del Gruppo DiSLL (Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova)
Una prima versione (minor) del presente scritto è stata diffusa online il 2 luglio 2020 come documento pubblico del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari (identificatore della risorsa: https://www.disll.unipd.it/sites/disll.unipd.it/files/DiSLL_DAD_protocollato.pdf; visto il 12/09/2020). Di quel testo “ufficiale”, che rivolgeva particolare attenzione alla situazione di Padova inserendosi nella discussione interna all’ateneo, si presenta qui di seguito una nuova redazione rimeditata ed estesa, messa a punto con un taglio più generale da un gruppo di colleghi del DiSLL per portare un contributo ulteriore al delicatissimo dibattito in corso sulla didattica a distanza e sul futuro dell’insegnamento universitario.
Nel marzo scorso, l’arrivo di SARS-CoV-2 ci ha colti alla sprovvista, ma non ci ha trovati inerti né arrendevoli. L’università italiana ha salvato il secondo semestre dell’anno accademico ’19/20 mediante il ricorso a procedimenti e canali informatici che hanno permesso di surrogare l’insegnamento in presenza, mantenendo vivo il senso di comunità attraverso un contatto – inevitabilmente dilavato dal medium, ma assiduo e talora sorprendentemente “caldo” – tra docenti e corpo studentesco. In una fase di necessario ma penoso confinamento – che ha rinchiuso i cittadini nelle loro abitazioni, inibendo le forme di prossimità e vicinanza fisica su cui si fondano le relazioni interpersonali nelle nostre società e, più in generale, tra i rappresentanti della nostra specie –, i video-collegamenti della didattica a distanza non soltanto hanno offerto ai discenti un punto d’ancoraggio e un segno di continuità nello svolgimento del lavoro universitario, ma hanno preservato la percezione di una collettività dialogante, a dispetto del distanziamento interpersonale e della polverizzazione atomistica dei destini individuali. Grazie alle risorse del Web e alle applicazioni di videoconferenza, i professori hanno potuto insegnare e gli studenti sono stati messi nelle condizioni di fare gli studenti, sia pure in modalità anchilosate e tra non poche difficoltà. Tanti uomini e tante donne dispersi nella solitudine delle loro case si sono radunati in sale virtuali che hanno tenuto in piedi l’istituzione accademica, assicurando la sopravvivenza delle attività formative. Nei giorni più bui della pandemia, quando i nostri corsi si dematerializzavano e prendevano posto tra i tanti simulacri della Rete, mentre le immaginette tremule e sgranate dei nostri mezzibusti si rifrangevano su decine/centinaia di schermi e, di rimando, i mille volti dei nostri giovani uditori si incasellavano come fototessere animate nel panottico di un “layout a griglia”, ci siamo volonterosamente imbarcati sulle zattere digitali come su canotti di salvataggio, anche se abbiamo reagito con fastidio alle poetiche della “resilienza” e della plasticità mentale, così come alle stucchevoli cantilene sulla natura inclusiva e democratica delle relazioni vissute in linea, all’interno dei consorzi digitali.
Moltissimi docenti, spesso proprio quelli più reattivi e smaliziati nel ricorso alle tecniche digitali, si sono sì avvalsi del supporto informatico facendone un mezzo prezioso, ma hanno avvertito parimenti una frustrante sensazione di deminutio e di sottrazione, di restringimento prospettico e di depotenziamento complessivo della performance didattica. La migrazione obbligata verso supporti informatici, avvenuta quasi dall’oggi al domani grazie a uno sforzo concorde e strutturale di tutte le componenti del mondo accademico, va apprezzata come una soluzione efficace entro un contesto forzato, ovvero come una brillante reazione alle necessità e alle urgenze scorsoie di una congiuntura eccezionale. Ma questo travaso coatto al digitale non può e non dev’essere accolto come una nuova normalità né tantomeno salutato come un felice arricchimento o addirittura come un miglioramento di standard, secondo una retorica dell’occasione e della risposta adattiva[1], che attribuisce alle evenienze drammatiche e alle tragedie della storia la virtù di velocizzare il progresso e di favorire grandi balzi in avanti nello sviluppo delle civiltà umane.
