Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi

 

di Eric Franc

 

L’opera di Mauro Van Aken (Campati per aria, Elèuthera, 2020)  si colloca fra i lavori che intendono rispondere all’esigenza di mobilitare una pluralità di saperi, non solo quelli delle scienze dure, al fine d’indagare l’attuale crisi climatica (e più in generale ambientale) e di compiere una conversione ecologica non più rinviabile. Il sapere che in questo caso prende in carico il tema del clima è quello dell’antropologia culturale. Motore fondamentale della ricerca è la constatazione delle perduranti difficoltà con cui, in seno alle società occidentali, i cambiamenti climatici sono fatti oggetto di pensiero, discorso pubblico e azioni conseguenti. Tali difficoltà sono qui lette come una vera e propria mancanza di condivise forme simboliche, di modelli culturali adatti, da un lato, a conferire senso a un tempo atmosferico che muta e disorienta, dall’altro, a elaborare un ruolo climalterante che tutti gli occidentali, in vari gradi, possiedono. Con l’obiettivo puntato sulla necessità di passare da un approccio all’ambiente imperniato sullo sfruttamento a un immaginario alternativo centrato sulla cura, le scienze umane e più specificamente l’antropologia sono convocate per costruire una “cassetta degli attrezzi”. Questa dovrebbe consentire di ridare significatività al clima, di comprendere la dimensione culturale della crisi climatica e di rendere quest’ultima pensabile e agibile, aprendo al desiderio di un futuro in cui vi sia spazio visibile per il protagonismo di “attori ambientali” non umani (biologici e non) e in cui, finalmente, le relazioni quotidiane fra agenti umani e non umani siano ri-conosciute.

 

Nell’indagine sulla dimensione culturale dei cambiamenti climatici, un’attenzione particolare è riservata alla critica di un concetto occidentale e moderno di “natura” (specialmente legato al capitalismo a base di risorse fossili), secondo il quale ciò che va sotto il nome di “natura” è qualcosa di distante e altro rispetto alla società e alla cultura umane. Qui, i soggetti non umani vengono esiliati sullo sfondo, col ruolo d’oggetti passivi, mentre le loro relazioni con gli esseri umani sono rimosse. La natura nel suo complesso, poi, quando non è vista come sede (localizzata) di un sublime da difendere, è mercificata, resa disponibile, prima quale magazzino smisurato e inesauribile da cui estrarre risorse a buon mercato, dopo come discarica per quanto è rifiutato. In questo radicato immaginario, ciò che nella realtà è limite imposto dall’interconnessione fra diversi agenti ambientali si tramuta in ostacolo da superare con pratiche di produzione e consumo di merci-feticcio, il cui impatto ecologico è tanto certo quanto socialmente invisibilizzato. Per concettualizzare l’effetto sociale del passaggio dall’Olocene all’Antropocene, Van Aken ricorre alla nozione psicanalitica di “perturbante”: l’idea è che gli attori ambientali spaventino, perturbino nel momento in cui, dopo essere stati rimossi e alterizzati, riemergono, in modo più o meno dirompente, quali soggetti inter-agenti.

 

Van Aken esplora anche le conseguenze culturali dei cambiamenti climatici, i quali, oltre ad aver fattivamente aumentato le diseguaglianze, sul piano delle rappresentazioni, secondo l’autore, hanno scosso l’immaginario dell’economia fossile, con la sua narrazione utopica sul futuro come luogo della crescita infinita, al punto di rendere il futuro stesso difficile, se non impossibile, da pensare al di fuori di scenari catastrofici. Sono indagati, poi, gli ostacoli socio-culturali a pensare e agire le relazioni con soggetti non umani e quindi il cambiamento ambientale, che pare divenire facile da pensare solo nel momento in cui è inquadrabile come “emergenza”. Al di là delle posizioni negazioniste di soggetti economici o istituzionali interessati al mantenimento, per quanto distruttivo, dello status quo, a essere presi in conto sono i processi di costruzione sociale di diniego e ignoranza dei cambiamenti. Questi appaiono come un lavorio di rimozione che può concretamente esprimersi in diverse forme, ma comunque permette d’allontanare i problemi dal quotidiano personale e comunitario, dal qui e ora, verso tempi e luoghi distanti o verso scale planetarie. Così i dati sul cambiamento climatico sono socialmente organizzati in modo da restare fuori dalla vita di tutti i giorni. Tra i fattori analizzati, rientrano non solo questioni emotive come l’angoscia generata da scenari apocalittici e il trauma causato dalla perdita d’affidabilità dei luoghi di residenza. Si valuta anche il problema posto da un’instabilità atmosferica che se da un lato si manifesta in uno scenario nel quale tempo e spazio sono compressi come mai prima (fra interconnessioni globali e accelerazione generalizzata dei mutamenti ecosistemici), dall’altro, si configura come una crisi climatica che non avanza per gradi, ma come un “gioco di estremi e oscillazioni”. A essere evocata è pure l’opposizione di ascendenza geertziana fra concetti vicini e lontani dall’esperienza, qui declinata nella dicotomia fra percezioni locali del tempo atmosferico e saperi scientifici sul clima, che producono dati difficilmente socializzabili, perché espressi con scale troppo piccole oppure troppo grandi o ancora in termini troppo astratti rispetto a ciò che è vissuto localmente.

