di Max Kommerell
[E’ uscito da poco per Giometti & Antonello Il poeta e l’indicibile, di Max Kommerell, a cura di Giorgio Agamben (trad. di Gino Giometti).
Max Kommerell (Münsingen, 1902 – Marburgo, 1944) è stato critico e storico della letteratura, poeta e traduttore. Ancora giovanissimo subì, come Walter Benjamin, il fascino delle dottrine pedagogiche di una figura controversa come Gustav Wyneken (Benjamin, va ricordato, scriverà a proposito della prima opera di Kommerell, Il poeta come guida nel classicismo tedesco, la vibrante recensione intitolata: Contro un capolavoro.) Dopo la maturità a 17 anni, studiò nei primi anni venti ad Heidelberg con Friedrich Gundolf e a Marburgo con Friedrich Wolters. Qui si unì, assieme all’amico e sodale Johann Anton, al circolo letterario di Stefan George, di cui divenne in certo qual modo il membro prediletto, ma con cui ruppe polemicamente nel 1930 – cosa che condusse addirittura al suicidio l’amico Anton. Nello stesso anno iniziò la sua attività di libero docente presso l’Università di Francoforte tenendo una lezione su Hofmannsthal. Successivamente insegnò all’Università di Bonn e infine, dal 1941, all’Università di Marburgo, dove tenne la cattedra di filologia germanica fino alla morte. Amico di Walter Friedrich Otto – di cui sposò in prime nozze la figlia – e Karl Reinhardt, a partire dal 1938 intraprese un vivace e profondo scambio epistolare con Martin Heidegger sulla poesia di Hölderlin, autore che va considerato probabilmente il fulcro dei suoi studi. Poetologo raffinatissimo, fra i principali del Novecento, si occupò, tra gli altri, anche di Jean Paul, Goethe, Schiller, Klopstock e Kleist. Fondamentali le sue ricerche sul tragico nel corposo saggio su Lessing e Aristotele, e i suoi studi su e traduzioni da Calderón. Si tratta di materiale ancora completamente inedito in italiano].
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Max Kommerell
Le Elegie Duinesi di Rilke
Con Rilke diviene per la prima volta chiaro quanto saldamente la lirica tedesca, nella misura in cui era mossa dall’interrogativo sull’uomo, si fosse legata all’antico modo di pensare mitico e cercasse di sopravvivere alla morte del mito per mezzo di un contegno mitico autonomo della personalità poetica. Rilke, come pensatore una delle forze più considerevoli del nostro secolo, ha posto la questione delle questioni senza rispondervi miticamente. Egli rifiuta di rendere familiari agli uomini, per mezzo di immagine e contorno, le forze superumane che sperimenta, e offre piuttosto a queste ultime, intatte nella loro spaventosità, l’esatta, irrevocabile esperienza umana, il caso terreno, altresì intatto nella sua irripetibilità.
Forse mai è stata lamentata l’inettitudine della conoscenza umana in maniera così sconcertante come in quell’ottava elegia, che in una specie di fisiognomica del volto animale attribuisce al medesimo lo sguardo nell’aperto, lo sguardo su Dio, mentre lo sguardo umano catturerebbe la vista come in una trappola, in modo che questa sarebbe sempre volta all’indietro sul simile, incatenata cioè alla forma che la morte ha progettato. Così esso vedrebbe solo morte e la sua esistenza sarebbe commiato, e non per «pienezza del cuore»[1], ma per l’incapacità di vedere qualcosa che non sia nato per la morte.
Di cosa si arricchirebbe questo poeta con i miti? Se tuttavia egli parla del non-umano, non solo di angeli (da cui tiene scrupolosamente lontano ogni barlume di rappresentabilità), ma dell’animale, di uccello e pipistrello, magari della marionetta, molto spesso però dei morti – e inoltre di eccezioni dell’umano essere che paiono significare un potere altrimenti negato all’uomo, per esempio del bimbo, degli amanti, dei girovaghi, dell’eroe, tutto ciò ha un intento: di caratterizzare l’esistenza umana, tramite modi diversi dell’avere degradanti in direzione dell’uomo, come un non-avere, fervidamente avvertito e confessato. Cioè, poiché un contenuto proprio dell’uomo non è rintracciabile, ma solo ciò che lo circonda e lo nega (nonché le poche brecce di questo suo recinto) – poiché quindi l’uomo stesso non è rintracciabile come centro affidabile del mito, vale a dire di un mondo interpretato, questi miti apparenti o simboli sono in verità accerchiamenti dell’esistenza umana, la quale, nella sua incertezza, ottiene un contorno solo in virtù del vicino.
