di Orsetta Innocenti

 

Premetto che non ho soluzioni. Federico Bertoni e Luisa Mirone[1] hanno recentemente, rispettivamente per università e scuola, illustrato con argomentazioni lucide i rischi connessi a quella che ultimamente abbiamo imparato a chiamare (peraltro, con scivolamento semantico) “didattica mista”: quel modo di fare lezione cioè nel quale, con le parole della ministra dell’Istruzione Azzolina, che per prima lo ha evocato, a maggio, parlando del rientro a settembre: «”la metà degli studenti per metà settimana” andrebbe a scuola, poi l’altra metà, e comunque si terrebbero sempre gli studenti che sono a distanza “collegati, così la socialità resta”»[2]. Si tratta in realtà di una modalità che più correttamente si dovrebbe definire “ibrida”: la didattica “mista” infatti nel concetto di formazione a distanza va a identificare, molto più semplicemente, un modalità didattica che alterna forme in presenza e a distanza integrate, certo, ma per tutti i suoi destinatari contemporaneamente, identificando spazi di apprendimento comunque tra loro omogenei.

 

La proposta, mista o ibrida che sia, era stata comunque poi molto rapidamente insabbiata per manifesta non condivisione della comunità scolastica e sociale. Invece, a partire della ripartenza di settembre, nella pratica delle singole scuole, così come – ed è più interessante – nelle richieste di molte famiglie, è tornata a fare più che capolino nella discussione, trovando sostenitori dell’ultima ora anche tra coloro che a essa si erano, con argomentazioni forti, opposti a maggio. Proprio per questo mi pare importante affrontare questo dibattito, interrogandosi sul perché una possibilità che, a scuola, era stata unanimemente respinta durante la chiusura sia stata adesso viceversa con tanta facilità data quasi per scontata.

 

Non voglio qui parlare delle perplessità didattiche (già illustrate da Mirone), né delle questioni di privacy connesse all’uso dei dati (cruciali, ma che non riguardano solo la ‘mista’); e nemmeno di quelle legate alla nebulosità normativa e alla scelta di non procedere con l’aggiornamento contrattuale dei docenti (che non può che essere considerata condizione primaria di ogni proposta di innovazione, anche la migliore dell’universo, che vada a cadere sul concetto di orario di servizio e funzione docente). Vorrei invece appuntarmi su una questione che riguarda specificamente la scuola, anche rispetto all’università.

 

L’aula scolastica è una «comunità di persone che abitano e condividono uno spazio fisico per mettervi a confronto voci e corpi, pensieri e modelli del sapere»[3]. A questa definizione impeccabile, per quanto riguarda la scuola, è indispensabile però aggiungere un ultimo aggettivo: uno spazio fisico protetto. E non in senso metaforico, ma concreto e assai reale: l’aula scolastica, infatti, è prima di tutto uno spazio fisico soggetto (come l’intero spazio fisico dell’edificio scolastico) a precise, scritte e sottoscritte, limitazioni e regole di accesso.

 

Non è un caso che uno dei primi compiti del personale ATA (i custodi, appunto) di una scuola sia definito, contrattualmente, proprio nella vigilanza, cioè nell’impedire l’accesso a estranei non autorizzati alle sue pertinenze. Nella scuola, molto banalmente, gli esterni alla comunità non entrano se non con un valido motivo e, anche quando presente, si limitano ad attendere in un’area per poi essere indirizzati, quando non accompagnati, nella stanza dove devono recarsi. Di più: da queste stanze sono sostanzialmente escluse, salvo eccezioni mirate e opportunamente registrate in maniera ufficiale e preventiva (per esempio nel caso di un incontro didattico organizzato con esperti esterni), le aule. L’aula scolastica è uno spazio concluso per eccellenza: vi si entra bussando, chiedendo permesso e scusandosi per l’interruzione e il disturbo; e, in particolare, non vi entrano le famiglie, che, se devono per motivi legittimi prendere in anticipo uno studente, attendono che sia chiamato da qualcuno e accompagnato all’ingresso, perché, appunto, nello spazio delicato e prezioso e dell’aula non sono ammesse a entrare.

