di Andrea Cortellessa
[E’ uscito l’8 ottobre nella collana «Visioni» di Treccani-Istituto della Enciclopedia Italiana (216 pp., € 17) L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020, un progetto editoriale di Paolo Grossi a cura di Emanuele Zinato. Il volume riporta gli atti del convegno tenutosi all’Istituto italiano di cultura di Bruxelles il 6 e il 7 giugno 2019, coll’ambizioso titolo Stati generali della nuova letteratura italiana. Occasione dell’incontro, la pubblicazione del numero 5 della rivista «Cartaditalia», dedicato a Letteratura italiana: il nuovo secolo e curato da Emanuele Zinato con la collaborazione di Valentino Baldi, Marianna Marrucci e Morena Marsilio. Nel volume sono compresi interventi dei curatori e dei partecipanti all’incontro di Bruxelles: Mario Barenghi, Andrea Cortellessa, Paolo Giovannetti, Filippo La Porta, Matteo Marchesini e Luigi Matt. Riportiamo qui quello di Andrea Cortellessa].
Le cartografie che da qualche anno promuove Cartaditalia, per la regìa proverbialmente solerte di Paolo Grossi – non è questa la prima della serie, ma è di gran lunga la più ambiziosa: come mostra già il proditorio anti-understatement del titolo scelto per queste giornate di dibattito a Bruxelles –, hanno in primo luogo, ai miei occhi, la virtù dell’extraterritorialità. Porsi a distanza sia pure virtuale (come hanno fatto i collaboratori della rivista, i quali in realtà vivono e lavorano in Italia) dal territorio osservato, concettualmente, consente quel distacco prospettico, o prospettivistico, che ha insegnato una volta per tutte il Montesquieu delle Lettres persanes: guardare agli idola tribus “da fuori”, sia pure solo convenzionalmente, aiuta a considerarli senza troppo subire i condizionamenti e le deformazioni della loro prossimità. Cartaditalia è un satellite geostazionario puntato sull’Italia.
Il secondo e maggior pregio dell’operazione di Zinato, Baldi, Marrucci e Marsilio è il loro intento, da ogni pagina evidente, di ragionare sulla specificità del sistema (o, come altri preferisce dire, del “campo”) letterario italiano contemplandolo, però, da un punto di vista schiettamente politico. Il maggior limite di quasi tutti i più recenti, pur in molti sensi meritevoli, panorami critici della nostra contemporaneità, come La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti spesso citato in questi giorni, è appunto quello di non considerare come fra le cause a volte molto evidenti, di fenomeni così fittamente osservati, vi siano condizionamenti strutturali, si sarebbe detto una volta, ovviamente legati a quella che del nostro Paese è appunto la condizione politica.
Una volta – nel corso della discussione assai accesa che, al suo apparire in Italia giusto vent’anni fa, accolse un saggio per me decisivo come Editoria senza editori di André Schiffrin – Giulio Mozzi fece notare come uno degli effetti in prospettiva più perniciosi, dell’uniformazione dei modelli editoriali causata dalle concentrazioni proprietarie denunciate dal prestigioso editor franco-americano, fosse da paventare nell’omologazione dei modelli testuali – tanto in senso linguistico-stilistico che tematico-ideologico: ché questi due livelli, a onta di chi insista a considerarne solo uno, sono com’è ovvio fra loro implicati – che i giovani autori in formazione sarebbero stati incoraggiati a omaggiare dall’«orizzonte d’attesa» che – a dispetto, in questo caso, di sofisticati modelli teorici d’antan – sono per loro, in concreto, i redattori delle case editrici cui proporre i loro testi. Questa è una considerazione che mi pare arduo evitare, e che invece vedo quasi sempre sottaciuta se non, nei casi più proditori di sostanziale complicità col sistema editoriale vigente, esplicitamente negata.