Così potremmo paragonare queste elegie a un’immagine crittografica [Vexierbild]. In un’immagine crittografica sono disegnati i contorni di alberi, case, laghi od oggetti, come se importasse di riprodurre tutto ciò, mentre in verità l’osservatore che guardi correttamente riconoscerà, catturata nel reticolo di queste linee, la figura cercata. Le elegie parlano degli angeli e di tutto il resto così a lungo, con tale urgenza, e apparentemente riferite a ciò con tale esclusività, finché dall’insieme non risultano il rifiuto e la negazione umana, l’incertezza e l’impossibilità dell’esser-uomo, ma anche un germoglio fruttuoso e una relazione [Bezug] dischiudente.
Ogni qualvolta un poeta abbandoni il mondo interpretato, dovrà trovare nuovamente se stesso e il senso del suo poetare. Il concetto di poetare qui impiegato non è da ricercare solo nei «cantare», «lodare», «esaltare», nel «grido» [2], ma anche nell’«ascoltare» e nello «stare a guardare»[3]. La prima elegia presume dal lettore la comprensione di un nuovo concetto rilkiano, il concetto di «invocazione» [Werben][4], che poi nella settima elegia viene ripreso nel senso che il poeta, all’inizio e alla fine, assicura che la sua voce non dev’essere invocazione, ma in tutta la lunga elegia sciorina cosa sarebbe il suo canto se essa lo fosse. Ciò che però rende comprensibile questo concetto è di nuovo la relazione [Bezug] all’angelo.
Non di frequente quest’ultimo è nominato o interpellato. Se sia uno o molti, è indifferente; nemmeno è in alcun modo l’angelo proprio del poeta; è un avvertito centro di forza di quell’Altro, di quel Superumano, che, non rappresentato, viene però esperito nel modo più fattuale, ed esiste come gradino, mortalmente vicino, ancora appena accessibile a un lontanissimo, timorosissimo avvicinamento, e quindi non solo «terribile», ma anche inevitabile, poiché i morti, con cui il poeta ha a che fare con maggior familiarità, sono più del suo stesso ceppo, mentre l’esser-uomo deve essere ottenuto nel movimento verso l’altro. L’angelo è la semplice, quasi infantile risposta del poeta alla domanda per chi egli canti. Come dalla voce di qualcun altro che sta leggendo a voce alta indoviniamo l’esistenza di una persona muta e nascosta da un oggetto, poiché certo quel leggere sarà diretto a qualcuno, così la piega della voce di Rilke (solo nelle elegie, dove, determinata reattivamente nella sua immane vibrazione, tradisce l’immane destinatario – solo qui questa voce è così) ci rammenta la muta, àtona presenza dell’angelo per cui tutto questo è detto. Molto raramente egli stesso è menzionato. Ma se il poeta, come nell’elegia dei girovaghi, mentre descrive il sorriso di un acrobata che a malapena ha il tempo per sorridere, s’interrompe di colpo e raccomanda all’angelo di riporre questo riso fuggevole in un vaso di fiori – quest’appello occasionale ci rivela come in assoluto l’angelo venga presupposto anche a tutto quanto sia detto altrove. Ciò però esclude un altro pubblico assai ragguardevole, vale a dire tutta l’umanità, tedesca e non, che legge Rilke nelle grandi edizioni. O detto seriamente: forza e forma dell’espressione questa volta sono a tal punto determinate dal destinatario, che con esso nasce un peculiare linguaggio d’intesa. Solo in tal senso, non nel senso di un’intesa con gli uomini, queste elegie sono comunicazione. Tuttavia anche così, senza avere la comprensibilità adatta per noi, la voce di Rilke sa cogliere nell’intimo, e anzi, forse lo fa proprio per questo. I profeti, poiché attraverso di loro per enigmi parlava Dio, hanno pur ottenuto più ascolto che con parole umane un uomo saggio; come non potrebbe altrettanto la più modesta rinvendicazione di Rilke, il quale, non pretendendo che tramite lui parli un essere superiore, pretende solo di essere lui a parlarci? Questo forzamento della portata uditiva umana (forse anche un forzamento dell’arte stessa) di certo poi trasporterebbe l’uomo che ode nella stessa commozione, nella stessa relazione [Bezug] che rende possibile al poeta la sua assoluta originalità, la sua posizione al di fuori. Appunto un effetto della voce poetica su coloro i cui organi essa contraddice, e a patto