Varie voci si sono levate per esortarci a tramutare la necessità in opportunità, facendo dello choc pandemico una chance di svecchiamento e un laboratorio di crescita accelerata, dove sperimentare progetti di ammodernamento e innovazione. Sono, queste, parole d’ordine ricorrenti nel discorso pubblico diffuso e nelle prese di posizione degli “entusiasti digitali”. Sin quasi dal principio della crisi sanitaria, i quotidiani a tiratura nazionale e le agenzie radiotelevisive hanno ospitato pagine e servizi di tenore sopracuto sulle magnifiche sorti della dad ed entusiastiche eulogie sul futuro delle università telematiche. D’altronde, simili punti di vista s’inquadrano entro la cornice di un’ideologia consolatoria, che si può compendiare nella seguente tiritera: «quando le ondate di Covid-19 saranno passate, ci ritroveremo potenziati da questa tragica esperienza di mobilitazione; saremo più forti e migliori di come eravamo». Questo asserto non è soltanto espressione di una (pur comprensibile) esigenza di ottimismo proiettivo, ma costella un cliché iniziatico di diffusione universale, secondo il quale ogni grande sofferenza dev’essere vittoriosamente trasfigurata in una prova di passaggio, che apre a un diverso modo d’essere o a uno stadio ulteriore. Di qui l’auspicio o il sentimento che da questa catastrofe rinasceremo rinnovati ed elevati, con menti finalmente aperte e flessibili, spinte a una meravigliosa adattabilità dallo stato di eccezione e dalla lotta darwiniana per superare le calamità. Nella fattispecie, gli info-euforici e i settatori del Digital Turn prefigurano già uno scenario in cui saremo gioiosamente immersi nel neo-mondo digitale delle relazioni immateriali, capaci di produrre a getto continuo splendidi pensieri smart, già “formattati” per essere veicolati dal tappeto volante della banda larga e agiti con bella liquidità performativa sui display dei dispositivi portatili. I sacerdoti del rinnovamento informatico possono fare a meno dell’argomentazione, perché hanno dalla loro il Soft Power enormemente attrattivo dell’innovazione tecnologica. Per tanti versi, il loro fanatismo ricorda altre sciamannate manifestazioni del mono-pensiero globale, dalla cancel culture dilagante (stolida riedizione ideologica della damnatio alla morte civile) alle manifestazioni oltranzistiche del bon ton anti-discriminatorio e della correttezza politica, che ottundono l’intelligenza critica e cancellano la biodiversità intellettuale.
Va da sé che qui non si tratta di contrastare pregiudizialmente l’impiego a fini didattici della Rete e dei mezzi elettronici, né tanto meno di mostrarsi ostili a qualsiasi proposta di cambiamento per pigrizia mentale o gretto passatismo, bensì di scongiurare i pericoli insiti nella conversione telematica dei nostri compiti di docenza, demistificando inoltre l’idea che le tecnologie rappresentino l’Avvenire e siano di per sé stesse portatrici di valore e di fermenti novatori (non è infrequente, infatti, che i lustrini del formato elettronico servano solo a rivestire contenuti obsoleti in una forma tecnologicamente dernier cri o a dare una riverniciatura accattivante a metodi superati). Si tratta, insomma, di non confondere l’eccezionalità con la norma, di non contrabbandare un’opzione congiunturale di supplenza con un nuovo paradigma, di non scambiare una risposta emergenziale con un modello vincente e ancor più di non farsi sedurre dagli specchietti e dai vetrini della Wonderland informatica («digitale/digitare è bello!»). Tutti pensiamo che si debba far tesoro di questi mesi di lezioni in linea, purché non si tratti del tesoro farlocco e attossicato della teledidattica integrale, ossia del trasloco di tutte le nostre pratiche di insegnamento su piattaforme elettroniche.
Se si considera l’involuzione burocratico-affaristica del sistema universitario mondiale negli ultimi venti/trent’anni, si può facilmente prevedere come una svolta digitale di vaste proporzioni possa condurre allo smantellamento dell’università pubblica e al suo rimpiazzo con due percorsi di formazione non comunicanti e segnati da un’incolmabile escursione gerarchica e qualitativa: (1) quello massificato e a basso costo di futuribili mega-atenei online, chiamati a “erogare” un apprendimento in remoto a moltitudini di iscritti, video-collegati per il tramite di apparecchi telematici dai più diversi angoli del paese, spesso autoesiliati nei cubicoli angusti delle loro camerette; (2) quello elitario delle scuole superiori di alta qualificazione, basato su piccoli numeri, sull’insegnamento de visu e su attività di tipo seminariale valorizzate dal dialogo coi colleghi e dalla presenza di supervisori pronti ad offrire un’interlocuzione costante e un sicuro orientamento. Un progetto siffatto, ispirato a principi di aziendalismo neoliberale, non dispiacerebbe a quelle forze finanziarie e tecnocratiche che, vedendo nell’università pubblica (e soprattutto nei suoi settori umanistici) soltanto una voragine mangiasoldi, ritengono di poter tagliare le spese sostituendo all’elefantiaca e inutile corporazione accademica un “agile” quadro di comunicatori sottopagati (contrattisti, assegnisti, stagisti, ecc.), capaci di produrre accattivanti clip didattiche e di esaminare migliaia di studenti con efficienti test a risposta chiusa. Inutile aggiungere che una trasformazione di tal genere, per tanti versi già in corso, ridurrebbe l’università a un’azienda dispensatrice di servizi didattici per studenti-consumatori, ovvero per clienti/acquirenti di contenuti culturali debitamente confezionati e vendibili via Web[2]. Una simile adulterazione del mondo accademico rappresenterebbe la recisa negazione dell’idea di università come bene comune e come luogo di educazione democratica.