 

Davanti a tutto ciò, l’autore propone una riscoperta della dimensione atmosferica delle diverse “culture”, dei modi in cui, in differenti contesti culturali, attraverso “saperi del tempo” vicini all’esperienza, si è conferito senso e familiarità al clima e, in prospettiva più ampia, alle relazioni fra esseri umani e altri attori ambientali, coi limiti che da tali relazioni discendono. In questo caso, alla base del discorso, sta il recupero del fatto che l’atmosfera sia “il nostro ambiente principale”, quello in cui come esseri umani siamo costantemente immersi, sicché le varie “culture” sono sempre necessariamente state (anche) atmosferiche, “campate per aria”, per via del loro esser sempre state esposte al tempo atmosferico. Così com’è intesa da Van Aken, la dimensione atmosferica delle “culture” include sia l’attribuzione di significati simbolici alle dinamiche dell’atmosfera, sia i legami fra il tempo atmosferico e quello sociale, sia l’accumulo, nel corso della storia, di conoscenze locali sul tempo, a partire da quelle funzionali alle pratiche agricole. Per quanto riguarda lo studio delle assegnazioni di valori simbolici al tempo atmosferico, vanno ricordati i riferimenti ai casi in cui, a diverse coordinate storico-geografiche, costruzioni socio-culturali del clima sono diventate simboli identitari e, a volte, mezzi per spiegare l’origine della diversità umana e inferiorizzare Altri per il loro presunto stare dentro a ed essere caratterizzati da un clima deviante rispetto alla norma ideale incarnata dal clima dei luoghi riconosciuti come sedi del Noi.

 

Per ciò che invece concerne il rapporto complessivo delle comunità locali con il clima, alla valorizzazione di contesti non occidentali in cui l’aria è per lo più intesa come un mezzo all’interno del quale si svolge la vita, le relazionalità ambientali sono prese in conto e i calendari agricoli possono servire non a predire il futuro ma a orientare i comportamenti in modo flessibile, Van Aken oppone una critica dell’Occidente. Pur in presenza di metafore atmosferiche sedimentate nel linguaggio, in quest’ultimo si vivrebbero ormai gli effetti di una presa di distanza dal cielo, scenario secolarizzato di forze misurabili, lontano da collettività più abituate a un “clima indoor” che alla trasmissione d’esperienze intergenerazionali del clima e all’esperienza sensoriale del “tempo outdoor”. Non manca, comunque, la distinzione tra i diversi significati che il clima e i cambiamenti climatici assumono nello spazio pubblico occidentale, a seconda che siano implicati i professionisti dell’informazione, i politici, gli attori economici, gli attivisti di movimenti sociali, i negazionisti, gli scienziati…

 

Come si vede già da questa breve sintesi, il testo di Van Aken presenta vari fronti d’interesse. Non trascurabile è la messa in avanti di alcuni dei possibili incroci fra approcci antropologici al clima e studi sulla costruzione d’identità etniche o nazionali, che non si limita all’evocazione della possibilità che si diano simbolizzazioni identitarie del clima e spiegazioni della diversità umana basate sul principio del determinismo ambientale. Un oggetto di possibili, futuri approfondimenti emerge col discorso in cui Van Aken, muovendo dal lavoro di Francesco Remotti sulla “somiglianza” come strada per una “convivenza” che vada oltre la mera “coesistenza”[1], punta a estendere il senso del concetto di “relazione sociale” pure agli “attori ambientali dell’Antropocene”. Uno spunto che meriterebbe un’indagine specifica è poi fornito dall’idea secondo cui, in Europa, i migranti fungerebbero da capri espiatori anche per l’ansia e il disorientamento generati dalla crisi climatica. È, questo, un tema di rilievo non secondario: tra i possibili fattori innescanti chiusure identitarie con conseguenti conflitti, ormai, rientrano a pieno titolo anche gli stress socio-economici ed emotivi causati dal degrado ambientale, con in testa il cambiamento climatico.