di non essere regolata su tali organi. Per quanto questo poetare di Rilke, se sostituiamo il concetto di Dio (per avere il quale Rilke è diventato troppo cauto, troppo non cristiano) con l’angelo, si avvicini alla preghiera – pure non è in alcun modo un pregare. Per l’appunto il pregare sarebbe invocazione! Chi prega viene esaudito oppure si eleva a Dio. Questo poetare, invece, non mira a essere esaudito, né a venire ascoltato nel senso in cui viene ascoltato un grido: così che qualcuno più potente si abbassi per la compassione, e neanche nel senso in cui viene ascoltato un richiamo evocatore: così che il Superumano s’immetta nel circolo dell’umana esperienza – tutto ciò sarebbe invocazione; piuttosto l’agire del poeta corrisponde alla trasmissione di un’unica, insostituibile notizia a qualcuno che sta sì più in alto, ma non dispone tuttavia di questo modo, di questi àmbiti dell’esperienza. E qui si tratta ora di comprendere due cose: in primo luogo la sfumatura del concetto «terra», sfumatura che in Rilke esso assume in relazione agli angeli, e poi una particolare coscienza temporale, una coscienza del divenire e della svolta che (in una ripresa assai lontana degli inni hölderliniani) anche questo poeta acquista.
In modo massimamente chiaro, in mezzo a un dettato profondamente intriso di enigma, è espresso nella nona elegia, di fronte a un sì svariato non-avere, l’unico avere dell’uomo in cui lo stesso possa affermarsi contro l’angelo: «Forse noi siamo qui per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra… Terra, non è questo che tu vuoi, invisibile risorgere in noi?»[5]. Gli angeli, infatti, certo in passato non sono stati uomini, nell’eterno esser-altro e esser-oltre è loro precluso – precluso dalla grandezza – il particolare destino che è contenuto nei fatti concreti e caduchi della sfera terrena, nella sua spazialità e figuralità, nel suo sentimento dell’esistenza e nel suo odore del suolo, e senza che missione e incarico della terra siano decifrabili quanto al contenuto, tuttavia al sentimento del poeta è garantito che la terra è un fatto che pesa del peso più considerevole sulla bilancia divina. Qui in modo particolare esser poeta significa stare a sentire e stare a guardare, fino al più intimo indovinare ed esperire le cose, le situazioni, i sentimenti. Ora, alla terra è negato di avere in sé la propria eternità; che si oda di lei, è affidato all’uomo. Ma il poeta, che unisce la sensibilità degli amanti col vigore espressivo a lui proprio, può porgere all’angelo l’uno o l’altra di queste cose affinché vi assapori la terra. Dunque il poeta non deve provvedere l’angelo di ciò di cui l’angelo stesso è smisuratamente più ricco – degli slanci di cui egli, nello sforzo estremo del suo spirito, sarebbe in potere, bensì di ciò che lui solo ha, per così dire un erbario dell’escursione o dell’esilio sul luogo umano terra; adempiendo così la preghiera della terra: «Terra, tu cara, accetto»[6]. Certo questo dire del dicibile, per quanto sia modesto nell’escludere l’indicibile, tuttavia deve aver tramutato in pura interiorità la notizia che dà, poiché solo in tale forma la terra può venire trattenuta nel non più terreno. Tutto ciò è il puro anticoncetto dell’autoperpetuazione mitica dell’uomo.
Ma questo modesto trasformare tutto l’esperibile terreno nel sentimento comunicato senza forma, riflette in pari tempo lo stile dell’epoca alla quale Rilke aderisce apertamente, e in cui ogni fidata tradizione, ogni ben fondato ambiente, divengono così unici e deliziosi perché per l’uomo vanno perduti per sempre: «In nessun dove, amata, ci sarà mai mondo se non in noi»[7]. In che forma gli si è rivelato lo spirito del tempo, Rilke lo dichiara nella settima elegia. La nuova epoca sta nel segno dell’economia, come la vecchia, religiosa, nel segno della dissipazione. L’uomo del passato in ogni modo invocava e poteva invocare. Egli vedeva e formava i suoi dèi, costruiva templi, s’innalzava, nei duomi, in prossimità dell’angelo, sperimentava il superiore nell’immagine, gli orbitava attorno e lo trascinava a sé, quasi come fosse stato angelo, quasi come se la sua forza nel dissipamento non gli dileguasse.