Tutelare e promuovere il diritto allo studio non vuol dire raggiungere gli studenti nelle loro case, trasferendo nozioni o rilasciando in linea pacchetti di lezioni precotte: significa invece portare gli studenti all’università, nei luoghi concreti della ricerca e della formazione scientifica, dove il desiderio e il piacere della conoscenza trovano realizzazione nel crogiolo delle relazioni umane, entro spazi organizzati per lo sviluppo del sapere critico e fertilizzati dalla compresenza e dalla coabitazione di studenti e professori che fanno dialogare le loro intelligenze e le loro visioni delle cose, esercitandosi nel conflitto delle interpretazioni. Lungi dal dismettere le nostre classi fisiche, dobbiamo riempirle di studenti frequentanti e residenti, aiutandoli con borse, assegni, riduzioni delle tasse d’iscrizione e altri strumenti di sostegno finanziario. Dobbiamo, insomma, popolare i banchi di giovani partecipi e dialoganti, non propinare unità didattiche e lezioni meramente trasmissive per mezzo di dispositivi telematici, perché l’università «è un’aula e non un video»[3], ossia una comunità di persone che abitano e condividono uno spazio fisico per mettervi a confronto voci e corpi, pensieri e modelli del sapere.
Una riforma a due marce – con collegi superiori e centri di alta formazione (pochi e per pochi) contrapposti ad atenei terziarizzati di massa – contrasta con tutto quanto amiamo delle nostre università statali, che perseguono un ideale di affinamento culturale aperto e pluralista, fondato sulla docenza d’aula e sull’insegnamento dal vivo, con l’ambizione di offrire a tutti – non soltanto ai privilegiati e agli happy few delle scuole di eccellenza – un percorso di formazione che non si restringa all’assimilazione inerziale di unità didattiche omogeneizzate e predigerite, ma sia continua occasione di confronto, semenzaio di riflessioni condivise e officina di pensiero critico. Un’università così concepita, che ha i suoi principi costitutivi nelle interazioni “fisiche” di comunità e nella vivacità intellettuale della vita di campus, non soltanto rappresenta una premessa di uguaglianza sociale e una garanzia di autentica pedagogia democratica, ma cresce laureati di alto profilo e di grande preparazione. Le carriere di moltissimi giovani formati in Italia presso istituti di ricerca stranieri e i successi dei nostri dottori di ricerca nei bandi competitivi europei e mondiali dimostrano sì l’incapacità del nostro paese di trattenere i talenti, ma sono anche la riprova della qualità educativa espressa dai nostri atenei, anche nella competizione con le più celebrate sedi internazionali.
Certo, esistono modelli evoluti e protocolli d’insegnamento a distanza degni del massimo interesse, ma si tratta di pratiche formative che prevedono basse demografie studentesche, classi ristrette, assiduità di discussioni online, circolazione continua di materiali di lavoro, nonché la presenza fisica alternata alla frequenza da remoto; in vari atenei i corsi di lingue straniere, di traduzione e di interpretariato già adottano il blended learning, che ibrida e integra l’insegnamento Live con discussioni sui social network, condivisione di documenti su piattaforme come Moodle, tutorials, study networks, Virtual Exchange (https://europa.eu/youth/erasmusvirtual). Per contro, la modalità didattica d’emergenza che abbiamo esperito e praticato con enormi sforzi e alterne fortune nel secondo semestre ’19/20 è rivolta a grandi (a volte grandissime) platee e riduce al minimo la possibilità dello studente di essere parte attiva del processo di apprendimento. Lo sviluppo degli strumenti telematici e delle dotazioni digitali degli atenei rimane dunque un obiettivo importante, ma dev’essere pensato come un complemento delle risorse didattiche e di ricerca tradizionali. La Rete e le forme di apprendimento tramite supporti digitali devono configurarsi come prezioso ausilio e come rifinitura, non come sostituzione delle attività svolte in presenza.
