la sospensione nella quale, istante dopo istante, ancora qualcosa può accadere. Una sospensione mai quieta. A questa inquietudine deve dare la durata della forma e allo stesso tempo tenerci in allerta, dire di non lasciar correre il tempo della comunicazione che ci trascina via, ma stare nell’istante, sul limite dove il dileguare diventa appropriazione di sé, direzione dell’esistere.
Alla fotografia resta il segreto rimprovero di aver dato alla modernità, e poi con i suoi sviluppi tecnologici all’attualità, l’impronta di quello che, modificando le parole del filosofo, sarebbe meglio chiamare “l’epoca della fotografia del mondo”, o forse ancora “del video del mondo”, o peggio “del selfie del mondo”. E di averci insegnato a incollare o registrare ogni volta il cartellino del prezzo.
“L’epoca del selfie del mondo” è quella che ha portato i sogni e gli incubi fuori di noi, chiudendoli nei contorni riconoscibili della realtà che pratichiamo, così facendo in modo che diventino realtà, senza la distanza e l’incertezza di un rituale, di una liturgia o di un esercizio dello spirito che ne governi la potenza. Perché è vero, aveva ragione Leonardo, che le immagini sono più potenti delle parole. Una potenza che è in atto. Mentre la parola mantiene più custodita dell’immagine la potenza come potenzialità, attualità da compiere nell’incontro con qualcuno che le presta, in un certo senso, la propria voce.
La parola si fa sempre più simile all’immagine, si fa parola-immagine nello sviluppo attuale della comunicazione, e rischia di concorrere a completare tale processo. La poesia trova in questo frangente il suo compito più arduo.