Più perplesso mi lascia – ancorché ne veda l’oggettiva utilità in termini di divisione del lavoro e ordinamento retorico del materiale – la partizione della pubblicazione (nonché della discussione di queste giornate) in tre distinti contenitori riservati rispettivamente alla «narrativa» (che poi coincide in sostanza col «romanzo»), alla «poesia» e alla «saggistica»: laddove poi in effetti tutti e quattro i critici non possano non partire dalla considerazione – ormai divenuta quasi un luogo comune postmodernista (a partire dal più brillante suo sostenitore e performer, cioè Roland Barthes) – del meticciato, dell’ibridazione e in prospettiva della sostanziale indistinguibilità dei “generi” tradizionali. Si capisce come alla base di questa posizione vi sia una scelta “militante”, diciamo alla grossa, anti-postmodernista; ma ai miei occhi equivale a una petizione di principio tentare di descrivere il campo letterario italiano “come se” la suddetta ibridazione – la si consideri positiva o negativa – non si fosse mai prodotta. Guardando la letteratura che si fa, e non quella che vorremmo si facesse, pare difficile continuare a considerare, per esempio, solo la «poesia-poesia» – come la chiamava Caproni mezzo secolo fa –, così recintandola in un’antistorica stanza separata (e così emarginando, di fatto, autori di confine come Gherardo Bortolotti con la narrativa, o Antonella Anedda e Guido Mazzoni con la saggistica, che del “campo” poetico sono invece fra i “campioni” oggi più interessanti). O, parafrasando, il “romanzo-romanzo”: a fronte di testualità profondamente connesse di nuovo alla saggistica come, per fare solo gli esempi più recenti, quelle di Tommaso Pincio, Francesco Pecoraro o Emanuele Trevi.
Tuttavia resta vero che – proprio a voler considerare la connessione fra sfera letteraria e politica – non si possa che insistere, come fa Morena Marsilio in Cartaditalia, sulla forma-romanzo: che è, sin dalla sua nascita, il genere delegato a far fede del punto di tangenza fra sistema letterario e sistema-mondo; che strutturalmente e appunto storicamente si è assunta tale responsabilità; che appunto è dotato delle strutture idonee – a partire dall’ampiezza materiale – a ospitare tale tangenza. Resta vero, a settantacinque anni di distanza, quanto scriveva Giacomo Debenedetti in una bellissima pagina di un suo saggio alfieriano – annus horribilis 1944 – che qualcuno con intelligenza ha pensato di preporre a una riedizione recente del Romanzo del Novecento: il romanzo nasce quando l’uomo moderno, che nei «secoli precedenti aveva preso come confessori la propria coscienza e Dio, da un certo momento in poi sente invece il bisogno, per quegli stessi fatti, di prendere come confessore la società, e come misura le regole e le leggi della convivenza». Il romanzo è lo spazio in cui l’uomo moderno può esercitare «questa perpetua confessione». Ma ci si dovrebbe altresì chiedere se in Italia, oggi, vengano concretamente realizzati un numero sufficiente di testi tali da poter assolvere ancora a tale funzione.
Venendo alla prosa che si fa, e cioè ai testi letterariamente validi che il più delle volte ormai con tutta evidenza esondano anche dai più ampi confini che si vogliano concedere al genere-romanzo, vale la pena concentrarsi a questo punto sul panorama esaminato da Valentino Baldi nel capitolo di Cartaditalia da lui dedicato alla Saggistica letteraria del Duemila. Cioè a quelle che alcuni (evidentemente di me più appassionati alla loro matrice anglosassone) definiscono «personal essays» e che io preferisco invece chiamare, più cautamente, «altre scritture». Scritture cioè che partono da oggetti culturali, letterari o meno, ma insieme e inseparabilmente dall’esperienza soggettiva che di tali oggetti ha fatto l’autore: più o meno recenti esempi ragguardevoli come La vita dei dettagli di Anedda, l’ultima parte dei Destini generali di Mazzoni e Sogni e favole di Trevi sono tutti oggetti in cui si intersecano il commento a testi e immagini della tradizione, o della più stretta contemporaneità, con la biografia, affettiva e politica, dei rispettivi autori. Sono in primo luogo – questo è molto evidente in particolare nel testo di Anedda: che considero fra gli assoluti capolavori, se questa parola si può usare impunemente, di questi ultimi vent’anni di letteratura italiana – collezioni: o, detto altrimenti, musei personali di ossessioni. Una parola, «ossessioni», che Baldi infatti impiega con efficacia per tratteggiare la forma “raccolta di saggi” – genere canonico, nel Novecento italiano, da Debenedetti a Garboli – e, per suo tramite, il profilo psicologico del “saggista”.