Ogni volta che sperimentiamo modalità di seminario o d’insegnamento in videoconferenza, avvertiamo quel senso di mancanza di cui ha scritto benissimo Franco Tomasi in un suo pezzo di testimonianza e messa a punto[4]. Assenza di scambi e di condivisione emozionale, mancanza di vita comunitaria fondata sull’esserci e sulla compresenza, carenza di fisicità, senso di galleggiamento e collasso della significatività dei deittici (dove mi trovo? dove sono “realmente” allogate le figurette che popolano le caselle del mio monitor? sono davvero io quel pallido lemure che appare a tutto schermo? cosa sono e dove sono questo libro, questo tavolo?). E a queste deprivazioni si accompagna un senso disforico di plastificazione e di artificio, di vita simulata e velata di diaframmi. Sicché, rubando a Tomasi la metafora portante del suo articolo, la video-lezione potrà anche rivelarsi in questo frangente una comoda risorsa, ma rimane un succedaneo, come l’ital-caffè di cicoria durante la guerra o all’epoca delle “inique sanzioni”: «per favore, riconosciamo che il ‘surrogato’ non è caffè, non ne ha il sapore e l’aroma, gli assomiglia, magari può anche far bene a chi abusa di caffeina, ma è una cosa diversa»[5].
L’università si costituisce, sin dal suo fondamento, come una comunità di persone, un insieme di individui che non solo si impegna a insegnare e ad apprendere, a sviluppare insieme una conoscenza multiprospettica e libera, ma che convintamente spartisce spazi, esperienze e narrazioni. L’aula reale è certamente un luogo privilegiato di incontro, ma non è il solo, perché accanto a una dimensione istituzionale dell’università ne esiste una informale, che permette a studenti e docenti di incrociarsi e dialogare, in nome di un senso di appartenenza collettiva. La dimensione virtuale crea l’illusione di comunità inclusiva, mentre in realtà rappresenta spesso un appannamento e un’estenuazione dell’esperienza di apprendimento. Se il virtuale sembra poter venir incontro alla necessità di acquisire uno stock di crediti formativi, un bottino contabilizzabile di conoscenze, di fatto ostacola la discesa e l’applicazione di quelle conoscenze in un ambiente fertile, di scambio concreto, in cui il sapere è anche e soprattutto un modo agito di leggere il reale, di accettarne la complessità che nasce dalle verifiche fattive e quotidiane del confronto critico in un ambiente di franca discussione. La carriera istituzionale, scandita dall’assimilazione delle discipline e dal superamento degli esami, rimane centrale nel processo educativo, ma nella formazione di un giovane ricercatore o di un futuro insegnante sono altrettanto cruciali gl’incontri in corridoio, le discussioni animate nei cortili e nei vestiboli, gli scambi verbali tra una lezione e l’altra, gl’indugi e i vagabondaggi nelle biblioteche a scaffale aperto, la contiguità ambientale e gl’interscambi continui all’interno dei dipartimenti. Di più. La dimensione internazionale, che gli atenei si sforzano di favorire, acquista un vero e profondo significato quando diventa esperienza reale e fisica, come ben testimonia la pluriennale esperienza degli scambi Erasmus, probabilmente uno dei più solidi contributi che il mondo universitario ha saputo dare in questi anni in vista della costruzione di una comunità europea davvero collaborativa e condivisa. I programmi di mobilità internazionale ci hanno arricchiti facendo dialogare giovani di diversi paesi nelle stesse aule, con una comunicazione e compartecipazione di esperienze che sono pensabili solo nella porosità di uno spazio universitario europeo unito non dai fili immateriali del Web, ma da una fittissima testura di viaggi, soggiorni e vissuti.