In sostanza è l’uomo dei miti; all’uomo tecnico, che va accomiatandosi dalle cose animate, non resta ormai che il trasferimento di esse nella memoria intima, che, se non per altro, già per questo sarebbe consegnata al regno dei morti come al suo terreno propriamente nutritore. Il culto degli avi, così come Rilke lo elabora, non è reso da qualcuno che a sua volta vuole essere avo, ma da uno che considera irrevocabile il commiato della purezza dei vincoli di sangue.
Dunque questi angeli rilkiani non sono né un atavismo poetico, né un nuovo vangelo, ma, in quanto destinatari delle elegie, rappresentano ciò verso cui la vita è un germoglio, ciò verso dove, secondo l’irrefutabile esperienza interiore di Rilke, viene trascorsa la vita – sono angeli a condizione che l’esser-uomo neghi se stesso e divenga perciò via d’uscita; via d’uscita che per il poeta è tanto indubitabile quanto, d’altra parte, egli pone in questione l’uomo. Ciò che collega le elegie col Malte Laurids Brigge è lo stare a guardare: affatto inaspettatamente nella quarta elegia viene rinnovato l’antico paragone della vita con un teatro, e allo stesso tempo viene rigettato il teatro recitato dagli uomini a favore del teatro delle marionette. Cos’è qui palcoscenico degli uomini e cosa palcoscenico delle marionette? Commiato mostra lo scenario, in qualsiasi momento si sia alzato il sipario del cuore, commiato in senso rilkiano: un occhio rivolto solo al disparente, un esser-troppo-piccoli per il proprio cuore, un non-poter-resistere nel vero sentimento dell’esistenza. Per questo il ruolo è metafora: l’attore, che calca come ballerino la scena-giardino tremante sotto di lui, non è che un travestimento ed entra in casa passando per la cucina, è il signor tal dei tali dai sentimenti ispirati tutt’altro che alla danza – e con ciò esempio della nullità, giacché l’uomo non è nullo perché è cattivo o debole o caduco, ma perché non è ciò che è – perché in verità non vive affatto il contenuto vero e proprio della sua esistenza, oppure vi rinuncia dopo un tentativo di pochi minuti. La marionetta è l’uomo di Rilke: un nulla in se stesso, un come-se, un atteggiamento teso a qualcosa, per cui così infinitamente vera che il suo nulla esige una parte integrante, anzi, secondo il concetto, la possiede; bisogna soltanto osservare rettamente. Non che l’angelo reciti con la marionetta e il poeta stia a guardare, ma il poeta sta a guardare così ostinatamente, così impavidamente, sebbene la recita si perda nell’ombra della morte e il suo sguardo insistente lo isoli – egli scruta così a lungo, finché l’insistenza del suo osservare carpisce la vista complementare: l’angelo che issa per il filo la marionetta. Gli angeli non sono più di quello che è intimamente garantito in tale osservare: un’emanazione di grosse ed estranee sorgenti di forza, senza la cui presenza per l’uomo il nulla umano non potrebbe affatto venire avvertito.
Sorge così, attraverso le delimitazione degli angeli, dei bambini, dei morti, degli animali, degli amanti, dei girovaghi e degli eroi, un contorno negativo dell’esser-uomo, in cui però allo stesso tempo si mostra l’autosuperamento dello stesso: non utopia, non futuro, ma intimità del vivere qui e ora. Proprio il fatto che gli ambiti di vicinato non vengano chiariti, che nessun mito porti a superare l’ignoranza e il brivido dinanzi a essi, costituisce l’umiltà e la veracità di queste elegie. Il massimo che l’uomo in esilio, l’uomo moderno, l’uomo privo di madre possa attendersi dall’oracolo di questo suo poeta, è il sentimento di una traccia. Egli non esperisce un dio, ma in compenso esperisce se stesso, il perduto, nei rapporti di vicinato e nella connessione: Rilke è il poeta della relazione [Bezug].