 

Guardando allo specifico del contributo di Van Aken alla costruzione di una griglia con cui analizzare il presente e progettare il futuro in materia di crisi climatica, va sottolineato il chiaro e importante invito a non fermarsi a una lettura superficiale di quella che appare come una diffusa ignoranza dei mutamenti in corso. Non si tratta di mettere in dubbio il fatto che, in Occidente, possano ancora esserci persone che davvero dei cambiamenti climatici sanno ben poco. La questione, importante sia per i ricercatori sia per quanti (in un modo o nell’altro) lavorano a favore della sensibilizzazione ambientale, è un’altra. Fronteggiando, sul piano teorico e/o pratico, l’apparente ignoranza di tanti, non ci si può fermare al primo livello analitico e dare per scontato di trovarsi davanti agli esiti di una vera mancanza di dati e non al frutto di un grandioso processo di rimozione dal quotidiano d’informazioni ormai abbondantemente circolate, ma poco “digerite”. Sul piano dell’azzeccata collocazione della crisi climatica nel novero delle idee difficili da pensare, sarebbe interessante che chi ha le competenze per farlo si esprimesse sull’eventualità che in gioco vi siano anche vincoli cognitivi. Per spiegare le diffuse resistenze ad accettare uno dei fattori capitali nell’evoluzione biologica, la contingenza, è stato invocato l’effetto di “tenaci avversari cognitivi” di quest’ultima, presenti nei nostri cervelli di Homo sapiens come lascito proprio della nostra storia evolutiva[2]. Viene da chiedersi se la crisi climatica non includa aspetti che nostri vincoli cognitivi contribuiscono a rendere difficili da pensare. Beninteso, qui saremmo alle prese con inclinazioni mentali innate che, per loro natura, anche se presenti, non sono insuperabili e, quindi, possono avere effetti diversi in differenti contesti culturali.

 

Ritornando ai contributi analitici di Van Aken, di sicuro interesse è la messa a fuoco di come il nostro avere riscoperto sia di essere agenti anche naturali, sia di dover riconoscere a soggetti non umani la loro agency costituisca “la fine di un’immagine del mondo”. Opportunamente, l’autore qualifica il Covid-19 come “la prima esperienza collettiva e traumatica delle dinamiche dell’Antropocene”, con, in particolare, un Occidente che ha visto crollare il suo preteso “eccezionalismo etnocentrico”, quello che permetteva di distanziare gli effetti delle manomissioni dell’ambiente come prezzi che sarebbero stati pagati sempre altrove, da qualcun altro. Il surriscaldamento globale, così come la pandemia in atto, può essere un’opportunità per rendere socialmente visibili, diciamo per “de-alterizzare”, i costi della devastazione ambientale: il lavoro di Van Aken è un passo in questa direzione.

 

A livello pratico, non vanno sottostimati né l’esplicito invito dell’autore a ricordare come il cambiamento e la resilienza possano essere incentivati solo muovendo da esperienze e significati locali, né una possibile implicazione di quanto Van Aken afferma sul verde pubblico come versione “degradata o delimitata” della natura, che di quest’ultima è diventata il modello normale. Ora, questa riflessione contribuisce a mostrare il possibile rilievo “pedagogico” di pratiche agro-forestali declinate come food forest urbane. Tali pratiche, che iniziano a fare capolino anche in Italia[3], costituiscono altrettante occasioni per restituire complessità (in termini di biodiversità reale, così come in termini rappresentazionali) a spazi cittadini nei quali può essere resa manifesta la convivenza interattiva e quotidiana fra attori umani e non umani.

 

In materia di piste non direttamente battute da Van Aken ma che ben si integrano con la volontà dell’autore di recuperare il senso delle relazioni fra umani e non umani, va segnalata quella consistente nei tentativi d’entrare nel merito del contenuto di ciò che può risultare da restituzioni di “parola” ad agenti non umani di tipo biologico. Per riprendere in forma ampliata il titolo di un lavoro di Vinciane Despret, cosa ci “direbbero” gli animali (e le piante e i funghi…), se ponessimo loro le domande giuste[4]? Tra l’altro, qui è in gioco anche tutto un ulteriore mondo ben difficile, per noi, da pensare, quello popolato da attori non “campati per aria”, ma immersi nello spazio solido del suolo, come l’atmosfera una delle componenti del pianeta da cui più dipendiamo e che al contempo più aggrediamo.

 

Per concludere tornando a noi umani e al nostro principale, seppur volentieri rimosso, ambiente atmosferico, vorremmo soffermarci su un accenno di Van Aken all’Italia come a “un paese di montagne e colline dimenticate”, sovente “pensato come se fosse composto solo da pianure e spiagge”. Un tentativo di recuperare, nelle rappresentazioni pubbliche, la dimensione montana della penisola, tra le altre cose, offrirebbe la possibilità d’attingere a uno dei “bacini” di persistente abitudine al tempo outdoor: pensiamo al mondo degli escursionisti e degli alpinisti, frequentatori di terre alte inevitabilmente avvezzi al rapporto sensoriale, anche rude, con l’aria.

 

Bibliografia

 

Despret V. 2014, Que diraient les animaux, si… on leur posait les bonnes questions ?, Paris, La Découverte.

Pievani T. 2011, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Milano, Raffaello Cortina.

Remotti F. 2019, Somiglianze. Una via per la convivenza, Roma – Bari, Laterza.

 

[1] Remotti 2019.

[2] Pievani 2011, pp. 207-211.

[3] V., in particolare, http://www.fruttortiparma.it.

[4] Despret 2014.

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *