di Andrea Gentile

 

[Esce oggi per Nottetempo, l’ultimo libro di Andrea Gentile, Apparizioni, un saggio narrativo sul rapporto fra arte, mente e presenza, nella odierna condizione di perpetua distrazione digitale. Pubblichiamo qui i primi sei capitoli.]

 

1. Bambino

 

Non c’è mai stata, né mai ci sarà, vita umana senza apparizioni.

Ecco il bambino.
Ecco l’apparizione.

 

2. Respiro

 

La sera del 30 giugno 2017, a Charkiv, Ucraina, Dasha Medveveva, ventiquattro anni, sta guidando la sua BMW. La sua amica, Sofia Magerko, sedici anni, con lo smartphone filma il momento. Siamo in diretta su Instagram.

Le due amiche bevono alcol, urlano, scherzano. Una grida “hi boys” alla camera. Dasha fa il segno della vittoria, indice e medio, con entrambe le mani. Solleva le braccia in aria, accennando una danza. Viene il dubbio che la macchina non sia in movimento, ma poi Dasha tiene il volante, per qualche secondo, con la mano sinistra, guarda la strada. Ritorna con lo sguardo in camera, Sofia sposta l’obiettivo su di lei. Segno della vittoria. Un altro sorso. Urlano. Rumore di “tremendo impatto”. Buio. Silenzio.

Guardo la scena giorni dopo sul sito di un quotidiano italiano che annuncia: “Ucraina, morte in diretta su Instagram: due ragazze si schiantano in auto”.

La guardo mille volte. Prima esploro, tra un pause e un play, l’istante in cui tutto cambia. Il passaggio tra la vita e la morte. Quale l’ultimo respiro?

Poi mi soffermo sulle ragazze. Cerco di studiare ogni singolo dettaglio del viso di Dasha, ma è buio, fuori è notte, e lei si muove continuamente.

Ne sono certo.
Nessun dubbio: conosco quella ragazza.

 

3. Luce

 

Che cos’è un’apparizione?
Tutto appare: viene alla luce.
Il nostro stare al mondo è un flusso continuo di eventi improvvisi e inaspettati. Tutto ciò che ci accade, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, è un evento improvviso e inatteso: la coda in automobile in una città di provincia in estate (un piccolo tamponamento imprevisto davanti a noi e via, dieci minuti inaspettati), la caldaia che smette di funzionare, la presenza di un qualunque cliente nel bar dove prendiamo il caffè (se non è improvvisa e inattesa la presenza di un altro cliente, lo è, invece, la presenza di quel determinato cliente: perché proprio lui, con la pancia da alcolista? E lui, con il volto anonimo, dimenticabile? Perché proprio lei, con le unghie glitterate?).

 

Per trovarci di fronte a un’apparizione, non basta però che quell’evento sia improvviso e inaspettato.

Un’apparizione può avere molteplici forme. Generare straniamento, per esempio (la donna dalle unghie glitterate non è solo presenza, ma è presenza che strania: vi guarda negli occhi, feroce, e non parla: cosa starà pensando? È davvero feroce? La ferocia è nei vostri occhi e non nei suoi?). Un’apparizione può plasmare l’asse lineare degli eventi per come lo avevamo concepito (per eludere il tamponamento, passeremo per una via secondaria: lí, su quelle strade di campagna, vedremo il cadavere di un cane probabilmente investito: una goccia di malinconia ci pervaderà), oppure modificare il nostro stato d’animo (il difetto della caldaia ci farà ritardare a un appuntamento a cui tenevamo: usciremo lo stesso senza doccia, e allora ci sentiremo in imbarazzo, come sporchi, fangosi? Oppure attenderemo e faremo tardi e genereremo attesa presso chi ci aspetta e dunque presso di noi?). Un’apparizione, senza dubbio, è generata da una novità o da un ritorno. Venire alla luce, forse da un’ombra. Un’apparizione può plasmare non solo il tempo ma anche lo spazio. Distorcere l’immaginazione.

 

In ogni caso, l’apparizione, per essere tale, genera un mutamento.

Affinché un’apparizione viva in tutta la sua forza, sono necessarie alcune condizioni preliminari. È necessaria, innanzitutto, la possibilità di una consapevolezza: essere consapevoli di come un oggetto o un pensiero vengano da noi percepiti; essere consapevoli di quale sia la nostra reazione emotiva a quell’oggetto o a quel pensiero (pensare: ora, esattamente ora, sto pensando questo pensiero), essere consapevoli di noi stessi in relazione al contesto. Tentare, in rari casi, di essere noi stessi l’atto di osservare. Essere comunque il piú possibile presenti. Ipotizziamo, caso inaudito, un essere umano senza consapevolezza: si avrà un essere umano senza apparizioni.

