di Camilla Marchisotti

 

«In un periodo storico in cui l’idea di catastrofe torna a essere significativamente presente nella vita di ognuno, si può tentare di fornire una traccia, un percorso che di voce in voce trasmetta il senso della nostra attualissima e collettivissima catastrofe».

 

Questo è il proposito (ambizioso) che si trova incastonato in apertura alla Trilogia della catastrofe (effequ, 2020), un trittico ibrido tra narrativa e saggismo in cui si alternano i testi di Emmanuela Carbé, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa. Uscito non casualmente in piena temperie pandemica, il libro si compone di tre parti diverse tra loro per stile e discipline di riferimento, «tre movimenti che esplorano la catastrofe ciascuno dal suo angolo di cielo». Una pubblicazione, questa, che si colloca in un pulviscolo culturale e testuale sempre più affollato ed eterogeneo, se è vero che ragionare sulla catastrofe, sulla fine e sul suo senso, è diventata ormai una postura naturale, quasi obbligata e trasversale a varie scritture contemporanee anche italiane, dall’antropologia di Matteo Meschiari, al recentissimo Fenomenologia della fine di Bifo (Nero 2020), fino al pullulare delle narrazioni distopiche (Funetta, Tedoldi, Orecchio tra gli altri).

 

Fin qui, niente di strano: quando l’apocalisse entra a gamba tesa nelle nostre cucine, è normale che ognuno senta il bisogno di dire la sua a riguardo, e come fa notare Giovanetti «immaginare futuri catastrofici è uno dei piaceri preferiti da spettatori e lettori global». Senza nulla togliere alla saggistica e alla narrativa, però, sono forse i poeti (quelli bravi) i più indicati a raccontarci “la fine”, per una loro obliquità di pensiero che impedisce alla “postura” di cristallizzarsi in “posa”. Così, con il suo Low. Una trilogia (Tic edizioni, 2020), opera-compendio che riunisce in unico volume tre raccolte già precedentemente edite (in ordine cronologico Tecniche di basso livello, 2009; Senza Paragone, 2013; Quando arrivarono gli alieni, 2016), si può dire che anche Gherardo Bortolotti abbia portato a compimento la sua personale “trilogia della catastrofe”, e che proprio nella combinazione delle sue tre parti abbia trovato i termini e i modi adatti a raccontarcela.

 

1. Cronaca di un’estinzione: Tecniche di basso livello

 

Tecniche di basso livello è il primo tassello di Low, ed è anche la cronaca di un’estinzione annunciata – la nostra -, che si consuma senza far rumore nel definitivo combaciare della civiltà occidentale con il sistema tardo-capitalistico di merci, connessioni e dispositivi di agambiana memoria. Bortolotti, che come tutti i poeti possiede il potere di viaggiare nel tempo, ci scrive dal futuro. Il messaggio nella bottiglia di TDBL è il racconto postumo delle nostre ultime fasi – quelle che dobbiamo ancora vivere, o che, più probabilmente, stiamo già vivendo. Come la Ginzburg-Robinson Crusoe immaginata da Fruttero e Lucentini in “Natalia e le cose” nei panni di sopravvissuta ad una catastrofe naturale, e intenta a raccattare i pochi oggetti utili rimasti con cui poter “costruire” i suoi romanzi, possiamo pensare all’autore di Low come all’ultimo uomo ancora in vita. Bortolotti ci parla da un pianeta lontanissimo, ormai disabitato, o meglio – volendo adeguarsi alla prospettiva infra-ordinaria e rasoterra che viene proposta sin dal titolo, e che ricorda la lezione di Perec – da una fessura del terreno, una buca in cui si è rifugiato come una talpa, per scampare a quella distruzione da cui noi invece non ci salveremo.

