di Andrea Cortellessa

 

La maledizione di Giorgio Falco è anche la sua forza. Quasi tutti i suoi soffrono dello squilibrio di essere più libri in uno. Per esempio quello che nel 2014 finalmente lo ha fatto conoscere a un pubblico di non soli aficionados, La gemella H, era un “romanzo storico” – sulle colpe innominabili della Germania che negli anni Cinquanta “invade” turisticamente la Riviera Romagnola come, pochi anni prima, aveva invaso tutto un Continente. Ma quel romanzo straordinario includeva un saggio (e anzi un pamphlet: perché non appartiene a Falco – ha dimostrato nel 2017 il deludente Sottofondo italiano – la pseudo-lucidità, l’ostentato distacco dalla materia del vero “saggista”) sull’anonimato sotto il totalitarismo, emblematizzato dall’«uomo di Lenhart»: la figura senza volto, cioè, che spesseggia nei manifesti di Franz Lenhart, grande cartellonista anni Trenta. Testo altrettanto avvincente che a fatica, però, si legava alla materia, e soprattutto alla straordinaria intonazione, della Gemella H. Ma è proprio quest’ambizione a sottrarre Falco alla prevedibilità seriale dei compitini, dei libri-a-temino cui da un pezzo s’è ridotta la nostra narrativa senza qualità.

 

In apparenza, e per collocazione editoriale, Flashover è un tipico esercizio di non-fiction, genere così trendy del nostro tempo: che si concentra su un singolo istante della nostra storia recente scegliendo quella come maglia rotta, anello che non tiene nel tessuto del tempo fuori sesto che è il nostro tempo. È la notte del 29 gennaio 1996 quando va in fiamme un edificio storico dal nome jettatorio, il teatro La Fenice di Venezia. Una storia emblematica in sé (l’incendio viene appiccato dal titolare di una piccola ditta in ritardo sulla consegna degli impianti elettrici nel restauro del teatro: minimo imprenditore di se stesso perseguitato dalle rate del biemmevvù che, individuato con puntiglio anagrafico, pare però uscito dalle allegorie lancinanti dell’Ubicazione del bene: quello del 2009 che resta il capolavoro di Falco), ma che – come sempre in questi casi – allude ad altro. Una notte, si diceva; ma quello messo a fuoco, è il caso di dire, è un istante. Cinque minuti in cui si produce il fenomeno che al libro dà il titolo (molto bello e va detto, purtroppo, “coraggioso”: se è vero che un titolo ancora più irresistibile, Spitfire, qualche anno fa venne editorialmente negato a un libro destinato a ottenere le più giuste fortune): il momento di «sviluppo completo dell’incendio», quando dopo il suo irresistibile progredire «la temperatura è altissima, uniforme», «tutti gli elementi bruciano all’unisono» e «ogni cosa si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco».

 

Ecco, questa è la chiave: quello della Fenice è il lampo che incendia e illumina quanto in precedenza fermentava oscuro; come diceva Walter Benjamin, è solo quando va in fiamme che una casa rivela la sua architettura («ogni incendio», dice infatti Falco, «conserva la traccia della propria origine, una sorta di informazione genetica grazie alla quale tutto è iniziato e ha potuto svilupparsi»). Quello andato in fiamme, in quei cinque minuti di flash rivelatorio, è il micro-capitalismo nordestino in quegli anni cresciuto a dismisura, ma su piedi d’argilla: figura di un macro-capitalismo che dopo un decennio a sua volta andrà in fiamme, ingigantito in scala ma non dissimilmente. Lasciandoci le ceneri sulle quali con infinita fatica, da un altro decennio, l’Occidente prova a riedificarsi; se non a miticamente rinascere.