Altra condizione affinché la percezione viva è la disponibilità alla contemplazione. “Contemplare”, “contemplari”: attrarre nel proprio orizzonte; osservare (il volo degli uccelli) entro uno spazio circoscritto detto templum.

 

Non c’è vita umana senza apparizioni. Per essere però consapevoli di piú apparizioni possibili non si può che rovesciare tutto: per contemplare non basta stare fermi, immobili. È necessario costruire uno spazio interiore e rimodellarlo giorno dopo giorno. Andare incontro allo shock dell’ignoto. Contemplare non è stare fermi e attendere il mondo: è andare incontro al mondo, espandere il proprio templum e, parallelamente, aumentare la consapevolezza. La contemplazione è un importante architrave dell’apparizione: osserva il mondo, dunque osserva te stesso, dunque vivi.

Un’apparizione può mutare, talvolta solo impercettibilmente, il flusso degli eventi.

A seguito di un’apparizione, le sensazioni che proviamo sul nostro corpo generano un cambio di direzione, una virata o un’accelerazione. Senza sensazione non c’è apparizione. Senza sensazione non c’è essere umano. Che cos’è quella malinconia per il cadavere del cane? Un peso sullo stomaco, un brivido dietro la schiena, un sussulto del respiro. Che cos’è quella sensazione di disagio per la rottura della caldaia? Un prurito, una sensazione di calore, una sensazione di pesantezza.

 

Un’apparizione porta mutamento. Le apparizioni si insinuano ovunque: come microbi si nascondono nella flanella dei cuscini. Dobbiamo ringraziarle. È grazie a loro che ci sentiamo vivi.

Dasha, hi boys, era un’apparizione.

 

4. Disperazione e felicità

 

In un dialogo del dramma Risveglio di primavera di Frank Wedekind, un personaggio chiede: “Come farà lui a riconoscere tua madre in stazione?” “Vedendo com’è disperata,” risponde l’altro.

Se la disperazione può apparire sotto forma di un corpo umano – e quindi in tutta probabilità andrà a configurarsi come apparizione: un carico inaspettato di disperazione in un unico corpo, un grumo di dolore che esonda e genera, in chi lo incontra, un’apparizione –, lo stesso sentimento risiede all’interno del nostro corpo e dunque del nostro cervello.

L’apparizione passa sempre dalla sensazione, quindi dal corpo.

La disperazione della donna in stazione, dunque, non è che un tale accumulo di sensazioni negative – generate probabilmente da un senso di somma ingiustizia, ma soprattutto dalla certezza dell’impossibilità di una via d’uscita – da avere generato un corpo parlante, un astro nero che irradia disperazione in giro per il mondo.

 

Lo stesso dialogo in positivo, sostituendo per esempio la disperazione con la felicità, sarebbe risultato senza dubbio stonato o, quantomeno, retorico: la felicità, infatti, ha un respiro molto piú corto. Se l’attrito dell’infelicità ha una sua intensità – pervade e scuote il corpo piú a lungo –, quello della felicità è flebile come un soffio di vento.

Il cervello gestisce le informazioni negative in maniera diversa da quelle positive, le immagazzina affinché siano immediatamente pronte all’uso. Eventi come essere abbandonati da un amico o ricevere una critica sono molto piú d’impatto, emotivamente, che avere un nuovo amico o ricevere un elogio.

Il neuroscienziato sociale John T. Cacioppo, in un esperimento, ha mostrato ai partecipanti una serie di immagini in grado di generare emozioni positive, da una pizza alla Ferrari, alternandole a immagini negative come il cadavere di un gatto o un volto sfregiato e registrando l’attività elettrica del cervello: il cervello aveva reazioni molto piú forti di fronte alle immagini negative, che venivano elaborate con un’intensità diversa e in altre aree cerebrali.

 

Superiamo un esame all’università. 30 e lode. La felicità è massima. “Come sono felice!” Come si esprime questa felicità? Anche la felicità passa attraverso il corpo e dunque non è esistita che in quell’esatto istante in cui la commissione ci assegnava il voto. La sua esistenza è stata vissuta attraverso delle sensazioni: un brivido, un peso sullo stomaco, un palpito sulle labbra. Superata questa sensazione corporea (nel nostro organismo si registrano una serie di processi biologici, fisici, chimici, elettrici, che avvengono a livello molecolare: le sensazioni corporee sono una loro manifestazione), la felicità svanisce. Potremmo continuare a dire, per tutto il giorno, di essere felici, ma piuttosto siamo privi di tensione. La felicità l’abbiamo vissuta in quel preciso istante, quello delle sensazioni. Per il resto, è rimasta un concetto astratto.