Il senso di queste interpretazioni poteva solo essere di mostrare qualcosa com’è, ma non di determinare il nostro atteggiamento a riguardo. Ciò cui noi miriamo con le poesie, è già un fraintendimento – in noi accade qualcosa: questo è l’essenziale e non può essere fissato. Ci fossimo dedicati esclusivamente a una di queste impressioni, senza ammetterne un’altra dappresso, saremmo in balia di una possente individualità. Ma, per contro, il parallelismo e la successione, la molteplicità di risposte creative in luogo di un chiarimento orientatore, potrebbero sgomentare chi si avvicini a queste poesie con un’aspettazione religiosa o filosofica. Infatti chi sta cercando con venerazione può forse venire scoraggiato dalla molteplicità delle manifestazioni religiose o dei sistemi filosofici. Ma se questo ci accade per la poesia, allora non l’abbiamo concepita in quanto poesia, bensì, senza badare al suo proprio, abbiamo cercato qualcos’altro. Poiché in verità: quanti poeti ci furono e ci saranno, altrettante esperienze particolari dell’esistenza e altrettante le particolari espressioni di essa. Sebbene dalla successione di queste poesie si lasci desumere qualcosa di storico-evolutivo e non ci sia bisogno di un gran talento combinatorio per integrare l’uno di questi poeti con l’altro, tuttavia non va stabilita alcuna concordanza a buon mercato, né le loro posizioni possono venire poste in edificante collegamento per mezzo di una linea storico-spirituale. Al contrario: proprio la varietà qui mostrata ci preserva da un rapporto errato con essi. Se il comune di queste poesie si è mostrato nel fatto che esse estesero fino al limite più estremo il concetto e il mandato del poeta, pure sia sottolineato che, e in quale misura, i poeti rimasero poeti: non vincolando la nostra coscienza con una verità, non pretendendo, tramite un’indicazione di vita, imitazione da parte nostra. Non la domanda e non la risposta sono poetiche, ma la rinuncia a ogni aiuto corrente, il semplice sbigottimento, la cui confessione è quel che c’è di più vero, e il cui essere è il fondamento nascosto di noi stessi. Quale angusto ritaglio della vita viviamo noi, non solo per via dello spazio esiguo e del tempo limitato dalla nostra vita, e per via di quanto, della nostra professione e di tutta la nostra civiltà, è suddivisione e derivazione – ma ancor più per via della forza limitata della nostra comprensione e del nostro sentimento, per via di un’organizzazione più rozza che ci protegge rendendoci insensibili. Esistere nel senso più semplice – come se, contemporaneamente, tutto ci capitasse per la prima volta, ci sorprendesse come un miracolo, e nondimeno fossimo con tutto straordinariamente familiari; abbracciando nel sentimento noi stessi, il mondo e il destino – esistere in questo senso semplicissimo, questo forse cerchiamo, ma allo stesso tempo la via d’accesso al vivere genuino ci è preclusa, irretiti e isolati come siamo. Tutto ciò è cosa del poeta; egli lo fa, ma in forza dell’effetto poetico lo fa in modo che per mezzo di lui e con lui lo facciamo noi, e sebbene noi distinguiamo poesia e vita, e per nessuna delle nostre attività abbiamo bisogno del poeta, pure resta la domanda se, nel senso più proprio, senza di lui sapremmo vivere.
Note
[1] …aus der Fülle des Herzens,…, cfr. Die Sechste Elegie: «Wenigen steigt so stark der Andrang des Handelns, / daß sie schon anstehn und glühn in der Fülle des herzens,..» (N.d.T.).
[2] «Singen, preisen, rühmen, Schrei».
[3] «Hören, Zuschauen».
[4] Il termine Werbung, con cui inizia la settima elegia, è ricco di sfumature e difficile da rendere in italiano con un’unica parola. Intenderlo come «richiesta», «domanda», «preghiera» è forse riduttivo. Esso indica un’aspirazione e l’attività tesa a realizzarla, e la sua parentela col Wirbel, il vortice, fa pensare all’espressione italiana «darsi attorno». Comunque quest’attività, anche tenendo conto dell’uso attuale più comune della parola Werbung (quello nel senso di «pubblicità»!), può presentarsi anche in forme meno dirette o meno articolate della richiesta. Può essere un corteggiamento, può essere un grido, può essere un richiamo (N.d.T.).
[5] «Sind wir vielleicht hier um zu sagen: Haus, / Brück, Brunnen, Tor, Krug, Obstbaum, Fenster… Erde, ist es nicht dies, was du willst: unsichtbar / in uns erstehn?», Die Neunte Elegie.
[6] «Erde, du liebe, ich will.», ibidem.
[7] «Nirgends, Geliebte, wird Welt sein als innen», Die Siebente Elegie.
da Max Kommerell, Il poeta e lʼindicibile, a cura di Giorgio Agamben, traduzione di Gino Giometti (Giometti&Antonello, 2020)
[Immagine: Rainer Maria Rilke].