Per un adulto sano della nostra specie l’esperienza in presenza è sempre più appagante di quella a distanza, cosicché una manifestazione di piazza partecipata e corale risulterà infinitamente più coinvolgente di qualunque iniziativa o azione collettiva messa in atto nel teatrino fasullo (anche se influentissimo) delle reti sociali. Del resto, durante la primavera 2020, evidenti e chiari sono stati i giudizi e le impressioni degli studenti – la componente più numerosa della comunità universitaria – nei confronti delle modalità didattiche d’emergenza (sincrone o asincrone): l’aspirazione dei più era quella di poter tornare a un’università viva e dal vivo, in cui ognuno può mettere a frutto sé stesso. Quando sarà rientrato l’allarme pandemico, chi vorrà rimpiangere il domestico ascolto solitario delle lezioni da remoto?
Chiunque abbia insegnato sa che l’università è un luogo di dialogo in presenza e che l’aula è l’habitat ideale del docente, il quale siede di fronte (nella lezione ex cathedra) o in mezzo (nel seminario) ai suoi studenti, affidando l’efficacia della prestazione formativa e dell’azione didattica a un assieme complesso di segnali fisici, gestuali, attorici, posturali che concorrono alla produzione del senso e all’efficacia dell’azione didattica, anche col ricorso alla mozione degli affetti. I corpi dei docenti e dei discenti sono coinvolti e implicati sensorialmente in un nesso di rapporti che assegna un ruolo centrale al gioco degli sguardi, alla mimica, alle sottolineature espressive. Questa dimensione “incarnata” dell’insegnamento, con la sua drammatizzazione e la sua teatralità sociale, si dà nella compresenza di molti negli spazi ristretti e concentrati dell’aula[6]. Tenere un corso al cospetto di un uditorio fisicamente assiepato sui gradoni di un anfiteatro o sulle poltroncine di una saletta seminariale significa anche atteggiare il proprio corpo “sulla scena” e nella relazione con gli altri corpi, camminare tra i banchi per rompere una paratia d’imbarazzo o per materializzare l’idea osmotica di vivere-con e di pensare assieme, cercando negli occhi degli alunni una conferma o un conforto, inventando lì per lì un modo intimista e complice di abbracciare lo spazio, spalancando il silenzio di una pausa per stimolare quesiti o risposte critiche dal pubblico. E poi, finita la nostra cicalata, essere avvicinati da uno studente che ci chiede delucidazioni o da una studentessa sveglissima che sollecita bibliografia supplementare o ci fa notare un passaggio contraddittorio o poco limpido del discorso che abbiamo appena pronunciato. E allora si forma un capannello e dal piccolo crocchio promana una tensione speciale e forse germogliano vocazioni e passioni intellettuali, spunti di tesi ancora in nuce e collaborazioni scientifiche venture. Fare ed essere università vuol dire anzitutto portare visioni diverse dentro passioni comuni. Solo così la didattica esce dalla routine per assumere una valenza conoscitiva e trasformativa, che si alimenta dell’interazione tra i suoi attori.
La didattica emergenziale in videoconferenza agisce sulle due dimensioni fondamentali della percezione umana, lo spazio e il tempo, con conseguenze significative sul processo educativo. Per quanto riguarda lo spazio, esse sono evidenti nella soppressione degli elementi della relazione didattica legati alla condivisione del medesimo ambiente, alla comunicazione extraverbale e alla sua reciprocità: per quanto sofisticati, gli strumenti telematici non possono restituire la circolarità della dinamica insegnamento/apprendimento propria dell’aula e della presenza, che viene così costretta a una enunciazione sostanzialmente monodirezionale e rivolta comunque a un destinatario plurale e tendenzialmente indifferenziato.