Chi ha avuto dei figli potrebbe obiettare che non è vero: che la gioia è talmente immensa da essere interminabile. Tecnicamente, le cose non stanno proprio cosí. I figli – e dunque l’amore – sono dei grandi coagulatori di sensazioni. Quale l’effetto della crescita di questi cuccioli? Le sensazioni piacevoli si centuplicano. Un loro sorriso, la dolcezza con cui si addormentano, la tenerezza che generano con un loro pianto; tutti fattori che ci fanno emozionare. Che cosa significa emozionare? Che sentiamo un brivido sulla pelle, un blocco allo stomaco. Che la nostra reazione emotiva ha attivato il sistema nervoso che, a sua volta, ha provocato l’attivazione del sistema lacrimale.

 

A seguito del pianto di commozione, il nostro battito cardiaco è probabilmente aumentato, la respirazione ha rallentato. Si è formato il “nodo in gola”.

Conclusa la sensazione, torniamo a essere né piú né meno esattamente come prima. Biologicamente vivi e incapaci di essere felici, in quanto, ora, privi di forti sensazioni corporee. L’amore – e l’amore per i figli ancor di piú – non rende precisamente piú felici: genera, soltanto, un maggior numero di sensazioni positive nel nostro corpo.

Si può dire che, vista mille volte la scena di Dasha che si schianta in diretta, mi sentissi disperato? Difficile. Il mio corpo e la mia mente erano ancora vittime di un piccolo assedio di sensazioni negative. Esse erano presenti, sí – un ronzare nero attorno allo stomaco, i polpacci piú pesanti – ma già pronte a svanire, per essere sostituite da altre sensazioni.

Mentre giravo in scooter per Milano, in direzione Giambellino, la mia mente continuava a borbottare parole.

Le parole: queste piccole scorie dell’esperienza.

 

5. Incantamento

 

La nostra mente è attraversata ogni giorno da un numero di pensieri che oscilla fra i cinquantamila e gli ottantamila. Quando, per un istante, questo fiume di pensieri si ferma, è piú probabile che arrivi l’apparizione. Piú è fitto il chiacchiericcio della nostra mente, piú sarà difficile far vivere l’apparizione, se è vero che per vivere l’apparizione, sentirla, c’è bisogno di consapevolezza. Piú siamo disposti, aperti all’apparizione, piú sarà possibile vivere la condizione necessaria per un’apparizione: l’esperienza.

Non sempre le esperienze coincidono con le apparizioni. Ogni esperienza genera un mutamento? Sí. Ogni esperienza genera un mutamento consapevole? No. Siamo fermi sul divano e ci sembra di non fare assolutamente nulla. Sta succedendo qualcosa? Sí. Le molecole nel nostro corpo non sono immobili. A farci caso, un lontano prurito tocca il mignolo del piede. Se non ne siamo consapevoli, tuttavia – e se cioè non siamo attenti a quanto sta accadendo – la possibilità che quest’esperienza di mutamento non sia consapevole è piuttosto alta. Le apparizioni dunque, in un caso come questo, sono apparentemente lontane.

 

In questo caso, sí: quest’esperienza era un’apparizione. L’asse spazio-temporale della propria interiorità si sposta, le percezioni si fanno piú intense, la consapevolezza aumenta, la mente è piú concentrata, ed è ridotta la sua germinazione tipica di fatti inutili, parole inutili, movimenti che saranno dimenticati in pochi secondi.

Non sempre l’apparizione si presenta come tale. Talvolta è piú sottile, emette qualche vibrazione e stop: qualcosa, dentro di te, ti dice che forse, per qualche ragione, questo momento ritornerà, ciò che hai visto riapparirà nella tua mente: è come un grande testo letterario, questa vita. Accade e basta. È contemplazione piú che narrazione.

Questa volta sí: l’apparizione si configurò subito come tale.

 

Invitato in una piccola galleria d’arte, dove si sarebbe tenuta una performance di un’artista a me ignota, la mente aveva già iniziato a volare. Domani, domani, dopodomani. Guardare la partita, morire, cambiare città. La mente è il cavallo e noi siamo il fantino: ci porta lontano.

Erano poche ore che avevo visto la “morte in diretta”: un’apparizione l’avevo già avuta (si possiedono le apparizioni? O si subiscono? Si inabissano dentro di noi e noi vi nuotiamo dentro? O troneggiano come dèi greci nella nostra mente? Vivono anche quando dormiamo? Certo che sí! Vivono anche quando moriamo? Certo che no!).

Ma ne arrivò un’altra, di natura molto diversa.

Fuori dalla galleria d’arte Il Colorificio, saluto. Poi entro. L’artista, Tamara MacArthur, inglese nata a Berlino e che vive a Glasgow, è al centro della scena.

Il suo viso spunta da un corpo femminile fatto di cartapesta, che a sua volta sorregge un corpo maschile di cartapesta. Attorno: una vera cappella di cartapesta, a struttura romanica, da lei costruita in un mese di vita all’interno dello spazio espositivo. Il cielo è stellato all’inverosimile, da cartone animato.

 

Le colonne della cappella sono autoritratti dell’artista, esplosi, fragilissimi (è davvero ridicolo tentare di descrivere una performance artistica: le parole sono strumenti cosí umani…).

Tamara canta.
Entro.
In quel momento sono l’unico visitatore di fronte a lei. Canta e mi guarda negli occhi. La voce è rotta. Ti guarda negli occhi e non si stacca mai piú. Vuoi uscire da quello sguardo e al tempo stesso vuoi che si prolunghi all’infinito. Non c’è erotismo, non c’è mestizia, non c’è disperazione, non c’è complicità: c’è tutto questo e altro. Tamara canta: “If I had words to make a day for you, I sing you a morning golden and new”. Siamo dentro l’incantamento. La canzone, dello scozzese Scott Fitzgerald, è quella che, nel film, ilcontadino canta a Babe il maialino, nella speranza di curarlo. Il contadino canta dolcemente, ma non sembra credere davvero alla magia. Poi accade qualcosa: la consapevolezza che qualcosa può cambiare.

Ero di fronte a un’esperienza artistica: le esperienze artistiche sono sempre apparizioni.

 

Provi a fuggire, strappi e vai via, vai nell’altra piccola cappella di cartapesta. Ma devi tornare. La nenia continua. La canzone è sempre la stessa, infinita, per tre ore e mezza. Gli occhi sono sempre gli stessi. Ogni singolo istante è importante quanto il precedente. Non c’è pubblico. Ogni visitatore è l’unico e solo possibile per lei, per lunghissimi minuti. Non c’è madre e non c’è parto. Non c’è origine né addio.

Non andare via. Non abbandonarmi. Il momento dell’abbandono è sospeso. Sembra che non finirà mai. Poi arrivano altri visitatori. Sei tu a sentirti abbandonato. Tamara fissa le pupille di un altro. Canta la canzone della cura, se avessi le parole, il rito magico. Tu sei invisibile. Provi a chiudere gli occhi ma non serve a nulla. Sul tuo corpo, senti le molecole in movimento. Brividi, calori. Sensazioni. Esplodono, per contatto umano.

Ciò che è apparso è ancora lí e tu non sei niente: neanche un piccolo fantasma.

 

6. L’altra direzione

 

Nei suoi dialoghi con Gustav Janouch, Franz Kafka, parlando dei suoi scarabocchi, dice: “Tutte le cose del mondo degli uomini sono immagini che si animano. Gli eschimesi disegnano sul legno da cui vogliono trarre il fuoco alcune linee sinuose. È l’immagine magica del fuoco, che essi ridestano alla vita strofinando i bastoncini. Io faccio lo stesso. Per mezzo dei miei disegni voglio venire a capo delle forme che vedo. Ma le mie figure non si accendono. Forse non uso il materiale adatto. Forse la mia matita non ha le qualità giuste. È anche possibile che sia proprio io a essere privo delle qualità necessarie”.

Quanto qui lo scrittore dice è in netta relazione con quanto, nella sua vita tormentata, scrive.

Dovremmo dunque parlare ora dell’apparizione in letteratura. Si utilizzerà qui, per tutto il testo, la parola letteratura come entità artistica in generale, sia essa visiva, testuale, sonora: dove possibile, la definizione sarà sostituita dalla piú esatta esperienza artistica: la letteratura, ossia l’arte tutta, esiste in quanto esistono le esperienze artistiche. I testi però sono singhiozzi, mormorii, sono fatti di voci e ombre, di attimi e di respiri. Ogni respiro è identico all’altro e infinitamente diverso al tempo stesso. Anche i testi, come i respiri, si sfilacciano, cedono, dicono addio, vanno in un’altra direzione. È nota la Favoletta dello stesso Kafka: “‘Ahi,’ disse il topo, ‘il mondo diventa ogni giorno piú stretto. Prima era cosí largo che mi faceva paura, correvo ed ero felice di vedere finalmente muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi lunghi muri si avvicinano tra loro cosí in fretta che sono già nell’ultima stanza e lí nell’angolo c’è la trappola nella quale cadrò’. ‘Non hai che da correre in altra direzione,’ disse il gatto, e lo mangiò”.

La scrittura è quell’altra direzione.

 

 

[Immagine: Tamara MacArthur].

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