È interessante però osservare come il panorama di Baldi fosse improntato, almeno nelle premesse, a prendere in esame non la saggistica in quanto genere letterario, bensì propriamente la critica. Questa sarebbe stata, invero, la partizione di un tradizionale manuale di storia letteraria: narrativa, poesia e critica. (Pare strano doverlo ribadire ma non tutta la scrittura saggistica, come proverò a esemplificare fra poco, riveste un effettivo valore critico; e ovviamente non tutta la scrittura critica, come invece piace pensare a troppi suoi estensori, è letteratura in forma saggistica.) Si può ben capire come, immagino per saturazione ed estenuazione, Baldi non se la sia sentita di ripetere – a quindici anni suonati da Eutanasia della critica di Mario Lavagetto – il più risaputo cahier des doléances sulla «crisi della critica». Eppure, per quanto tali lagnanze ce le siamo ripetute sino a sfinire noi stessi (figurarsi chi abbia avuto la sventura di leggerci), non dobbiamo mai dimenticare di prendere le mosse da questa facies hippocratica: da quella che anzi ormai, a dire di Lavagetto, è una maschera funebre.
L’emarginazione del discorso critico dai palinsesti mediatici e, in concreto, dai cataloghi delle case editrici generaliste – torno a battere sul tasto dal quale ho preso le mosse – è frutto marchiano del conflitto di interessi in cui sguazza l’editoria senza editori: della quale giusto un quarto di secolo fa (anno di grazia 1995: all’alba del ventennio berlusconiano inaugurato con la fagocitazione di Einaudi) il manager Fininvest Franco Tatò proclamava compiaciuto essere unico fine lo scopo di lucro. Perché mai, una volta eroso in misura consistente (e dal 2016, con l’avvento di “Mondazzoli”, ormai conclamata) lo stato di concorrenza del suo periodo d’oro, gli anni Sessanta e Settanta, l’editoria dovrebbe incoraggiare la verifica delle proprie scelte da parte di Quelli a cui non piace (cioè appunto i critici, nell’incisiva definizione dell’omonimo pamphlet di Francesco Muzzioli)? Una volta impossessatasi pure – con la “concentrazione verticale” alla quale, colpevolmente, quasi sempre si presta minore attenzione – della vendita al dettaglio (le catene di librerie) e dei mezzi d’informazione (che in teoria dovrebbero garantire ai lettori, sui libri, un’informazione indipendente), nei confronti della critica l’industria editoriale eserciterà (e concretamente, ormai, esercita) quella che Schiffrin ha chiamato la «censura del mercato». Laddove invece (riporta Baldi una citazione da Thomas Pynchon fatta di recente da Vanni Santoni) nel nostro tempo «la critica letteraria sarebbe stata ancor più importante perché si sarebbero prodotti più libri per meno lettori, e dunque la funzione d’indirizzo dei lettori e selezione del canone sarebbe stata decisiva». È dopo la caduta della Torre di Babele, non prima, che si rivela necessario l’ufficio del traduttore. Ed è dopo l’eclissi dell’«intellettuale legislatore», descritta in termini storici da Zygmunt Bauman già trent’anni fa, che si rende necessaria una nuova figura di critico-intellettuale, certo differente da quello d’antan (il quale poi diciamolo, colla sua postura giovesca di «legislatore», non riscuoteva neppure le nostre simpatie).
Già altrove ho provato a descrivere la mutazione del ruolo del critico letterario nella direzione, da almeno quarant’anni invalsa nelle arti visive, del curatore. Esemplare, in tal senso, la più o meno coeva parabola del critico più influente della generazione seguita ai Debenedetti e ai Contini, cioè Cesare Garboli (che sia lui la figura più influente sulla saggistica italiana di oggi è molto evidente: basta aprire un qualsiasi libro di Trevi, che infatti da ultimo gli rende un sentito omaggio in Sogni e favole, per rendersene conto). Non solo e non tanto per la sua spinta in direzione della narrativizzazione (estremizzazione, questa, di certe posture di Debenedetti, ai suoi esordi narratore mancato) ma soprattutto per quello che vezzosamente lui stesso definiva il proprio servilismo. Cioè la dissimulazione, non so quanto onesta, di ben precise e spesso settarie scelte di gusto sotto le tanto più asettiche apparenze della curatela, appunto, di testi filologicamente risagomati (se non proprio inventati: come il Journal di Matilde Manzoni) ai fini delle proprie esigenze di narrazione. Assai evidente l’invenzione da parte di Garboli di autori, sui quali oggi non a caso risulta così difficile lavorare, come Pascoli, Penna o Delfini. Ma ai miei occhi ancora più eloquente, in termini diciamo deontologici, è il caso di un saggio su Sereni contenuto in Falbalas, dal titolo September in the rain: dal punto di vista della scrittura, senza dubbio uno dei più bei saggi scritti nella nostra lingua nel Novecento; ma nel quale altresì si concentra, ai miei occhi altrettanto indubbiamente, tutto ciò che un critico non dovrebbe fare.
Se si può guardare anche senza rimpianti all’attitudine da legislatori dei critici di un tempo, e a maggior ragione al loro carattere sacrale (come lo definiva invece, sempre citato da Baldi, Pierre Bourdieu), credo sia impossibile invece non rimpiangere, della critica moderna, quella che – ricordando Romano Luperini: il quale ha sempre richiamato il «conflitto delle interpretazioni» nell’auspicato formarsi di «comunità ermeneutiche» come quelle che, in concreto, dovrebbero attivarsi nelle aule scolastiche e universitarie – Baldi definisce il suo «carattere collettivo»: cioè il suo rivolgersi a una sfera pubblica in cui gli assunti del singolo critico possano essere discussi e contraddetti; epistemologicamente parlando, cioè, “falsificati” (ovvero quanto, nella pagina sopra evocata, impediva di fare Garboli). Si obietterà come mai come nel nostro tempo i libri di nuova pubblicazione (ma, se è per questo, anche i classici più venerati) vengano istantaneamente e torrenzialmente commentati, nella sfera autodefinita «sociale» del Web 2.0. Ma questa forma di commento è qualcosa di molto diverso dalla “critica” alla quale ci siamo formati.