Proprio la questione dei corpi merita peraltro una riflessione ulteriore: SARS-CoV-2 ha infatti restituito centralità all’essenza biologica e dunque strutturalmente “esposta” dell’umano, troppo spesso rimossa, provocando condizionamenti alla mobilità spaziale e alla promiscuità dei corpi inimmaginabili fino a qualche mese fa. Di fronte a questa improvvisa paralisi, la comprensibile (e certo lodevole) risposta delle nostre società, e anche del sistema formativo, è stata quella di aggirare per quanto possibile l’ostacolo fisico, trasferendo tutte le attività che ne erano suscettibili “a distanza”, online. Nell’ambito educativo, tuttavia, questa dinamica ha dei profili particolarmente delicati, in quanto rischia di innescare un meccanismo psicologico di derealizzazione, analogo a quello che avviene sulle reti sociali, infondendo, anche inconsciamente, l’abitudine – istituzionalmente autorizzata – al travalicamento sistematico del limite costituito dalla resistenza del reale (nella sua dimensione materiale e corporea) proprio in un contesto, come quello formativo, che ha fra i suoi obiettivi anche la verifica delle realtà e la presa di coscienza del limite, in varie forme: dal rispetto per l’alterità (anche testuale), alle cosiddette “competenze di cittadinanza” (abitudine allo studio, senso del dovere, responsabilità civica). Questo processo di evaporazione nell’immaterialità e nel trascendimento virtuale delle esperienze sembra assorbirci in un flusso plurale e multiforme di esistenze globalmente interconnesse, ma procura di fatto una sorta di sterilizzazione che estranea il soggetto sia dal proprio mondo interiore sia dal sistema dei legami relazionali. Nell’età della digitalizzazione di massa e dell’iper-connessione sembrano caduti in desuetudine i rapporti umani fondati sull’ingombro fisico dei corpi, sul loro assembrarsi nello stretto e ancor più sull’abbraccio, sullo smanacciare affabile e su altri gesti di contatto improntati a cordiale socievolezza ed estroversione affettuosa. Questo collasso dei rapporti materiali – corporei e presenziali –, già incentivato dall’asepsi digitale delle reti sociali, è stato condotto alle estreme conseguenze dalle misure di contrasto, contenimento e prevenzione del contagio. Lo ha scritto con la sua abituale, rabdomantica perspicuità di analista sociale Michel Houellebecq[7]:
Da qualche anno ormai l’insieme delle evoluzioni tecnologiche, che siano minori (video on demand, pagamento senza contatto) o maggiori (il telelavoro, gli acquisti su Internet, i social media), hanno avuto per conseguenza principale (principale obiettivo?) quella di diminuire i contatti materiali, e soprattutto umani. L’epidemia di coronavirus offre una magnifica ragion d’essere a questa tendenza di fondo: una certa obsolescenza che sembra colpire le relazioni umane.
Nel quadro di un discorso sulla didattica d’aula o a distanza un punto capitale resta quello della vicinanza, della compresenza somatica, del gioco di faccia, del fronteggiarsi (o dello sfuggirsi) degli sguardi. Per l’intera durata della sua storia, saldando eredità naturali e modellamenti culturali, Homo sapiens ha elaborato meccanismi cognitivi e schemi di sociabilità basati sul posizionamento delle persone nello spazio, sul senso solidale delle aggregazioni, sulla mimica e sulla fisicità dei rapporti, sulla comunicatività delle micro-espressioni e sull’efficacia performativa dei corpi entro un ambiente concreto, materiale e condiviso, dominato o subito con tutti i sensi, anche negli odori e nelle sensazioni tattili. Io, tu, gli altri: il processo di civilizzazione e lo smussamento delle forme più manesche e risolutamente corporee delle relazioni sociali hanno introdotto nuovi codici nel face to face, ma non hanno cancellato la dimensione fisica nei modi d’interlocuzione e nelle strategie prossemiche di donne e uomini. La comunicazione umana è un fenomeno oltremodo complesso, che eccede largamente il piano dell’espressione verbale e della trasmissione linguistica, interessando diversi livelli e ambiti semiotici. Chi pensi di sostituire l’affollato seminario in un’aula gremita, la convivialità di una tavolata, la danza di gruppo e il cerchio degli amici attorno al fuoco con un pallido retablo di ologrammi disposti nelle cellette ad alveare di un monitor, dovrebbe riflettere sugli aspetti alienanti di queste cyber-esperienze. Contraddire bruscamente il percorso evolutivo plurimillenario della nostra specie (per innamoramento tecnologico, per fregola di novità, per economia di scala o anche per meno confessabili motivazioni) non solo ci priva di momenti qualificanti di esperienza autenticamente umana, ma rischia di renderci molto infelici.
Quanto alla dimensione del tempo, la riduzione della durata delle lezioni, mossa da comprensibili preoccupazioni tanto tecnologiche e sociali (tenuta della rete e sua accessibilità) quanto di salute fisica e psicologica (riduzione del carico complessivo di permanenza davanti allo schermo, anche in rapporto alle soglie di attenzione), e formalizzata da numerosi enti in esplicite linee guida, ha inevitabilmente comportato, oltre a un certo grado di liofilizzazione dei contenuti, una forte concentrazione nelle retoriche e negli stili espositivi. Tale raddensamento si è accompagnato a modalità serrate di esposizione, aumento dell’ansia, rinuncia a molte delle forme argomentative proprie dell’oralità; soprattutto nelle modalità asincrone, che prevedono la registrazione di lezioni scaricabili dagli studenti, si è verificata la compressione (e spesso il taglio in sede di postproduzione e montaggio) di quei vuoti e di quelle “attese” che non solo costituiscono un dispositivo essenziale nella dinamica di insegnamento e apprendimento, ma rappresentano sul piano dell’espressività il corrispettivo della natura interstiziale del sapere, tanto da mimare nell’esecuzione discorsiva l’essenza riflessiva dello studio e la stessa struttura dubitativa della conoscenza.
Dobbiamo quindi rallegrarci del fatto che molte università, nel rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie e della profilassi anti-Covid, siano tornate alla didattica professata nelle aule e nei laboratori, nelle classi fisiche abitate da corpi e pensieri, dove il confronto vis-à-vis promuove gli scambi intellettuali alimentando l’humus della ricerca e della coscienza critica[8].
Note
[1] La più arguta messa in caricatura di queste retoriche dell’occasione (e della loro risibile nomenclatura) si può leggere in uno spassosissimo dialogo pseudo-leopardiano di Emanuele Zinato, “Finalmente!”. Dialogo postepidemico semiserio fra colleghi di dipartimento, in «La letteratura e noi», 16 aprile 2020 (https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-presente-e-noi/1164-“finalmente-”-dialogo-postepidemico-semiserio-fra-colleghi-di-dipartimento.html; visto il 12/09/2020).
[2] Sono indispensabili su questo punto le argomentazioni di Federico Bertoni, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus (scaricabile gratuitamente dal sito di nottetempo https://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/insegnare-e-vivere-ai-tempi-del-virus e da varie piattaforme online). Per profondità di pensiero, organicità e coerenza argomentativa, forza narrativa e capacità comunicativa, il libello di Bertoni è probabilmente il miglior contributo di riflessione sulle premesse e le conseguenze dell’insegnamento a distanza nell’ambito della formazione universitaria.
[3] Ritaglio questo piccolo, nobile slogan – originariamente pensato per la scuola, ma applicabile senza forzature all’università pubblica – da quello che è forse il più efficace documento sulla teledidattica uscito nei mesi scorsi dal mondo delle istituzioni culturali e delle consulte disciplinari: cfr. Rita Librandi, Claudio Giovanardi, Francesco Sabatini, Documento per la ripresa della vita scolastica, 24 aprile 2020 (Accademia della Crusca, Sezione Crusca Scuola; Associazione per la Storia della Lingua Italiana, Sezione Scuola; https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/documento-per-la-ripresa-della-vita-scolastica/7925; visto il 12/09/2020).
[4] Cfr. Franco Tomasi, Il senso di una mancanza, in «Griselda Online», 30 marzo 2020 (https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena/franco-tomasi-senso-mancanza; visto il 12/09/2020).
[5] La metafora del surrogato è comparsa a più riprese, sia in ambito giornalistico sia in più impegnate sedi di riflessione, nella discussione sull’insegnamento a distanza. Non so se Tomasi sia stato il primo a impiegarla (e d’altronde poco importa), ma certo a lui spetta il merito di averla adibita in modo così radicale e consapevole all’espressione di un punto di vista nel dibattito in corso.
[6] Se il buonsenso e la razionalità ci spingono ad apprezzare sedi asettiche e ordinate, capaci di garantire alla componente studentesca comodi posti a sedere e un modo aerato di vivere gli spazi, non possiamo tuttavia negare che per molti di noi (attuali professori e vecchi studenti) la nostalgia pungente di certi corsi memorabili resta legata all’immagine di un grande maestro circondato da folle di uditori che saturano l’aula all’inverosimile, ammassandosi in ogni dove e infrangendo gioiosamente, con l’energia dei loro giovani corpi, la distanza gerarchico-istituzionale tra cattedra e platea. Nel nostro presente di distanziamento fisico obbligato e di rigida asepsi, simili ricordi portano nella didattica una nota di erotismo intellettuale e di desiderio.
[7] Michel Houellebecq, Cari amici: il mondo sarà uguale, solo un po’ peggiore, in «Corriere della Sera», martedì 5 maggio 2020, p. 21
[8] In questa clausola viene intenzionalmente ricalcato l’explicit del documento cun Indicazioni e osservazioni sul documento ministeriale “Il post lockdown e le nuovi Fasi 2 e 3”, 16 aprile 2020, (identificatore della risorsa: https://www.cun.it/uploads/7270/do_2020_04_16.PDF?v=; visto il 12/09/2020).
Buona esercitazione retorica, con qualche caduta, come i “sacerdoti”, i “settatori” (“subsistant igitur ignorantiae sectatores”!), l’involontario cursus rimato “mimare nell’esecuzione discorsiva l’essenza riflessiva”… Direi però che a restare “velata di diaframmi”, con esito certamente “disforico”, è l’origine materiale, e non culturale, tanto meno umorale, della didattica a distanza. Per spiegarmi meglio con gli autori: le epidemie danno luogo a lacune meccaniche, non a varianti adiafore.
buongiorno,
insegno in università.
sono un po’ a disagio di fronte al linguaggio emotivamente carico e modestamente letterario di questo post.
quando in apertura leggo
“Tanti uomini e tante donne dispersi nella solitudine delle loro case si sono radunati in sale virtuali che hanno tenuto in piedi l’istituzione accademica, assicurando la sopravvivenza delle attività formative. Nei giorni più bui della pandemia, quando i nostri corsi si dematerializzavano e prendevano posto tra i tanti simulacri della Rete, mentre le immaginette tremule e sgranate dei nostri mezzibusti si rifrangevano su decine/centinaia di schermi e, di rimando, i mille volti dei nostri giovani uditori si incasellavano come fototessere animate nel panottico di un “layout a griglia”, ci siamo volonterosamente imbarcati sulle zattere digitali come su canotti di salvataggio, anche se abbiamo reagito con fastidio alle poetiche della “resilienza” e della plasticità mentale, così come alle stucchevoli cantilene sulla natura inclusiva e democratica delle relazioni vissute in linea, all’interno dei consorzi digitali.”
fiuuu! sopraffatto dall’autocompiacimento di chi ha scritto, fatico a discernere un contenuto informativo.
entro nel merito. è ovvio che ci siano posizioni differenti sul tema DaD, io sono moderatamente positivo e favorevole ma non darei dei trogloditi, passatisti, o cose così, a chi propugna e sostiene fortemente la sola didattica in presenza.
qui, invece, le posizioni di vede positivamente la Dad vengono dileggiate. lecito farlo, ma allora chi scrive non vuole dibattito di idee vuole autorappresentazione. quindi potrebbe perfino essere fuori luogo che io spenda tempo ad esporre qui il mio pensiero.
su tutto il testo, posso citare a mo’ d’esempio del dileggio:
“Chi pensi di sostituire l’affollato seminario in un’aula gremita, la convivialità di una tavolata, la danza di gruppo e il cerchio degli amici attorno al fuoco con un pallido retablo di ologrammi disposti nelle cellette ad alveare di un monitor, dovrebbe riflettere sugli aspetti alienanti di queste cyber- esperienze” (innumerevoli le volte che sono stato con amici intorno a un fuoco, eppure apprezzo la DaD)
“Per un adulto sano della nostra specie l’esperienza in presenza è sempre più appagante di quella a distanza” (fino a prova contraria sono psicologicamente e biologicamente sano, e però apprezzo la DaD: o qualcuno per questo fatto mi fa una diagnosi *a distanza* di insanità mentale?)
“la video-lezione rimane un succedaneo, come l’ital-caffè di cicoria durante la guerra”
“Assenza di scambi e di condivisione emozionale, mancanza di vita comunitaria fondata sull’esserci e sulla compresenza, carenza di fisicità, senso di galleggiamento e collasso della significatività dei deittici” (gli amori del tempo delle nonne e dei nonni, che vivevano di lettere postali erano fuffa, è chiaro).
potrei continuare ma mi fermo.
alla penna di chi ha scritto sfugge un ragionamento efficacissimo, che però metterebbe in nuova prospettiva gli assunti di questo post:
“esistono modelli evoluti e protocolli d’insegnamento a distanza degni del massimo interesse, ma si tratta di pratiche formative che prevedono basse demografie studentesche, classi ristrette, assiduità di discussioni online, circolazione continua di materiali di lavoro, nonché la presenza fisica alternata alla frequenza da remoto”
ecco: perché non parliamo del fatto che corsi da 400 studenti in presenza sono corsi in cui lo studente vede e ascolta meglio il docente se è in DaD? perché non parliamo del fatto che corsi in presenza da 400 studenti sono corsi in cui il docente non sa che faccia hanno i suoi studenti? perché non iniziamo a dire che c’è presenza e presenza? perché non iniziamo a riflettere che corsi in presenza in cui la presenza non ha significato, sono corsi che devono essere radicalmente modificati?
*o forse stiamo facendo della presenza un feticcio, proprio come altri fanno della DaD un feticcio?*
m.l.