 

Il resoconto della nostra fine si presenta, coerentemente con il suo contenuto, in coppie di frammenti testuali, numerati ma disordinati: tante foglie di Sibilla quante sono le “poesie in prosa” che compongono la raccolta. I micro-testi non seguono un ordine lineare, ma procedono ad accumulo, si parlano tra loro a distanza, sono reticolari e linkabili proprio come quella “blogosfera” che il loro autore assiduamente frequenta. Profetizzano una catastrofe già accaduta, e infatti sono declinati all’imperfetto sin dall’incipit («Entravamo nell’autunno carichi di presagi…»); parlano di tutti, e per questo vi domina la prima persona plurale, che però, come è già stato fatto notare, è caratterizzata più in termini di “massa” che di vera “collettività”.  Anche quando si passa al maggior grado di individuazione dato dall’uso della terza singolare, i personaggi che sfrecciano nella raccolta come meteoriti non sono veramente degli individui, quanto piuttosto dei simulacri. Come nel caso di Giorgio Falco, altro cantore della precarietà che in Ipotesi di una sconfitta (Einaudi, 2017) si riduce ad essere soltanto G.Falco, nome-utente attribuitogli dall’azienda in cui lavora, queste impronte di soggettività appena abbozzate non hanno nomi, ma nomignoli: oltre a bgmole, alter-ego dell’autore, ci sono eve (la prima donna che si ribalta qui nell’ultima?), hapax e kinch (che significativamente in Urban dictionary sta per «An idiot or someone who has messed up»).

 

Li accomuna l’incertezza sulla loro effettiva esistenza e su quella di chi li circonda: bgmole parte dal «presupposto che i suoi simili non fossero del tutto veri, non essendolo, stando agli effetti, nemmeno lui». Il loro passato è confuso e si compone di «alcune scene scollegate», il loro presente non è più scandito da eventi naturali perché la stagione unica e perenne è quella «televisiva» (seguendo la linea degli “apocalittici” che va da Pasolini fino a Siti), il loro futuro è descritto in termini di «fallimento» e «capitolazione». Non sono cittadini, ma consumatori, e infatti solo momenti come gli acquisti e i pagamenti tramite carta di credito consegnano loro l’illusione della «pienezza dell’esistere»:

 

«al momento di pagare, bgmole percepiva la forza immateriale che lo rendeva vivo e in grado di spendere il suo salario […] i nervi dell’economia internazionale attraversavano il suo corpo, la sua cittadinanza»

 

La loro è una lingua rotta, falsa, una poltiglia infinitamente rimasticata fatta di luoghi comuni, brand e slogan, per cui «era usuale che le nostre conversazioni si perdessero in regioni di frasi generiche, schemi ipotetici, espressioni approssimative dello stato delle cose». Di conseguenza, la realtà che abitano è incomprensibile, sia nelle sue declinazioni quotidiane (l’emicrania, il mutuo, il plusvalore) sia in quelle più generali (il telegiornale, la politica internazionale, la transizione ecologica, il Medioriente), di cui comunque posseggono una «ridicola percentuale di conoscenza». Abitano lo spazio marginale dei sobborghi, l’hinterland, la periferia, in uno scenario frammentato fatto di fermate dell’autobus e parcheggi; nei loro appartamenti arredati da Ikea si rifugiano in zone interstiziali come «il tepore delle lenzuola, il fondo dei cassetti, gli scorci dietro i caloriferi». Faticano ad affrontare anche le soglie più simboliche, quelle tra la giovinezza e l’età adulta, tra tempo libero e salariato.

 

Individui, realtà, spazio e linguaggio si mostrano dunque sin da subito come spolpati dall’interno. Se un altro poeta come Mazzoni si è occupato di scandagliarne la superficie («E’ osceno essere esposto, essere una cosa», scrive in La pura superficie, Donzelli, 2017), il gesto di Bortolotti, altrettanto scandaloso, consiste nell’esporre la «cavità dello stato delle cose». Eppure, inspiegabilmente, – complice anche la maestria scrittoria di questo poeta/last man standing – il racconto non scade mai nel rischio del nichilismo spicciolo o dell’eccesso di intellettualismo, ma invece commuove; bgmole e compagni «suscitano simpatia» per la loro «naturale predisposizione a vivere»:

 