Mi si perdoni, a questo punto, un minimo aneddoto personale. Nel 1995 – eloquente simmetria delle date: giusto l’anno del pamphlet fininvestiano sopra evocato – eravamo agli albori della diffusione di massa della Rete (che, in ambito letterario, possiamo in sostanza datare al decennio successivo). Quell’anno un critico in erba allora ventisettenne, tanto appassionato quanto ingenuo, partecipava a Reggio Emilia a quello che era, per lui, il primo convegno sulla letteratura contemporanea. L’occasione dunque di fare la conoscenza non solo di critici ben più esperti e autorevoli, quali aveva già avuto modo di frequentare all’Università, ma anche di figure professionali sino ad allora, viceversa, solo vagheggiate: redattori ed editor di case editrici, agenti letterari, direttori di testate culturali. E soprattutto del core business, per me sino ad allora meri nomi sulle copertine: gli autori, naturalmente. Fu per me una palestra decisiva RicercaRE, il convegno organizzato da Balestrini e Barilli al quale partecipai anche nelle seguenti e sempre più stanche sei edizioni. In quel format, in linea diretta discendente dalle usanze del Gruppo 63, il ruolo della critica era enfatizzato al massimo: bisognava esporsi a caldo, intervenendo appena venivano lette pagine del tutto inedite, da autori per lo più sconosciuti e in molti casi, in effetti, absolut beginners. Ovviamente mi divertii un mondo. Ma fu un contraccolpo da K.O., una sera, un dibattito che vide spadroneggiare un’editor allora sugli scudi (per aver “inventato” il “caso” editoriale del tempo, Susanna Tamaro): la quale papale papale sostenne che, caduto il muro di Berlino, era ormai vicino il tempo in cui si sarebbe perso il nome pure di quei soloni mandarineschi, quasi tutti in un modo o nell’altro legati a filo doppio a quelle ideologie sepolte dalla storia, dei critici letterari. Presto sarebbe venuto il tempo in cui autori e lettori si sarebbero incontrati finalmente faccia a faccia, senza più intermediari di sorta (omettendo di ricordare che il suo stesso ruolo, in effetti, era un esempio squisito di intermediazione). Perso è oggi il nome di quella cassandra (la quale in seguito tentò in tutti i modi, per fortuna invano, di replicare il sortilegio di Va dove ti porta il cuore), ma io – come si vede – non ho dimenticato la sua profezia. Due anni dopo nasceva il Festivaletteratura di Mantova: che metteva a frutto quel sempre più voluttuoso abbraccio fisico fra autori e lettori. Ma è oggi, sul Web 2.0, che si vede realizzata davvero quella profezia. È qui che si assiste alla fine di ogni forma di intermediazione critica, in una sede davvero pubblica: laddove cioè il giudizio del singolo possa essere discusso, verificato e nel caso convalidato, dunque trasceso in una sfera relazionale, sociale, politica.
È uno degli aspetti più minacciosi del trompe l’œil che sono i social network: quanto di più remoto si possa immaginare, cioè, rispetto a un’autentica condizione sociale. I commenti dei loro utenti non sono rivolti a lettori, ma a destinatari interni alla propria “cerchia”, o “bolla” che dir vogliano: cioè a quelle che sono proiezioni narcisistico-paranoidi di loro stessi. Il commento “selvaggio”, disintermediato e plebiscitario, nulla ha della critica; è in effetti il suo rovescio simmetrico. Anziché inseguirne il consenso, come tanti operatori della filiera editoriale oggi si affannano a fare, sarebbe piuttosto il caso di contestarne punto per punto gli assunti, sempre impliciti ma non per ciò meno strettamente vigenti. Per fare un esempio di come invece fior di professionisti, oggi, demagogicamente adottino lo “stile” della pseudo-comunicazione social, ricordo la grancassa prestata da un quotidiano di grande diffusione come «la Repubblica» allo scrittarello prefatorio che un altrettanto professionale editore aveva pensato bene di commissionare al giallista Giancarlo De Cataldo: il quale al colto snob, ma purtroppo anche all’inclita ignaro, si divertiva a spiegare come Il processo di Kafka altro non sia che – forse un po’ contorto, senz’altro troppo lento – un legal thriller della più bell’acqua.