 

Se si fermasse qui, però, non sarebbe Giorgio Falco. La sua movenza più tipica è quella di chi, giunto al punto, aggiunge una virgola. E scarta come un cavallo di razza. L’atroce fait divers di Venezia, allora, deve raccontare anche altro. Con andamento avvolgente quasi à la Truman Capote, e a dispetto di anti-psicologistiche intenzioni, entriamo nella testa di quei piccoli Erostrati di provincia: lo sgarro non lo fanno a un edificio qualsiasi, ma a un capolavoro incastonato in una città satura di capolavori, una bellezza che opprime e spaventa. Falco s’interroga allora su cosa significhi condurre la propria esistenza all’ombra di una bellezza che non ci appartiene e alla quale non apparteniamo: una bellezza che non ci riguarda. E che allora cancelliamo dalla nostra esistenza: psichicamente e socialmente se non, come in questo caso, materialmente.

 

Non a caso Falco passa a rileggere Il padiglione d’oro di Mishima Yukio, capolavoro del ’56 a sua volta ispirato a un fatto di cronaca di pochi anni prima. E cita un episodio-chiave del suo regista feticcio, il piano-sequenza circolare di Cronaca di un amore di Antonioni: in quei tre minuti perfetti si consumerebbe la sequenza-tipo in cui il capitale segmenta la nostra esistenza (è un tema che ossessiona Falco sin dall’esordio di Pausa caffè, 2004). Ma c’è un altro episodio di Antonioni (cfr. qui: 1h 41’ 45”), che dà forma memorabile a questo sentimento: quando nell’Avventura Sandro (cioè Gabriele Ferzetti, ad altro riguardo evocato da Falco), l’architetto senza qualità che ha rinunciato ai progetti propri per il benessere che gli garantisce realizzare quelli altrui, davanti al Duomo di Noto si avvicina annoiato al foglio sul quale un giovane studente d’architettura, devoto, è intento a copiare a china quelle meraviglie; e per errore ci versa sopra l’inchiostro. Il ragazzo crede invece l’abbia fatto apposta, ed è proprio così: Sandro odia insieme la bellezza e la giovinezza di chi, per essa, ancora sa incendiarsi (a Claudia, cioè Monica Vitti convinta che lui potrebbe ancora fare delle «cose molto belle», dice infatti sprezzante: «a che servono ormai le cose belle? Quanto durano? Una volta avevano i secoli davanti; oggi al massimo dieci o vent’anni, e poi?»).

 

Ma Flashover è ancora altro, come dimostrano le enigmatiche fotografie (opera di Sabrina Ragucci, da sempre di Falco compagna e complice) che, non sempre congrue, lo punteggiano: e nelle quali figura l’autore mis à nu, ma col volto coperto da una maschera. Un uomo senza volto, incendiato dalla bellezza spietata di un Rothko, figura anche in copertina. E infatti Flashover è anche un’interrogazione radicale su cosa sia (e significhi), davvero, un personaggio. Si potrebbe pensare a un altro libro di Mishima, Confessioni di una maschera. Ma mentre quella, esistenzialisticamente, era la vita sociale, falsa, che si sovrapponeva a una “vera” e inconfessabile, la maschera in Falco si fa segno post-sociale, per non dire post-umano, di un’alienazione radicale: che si spinge sino a cancellare qualsiasi identità individuale. Un’alienazione che non è solo di qui e ora, ma viene da lontano: se suo primo avatar è «l’uomo di Lenhart». Oggi che si risente quell’odore inconfondibile, di un fumo che promette incendi, spuntano da ogni parte sedicenti storici che si applicano con zelo al compitino di spiegarci quanto sia diverso, l’oggi, dal fascismo di allora brutto e cattivo. Ma sotto quella maschera ce n’era un altro; e quello, ci dice Falco in ogni suo libro, non è mai finito.

 

Giorgio Falco, Flashover. Incendio a Venezia, fotografie di Sabrina Ragucci, «Frontiere» Einaudi 2020, pp. 193, € 19.

 

[Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Tuttolibri» il 3 ottobre].

 

 

[Immagine di Franz Lenhart].

1 thought on “Giorgio Falco, quanto durano le cose belle

  1. Immagino che “Spitfire” fosse il titolo originariamente pensato da Pecoraro per “La vita in tempo di pace”, vero?

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