69. Nei pomeriggi d’estate, quando le maree delle fronde degli alberi, mossi dal vento lungo i viali delle periferie, accoglievano lo sguardo in ondate di verde e brusio, ci ricordavamo di momenti già vissuti e non diversi, di quanto eravamo stati felici, di quanto le distanze illuminate fornissero le prove di una redenzione in corso. Le poche parole che ci rimanevano da dire riuscivamo a rimandarle al futuro, alle ulteriori occasioni di riposo, serenità e comprensione

 

2. Ricucire la realtà con il filo della lingua: Senza paragone

 

Senza paragone è il secondo movimento di Low. Il paesaggio fisico/testuale e la natura del soggetto che lo abita non sono diversi da quelli già incontrati; a cambiare sono la prospettiva da cui vengono descritti e le operazioni che vengono portate avanti a loro interno. La prima persona plurale, che in TDBL si alternava alla terza singolare dei personaggi, viene sostituita qui da un “tu” generico, a cui si parla come se ci si rivolgesse a se stessi. Si tratta ancora di testi numerati in maniera incoerente, tutti però inaugurati da una particella che funge da termine di paragone, impostando relazioni di analogia o difformità. Manca però un elemento essenziale: sul livello dell’analisi logica, la raccolta è infatti un succedersi di subordinate senza principale. Il primo termine di paragone è una lacuna, l’archetipo assente – le frasi gli girano intorno, spesso non concludono, o si avvitano in anacoluti:

 

62.1. come le monete che ti trovi in tasca, gli scontrini, le palline di filo, i granuli di materia ignota in mezzo a cui le dita scoprono le sedi adeguate per gesticolazioni spastiche, improvvise, mentre il tuo sguardo indugia in particolare di secondaria importanza alla fermata dell’autobus, lungo il marciapiede, seguendo, come uno che non ha che raramente il senso del proprio avanzare, la ragione che lo porta a credere senza altri sospetti che non siano innocui che

 

Chi scrive abbandona lo sguardo postumo, e si cala dentro alla fine, nel suo indicativo presente, procedendo a un tentativo disperato, per lo più fallimentare, di definire il mondo e la propria posizione al suo interno. Senza paragone vuole ricucire la realtà tramite la lingua, ed ecco così spiegato il ricorso alla similitudine, una figura retorica che mira a creare un collegamento, e quindi una conoscenza. Il problema è che, in questo caso e di questi tempi, la similitudine non può che essere monca, il meccanismo di conoscenza inceppato, perché la realtà è «pari all’ultima parola, che spesso non trovi».

 

Tuttavia, non diversamente da quanto succedeva in TDBL, spostando l’attenzione da ciò che inevitabilmente viene perso per strada a ciò che invece rimane – «la polvere», «le briciole», quella materia minima e organica tanto cara a Bortolotti – questa operazione costante di cucitura, snocciolata dall’anafora dei “come” e dei “diverso”, conserva un suo valore positivo, gnoseologico, perché ci riporta all’avventura del linguaggio – che articola, sbaglia, ma sempre ci riprova e si rinnova. Come Hannah Arendt quando Gunter Gaus gli chiedeva «Cosa resta?», anche il Bortolotti di Senza paragone risponde sicuro: «La lingua».

 

3. «Aspettavamo la fine del mondo, per avere la misura delle cose»: Quando arrivarono gli alieni

 

Nella terza ed ultima parte di Low, la prospettiva diventa scopertamente distopica e apocalittica, e ritroviamo bgmole in un’atmosfera quasi cibernetica da “Odissea nello spazio”, tra astronavi e passeggiate intergalattiche, guerriglie e gruppi paramilitari, esplosioni nucleari e guerre mondiali. Il tempo e lo spazio vengono “stretchati” a dismisura e il pianeta terra diventa un puntino tra i tanti di una varia, infinita galassia. All’estensione vertiginosa dello spazio interplanetario reale («milioni e milioni di pianeti abitati miliardi di razze, di stirpi, di esseri senzienti») corrisponde l’estensione virtuale di Internet, dei suoi dati e delle sue possibilità.