Alla fine della faticosa ma corroborante due giorni di Bruxelles, Emanuele Zinato ha dato emozionata quanto emozionante lettura di una lettera di Gramsci, dal carcere di Turi nell’agosto del 1933, alla moglie. La quale invitava a farsi, ai fini dell’educazione del figlio, a sua volta lettrice critica: «mi pare che tu ti metta […] nella posizione […] di chi non è in grado di criticare storicamente le ideologie, dominandole, spiegandole e giustificandole come una necessità storica del passato, ma di chi, messo a contatto con un determinato mondo di sentimenti, se ne sente attratto o respinto rimanendo però sempre nella sfera del sentimento e della passione immediata». E ci ha proposto quella situazione, Zinato, quale allegoria del presente di ottantacinque anni dopo: il critico si trova di fronte all’esigenza di trasmettere valori che in tutti i modi si sforza di comprendere, e far comprendere, nella loro storicità; ma quello stesso critico è a tutti gli effetti prigioniero di un sistema che ostacola la soddisfazione di quella sua esigenza.
Ci si potrebbe chiedere quali siano, oggi, le pareti del carcere. Quali i limiti in cui la nostra soggettività si possa esprimere, e in quale misura tali limiti possano essere oltrepassati. Il nostro acquario digitale è una caverna platonica? Senz’altro. Quelle mura sono le pareti invisibili, e asserite inesistenti, della società neoliberista? Anche. Ma c’è una parete ancora più sottile, forse la più decisiva. Prendiamo la copertina della Letteratura circostante di Simonetti: un cerchio composto da libri aperti, che circonda un centro vuoto. Ci si può chiedere se i mattoni di quel muro siano davvero “letteratura”; ma quello che resta non detto, dal saggio con questa copertina, è il centro vuoto. Chi si colloca dentro quel cerchio, in quella circostanza, all’interno di quel muro? E a chi parla?
Pretendere di continuare a esercitare la funzione critica senza che più nessuno legittimi il ruolo sociale che le corrisponde, si capisce, ci pone in una condizione paradossale, donchisciottesca (o piuttosto nella condizione del Barone di Münchhausen che si tira fuori dalla palude tirandosi per il codino: secondo l’immagine di Adorno fatta propria da Zanzotto). Il tempo, dovremmo saperlo ormai, non si può più considerare di per sé galantuomo; sta a noi porre le condizioni perché questa trasmissione di valori e nessi sociali (autenticamente sociali, voglio dire), alle generazioni a venire, possa essere attuata. Nel tempo a venire – e con ogni probabilità proprio in quell’«ambienza bugiarda», per dirla con Gadda, che si è rivelato essere quel Web cui un tempo guardavamo come a una promessa di libertà –, abbandonata una volta per tutte la postura individualistica del critico legislatore-sacerdote (che malcelava la matrice romantica del «genio»), forse qualcuno riuscirà a ripensare la critica in una forma «singolare plurale» – per dirla con Jean-Luc Nancy – e così riscoprire la sua vocazione collettiva, cioè pubblica e storica.
In una pagina celebre del succitato Romanzo del Novecento, paragonava Debenedetti il romanzo naturalista a un carcere che teneva chiusa e invisibile un’anima «prigioniera» che, proprio «come sogliono i reclusi nei penitenziari», prova in tutti i modi a «battere le nocche contro i muri che la chiudono, ma quei muri si rifiutano di trasmettere il suono». L’avvento del romanzo moderno, come quello di Proust, è quello di qualcuno invece in grado di udirlo, «quel sommesso, attutito battere di nocche»; e che si comporti come se, «per un gioco fortuito e benigno delle condizioni atmosferiche», «i muri refrattari del carcere fossero divenuti buoni conduttori del suono». Conclude Debenedetti, con ottimismo della volontà squisitamente modernista: «quel qualcuno, da allora in poi, non avrà più tregua. Dietro ogni aspetto indovinerà la presenza della prigioniera: il suo unico assillo, il solo compito che ormai potrà dare un senso alla sua vita, sarà di indurla a rivelarsi, a parlare, di mettersi in grado di captare quella voce esile, quasi sovrumana, di là dal diaframma che lo separa da lei».
Extraterritoriali e in un certo senso esiliati, sia pur congiunturalmente, come ci troviamo qui, la nostra condizione ci può ricordare la cattività zurighese del fondatore della critica italiana moderna, De Sanctis. A differenza di quanto pensavano gli intellettuali postmodernisti che si erano illusi di poter fare della globalizzazione la propria patria, il nostro ci pare a volte un esilio interno: nel nostro paese e nella nostra lingua, nella nostra disciplina, nella nostra condizione anagrafica e sociale, in una parola nel nostro tempo. Ma da questo esilio possiamo ancora far udire, forse, la nostra voce.
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Questo intervento ne riprende non senza ostinazione altri, in varia forma pubblicati nel passato più o meno recente. Elenco qui solo i principali: nel dibattito Esiste ancora un’editoria di cultura? (con Gabriele Frasca, Milli Graffi, Maria Antonietta Grignani e Niva Lorenzini) all’interno del numero intitolato Bibliodiversità della rivista «il verri», LI, 35, ottobre 2007, pp. 76-113; nello speciale da me curato La critica fra crisi e rinascita sul mensile della «Stampa», «Specchio +», maggio 2009; in Senza scrittori, documentario di RaiCinema da me scritto e interpretato per la regia di Luca Archibugi, distribuito da 01 nell’estate del 2010; I poeti sono un bene comune, in «Corriere della Sera», 11 luglio 2011; Vogliamo sputare nel piatto in cui mangiamo, in «La Stampa», 4 agosto 2011 (il giorno dopo su «Minima & Moralia»); Confidare ancora sui galantuomini? I classici nel tempo del cinismo, in «alfalibri», 5, supplemento ad «alfabeta2», 13, ottobre 2011 (e su «doppiozero», 2 novembre 2011); nello speciale alfalibro, curato con Maria Teresa Carbone e Vincenzo Ostuni come supplemento di «alfabeta2», 19, maggio 2012; L’isola che c’era, in «doppiozero», 9 gennaio 2013; Il poeticidio, in «Le parole e le cose», 23 luglio 2015; Commemorazione provvisoria del critico letterario, ivi, 27 febbraio 2017; Benvenuti nel deserto del reale, postfazione ad André Schiffrin, Editoria senza editori, presentazione di Alfredo Salsano, Macerata, Quodlibet, 20192, pp. 115-34 (una parte anche su «Il Tascabile», 4 dicembre 2019).
“ Mercoledì 14 maggio 1997 – Rivolgendosi a Bossi, Sofri diceva ieri sera che bisogna andarci piano con le parole. Quello che secondo me non ha capito è che, comunque ci si vada – piano, pianissimo, forte, fortissimo – nessuno sente niente. Come parlare al muro. « Del pianto? » No, del riso. “.
PARLARE AI MURI
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Cortellessa:
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«Il secondo e maggior pregio dell’operazione di Zinato, Baldi, Marrucci e Marsilio è il loro intento, da ogni pagina evidente, di ragionare sulla specificità del sistema (o, come altri preferisce dire, del “campo”) letterario italiano contemplandolo, però, da un punto di vista schiettamente politico. Il maggior limite di quasi tutti i più recenti, pur in molti sensi meritevoli, panorami critici della nostra contemporaneità, come La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti spesso citato in questi giorni, è appunto quello di non considerare come fra le cause a volte molto evidenti, di fenomeni così fittamente osservati, vi siano condizionamenti strutturali, si sarebbe detto una volta, ovviamente legati a quella che del nostro Paese è appunto la condizione politica».
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«In una pagina celebre del succitato Romanzo del Novecento, paragonava Debenedetti il romanzo naturalista a un carcere che teneva chiusa e invisibile un’anima «prigioniera» che, proprio «come sogliono i reclusi nei penitenziari», prova in tutti i modi a «battere le nocche contro i muri che la chiudono, ma quei muri si rifiutano di trasmettere il suono».