 

All’interno dei testi scritti al passato remoto e alla prima persona plurale, compare qui per la prima volta lo sguardo esterno dell’Altro: quello degli alieni. Una delle caratteristiche vincenti della raccolta, però, è la decisione di non aderire acriticamente alla facile linea narrativa “dell’invasione”. Il ruolo degli alieni non viene mai veramente chiarito: a volte appaiono come nemici del genere umano, primi responsabili della catastrofe in corso; molto più spesso si rivelano innocui, quasi commoventi nei loro tentativi infruttuosi di stabilire con gli uomini un dialogo, comunicare «una verità» o un «segreto», disseminando in giro manufatti incomprensibili color pastello o scie luminose. La torsione dello sguardo è tale che si prestano a costituire una sorta di specchio dell’umano, «un gemello siamese e abortito» con cui condividiamo la stessa «gestalt di invidia e desiderio», il punto tramite il quale “vedersi” da fuori, riconoscersi:

 

460. Degli alieni il silenzio era profondissimo e lo sguardo non ci abbandonava per lunghissimi minuti, come se fossimo noi l’evento inaspettato, il dato incongruente in un quadro, fino a quel momento, sinistramente normale

 

Si può dire che Bortolotti perfezioni in QAGA ciò che già si intuiva nelle due raccolte precedenti, e cioè quella dinamica conflittuale e perpetuamente rinnovata tra due tendenze ugualmente significative del contemporaneo. Da un lato, ci racconta della catastrofe, della galoppata del genere umano verso «l’estinzione», «la dissipazione della materia in calore». Dall’altro, però, sia non chiarendo il ruolo degli alieni sia soprattutto attraverso il personaggio di bgmole, la terza parte di questa trilogia si trasforma anche in un poderoso esercizio di immaginazione attorno al «futuro», che costituisce paradossalmente una parola-chiave della raccolta. Il paesaggio in cui si muove l’alter-ego del poeta è ormai ridotto alle macerie dei centri commerciali, alle rovine delle villette a schiera, le innumerevoli tracce lasciate dalla nostra civiltà estinta. Il nostro presente si è trasformato nella sua archeologia, e i testi che lo vedono protagonista ruotano tutti attorno alla necessità di «stabilire una gerarchia delle fonti»; sono dei tentativi di archiviazione, catalogazione, memorizzazione di ciò che rimane. Bgmole non smette mai di riconfermarsi nella sua sottilissima presenza, anche se questa si riduce – come dice bene Carbé nella Trilogia della catastrofe da cui siamo partiti – a «questo rumore e nient’altro»:

 

616. Solo alla fine, bgmole si rese conto di quanto fosse lontano, di quanto solo fosse rimasto sul pianeta, dopo centinaia di anni di migrazione quasi inavvertibili, attraverso periferie abbandonate, quartieri residenziali deserti, centri commerciali diroccati. Lasciava tracce discontinue, scritte anodine, oggetti di uso comune. In alcuni rifugi, installava dispositivi di memoria olografica quasi vuoti, in cui riversava immagini, video di passeggiate pomeridiane, registrazioni della propria voce che recitava elenchi

 

Si può dire che tutta la trilogia di Low, in fondo, si basi sull’alternarsi continuo e mai risolto tra l’opzione della memoria e quella l’oblio, tra la dissoluzione della civiltà e la sua continuazione in altre forme, tra la scomparsa e le sue tracce. Bortolotti rende il suo “canto della fine” qualcosa di squisitamente ambiguo, perché infiltra tra le pieghe del disastro le resistenze della vita biologica e onirica: un momento di lucidità, un’associazione mentale, un ricordo, la cognizione della propria condizione. È appena uno strascico o un guizzo, è la schiuma di quell’onda che è il testo o – come direbbe Perec – «ce qui reste quand il ne reste rien». Appare così, in filigrana, l’altro lato di cui si compone questa “scrittura della catastrofe”: la certezza di esserci, la nostra ostinazione a permanere.

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