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Molto terra terra e in piccolo: io ho pensato che i “muri” in questi anni sono stati i neoaccademici come lei e quelli di LPLC e i “reclusi”, che insistevano a “battere le nocche”, siamo stati noi commentatori. Un solo esempio di tale sordità: questo appello rimasto ignorato e confinato (assieme a tante altre sollecitazioni) nello spazio commenti di LPLC:
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Noi accusiamo
di Ennio Abate, Roberto Bugliani, Giulio Toffoli
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Noi accusiamo!
Noi firmatari intendiamo esprimere la nostra indignazione per il silenzio ambiguo, quasi una complicità, con cui il ceto intellettuale sta rispondendo alla delicatissima e cruciale fase storica, politica, economica, giuridica e culturale che attraversa l’Italia. Ci riferiamo a tutti gli intellettuali che godono di maggiore visibilità sui media e sul web, che continuano a ‘distrarsi’ e a intrattenere l’opinione pubblica su questioni di natura letteraria e artistica, di per sé pur valide e importanti, ma che diventano chiacchiera, se trattate senza un legame preciso con i problemi sociali irrisolti o in via di peggioramento per le pesantissimo misure economiche di austerità e sacrifici a senso unico (le cosiddette “manovre lacrime e sangue”) imposte ex novo dall’attuale governo Monti o mutuate dal precedente governo Berlusconi. Tacendone, non dichiarando onestamente se tali manovre le si condivide o le si rifiuta, “parlando d’altro”, è come se gli intellettuali si riducessero a fioristi che decorano e nascondono le piaghe di una polis sempre più in decomposizione.
Dalla nostra collocazioni di intellettuali meno visibili o invisibili accusiamo e chiediamo da questi nostri colleghi una parola chiara: un sì o un no al governo Monti, che sarebbero entrambi dignitosi e accettabili; mentre, invece, indegno e miope è il rifugiarsi nel silenzio imbarazzato o protervo di chi crede di non poter essere più contestato e di non dover rendere conto se non alla sua cerchia più vicina. Chiediamo, dunque, ai singoli esponenti del ceto artistico e intellettuale di esprimersi sulla situazione politico-economica attuale, di fare sentire la propria voce, di dichiarare apertamente la loro posizione. Perché, dinanzi a una situazione di gravissima crisi sociale, politica ed economica come l’attuale, nessuno ha il diritto di sottrarsi con il silenzio. Non comunque coloro che vantano il valore conoscitivo, culturale e artistico universale della parola.
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Prime adesioni:
Franz Amigoni, Leopoldo Attolico, Roberto Bertoldo, Roberto Buffagni, Marcella Corsi, Salvatore Dell’Aquila, Marco Gaetani, Stefano Guglielmin, Gianfranco La Grassa, Paolo Lezziero, Giorgio Linguaglossa, Gianmario Lucini, Giuseppe Natale, Alberto Panaro, Angela Passarello, Armando Penzo, Franco Pisano, Massimo Ragnedda, Flavio Rurale, Rita Simonitto, Franco Toscani, Lucio Mayoor Tosi, Franco Tagliafierro, Augusto Vegezzi
Preciso che l’appello comparve sul cartaceo della rivista Poliscritture n. 9 gennaio 2013
“Volendo fare il critico e guardare da un altro punto di vista, l’ho dapprima osservato col cannocchiale; e vidi un’immagine fluttuante, vaga, un Pulcinella universale. Spaziato un po’ per l’universo all’uso dei giovani di nostra età, sentii il bisogno di avvicinarmi un po’ più al concreto; prima per evitare, al possibile, una severa critica della mia critica; secondo, perché convinto che il tipo e il costume di una popolazione si studia attraverso le cose, non attraverso le idee. Ma qui un intoppo, la miopia; epperò ho visto, ho svisto, ho travisto e infine ho dubitato che la troppa vicinanza con Pulcinella non mi abbia partecipato un po’ della sua natura.”
Francesco De Sanctis, L’arte, la scienza, la vita. Nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, Einaudi, Torino, 1972 p. 508