 

Proprio per questo, mi pare che la noncuranza con la quale modalità di didattica ‘mista’ siano state invocate, messe in atto e dunque infine accettate nella narrazione comune a partire da settembre rischi di trascurare con una superficialità che potrebbe portare, se non tematizzata, a effetti duraturi del nostro modo di intendere lo spazio scolastico, non solo le difficoltà e la miseria didattica che questa forma mette in atto, ma anche questo aspetto non secondario e cruciale. Perché nello spazio dell’aula scolastica quella che si riunisce non è soltanto una comunità ermeneutica, ma, prima ancora, una comunità relazionale identificata e protetta, che agisce secondo proprie dinamiche condivise, regole e ruoli. All’identificazione di questa comunità contribuisce in modo sensibile proprio lo spogliarsi, quando vi si entra, delle connotazioni (legittime e necessarie) che si hanno in altri gruppi: è attraverso questi dispositivi che prioritariamente la scuola pubblica mette in atto il proprio ruolo di agente di livellamento e parificazione sociale.

 

In questo, l’aula scolastica come spazio paritario e condiviso rivela con l’aula universitaria una differenza essenziale: se infatti le aule universitarie sono uno spazio pubblico, al quale è possibile accedere per seguire una lezione liberamente, questo non avviene per le aule scolastiche. Non esistono ‘uditori’ per le lezioni del primo e del secondo ciclo, nessuna possibilità di seguire ‘ogni tanto’ una lezione perché potrebbe essere bella, perché il concetto di “lezione” travalica, di molto, il concetto di trasmissione e discussione condiviso di saperi. Viceversa, nelle forme di didattica ‘mista’ così come intese nella pratica sperimentale messa in atto da molte scuole (e incoraggiate dal ministero, pur senza l’ombra di una riflessione normativa e teorica in merito), l’aula si apre, inevitabilmente (ed esponenzialmente), nel moltiplicarsi degli spazi di collegamento dalle case, ad altrettanti potenziali uditori/osservatori che sono tuttora collocati, per legge, ben al di fuori dal gruppo della classe. Perché chi si collega da casa è un soggetto a responsabilità genitoriale, nei 9/10 dei casi minorenne, che vive, doverosamente, in una comunità di adulti e/o altri minori che ha tutto il diritto di abitare il luogo dal quale lo studente si collega e non solo, legittimamente, non può garantire uno spazio chiuso da concedere allo studente da casa (per motivi banalmente logistici), ma, al contrario, al quale non può essere chiesto di rinunciare alla propria libertà di movimento dentro il proprio spazio familiare.

 

In altre parole, l’apertura, senza riflessione, in assenza di compiuta consapevolezza, dello spazio dell’aula reale all’occhio virtuale del collegamento casalingo ha finito per determinare un inconsapevole balzo in avanti nel dibattito, ancora assai acceso nei tempi precedenti all’emergenza, sulla legittimità (relazionale, didattica, sociale prima ancora che normativa) di mettere le telecamere nelle aule scolastiche. A essere sotto l’occhio estraneo non sono solo o tanto le spiegazioni, ma tutto il molto e cruciale resto all’interno del quale quelle spiegazioni si pongono: dinamiche, situazioni, avvenimenti, imprevisti, i quali hanno un senso se inseriti, e gestiti, all’interno della storia di quel gruppo, dai suoi protagonisti, ma ne assumono ben altro, pericoloso e voyeristico – anche con una esponenziale superfetazione di rumore bianco – se esposte al flusso continuo, incontrollato, senza filtri, dell’osservazione casuale, magari occasionale, da casa. Nella didattica ‘mista’, l’aula scolastica perde così una delle qualità primarie che ne garantiscono l’esistenza, l’essere gruppo privilegiato, a vantaggio dell’apertura noncurante a un dispositivo di controllo che assume, anche inconsapevolmente (o appunto casualmente) il carattere di possibile controllo sociale.

 

In questo, l’esposizione della propria privacy è ben diversa da quanto sperimentato, nei mesi dell’emergenza, nella didattica a distanza: là infatti il collegamento di tutti i singoli attori del gruppo classe avveniva, per tutti, dal proprio spazio domestico, in una esposizione inevitabile, della quale abbiamo fatto tutti esperienza, certo scostumata, ma paritaria. In questo caso, invece, le condizioni di appartenenza al gruppo si trasformano, improvvisamente, e insensibilmente, in qualcosa di squilibrato e impari: da un lato, in aula, un gruppo monco che costruisce e porta avanti le proprie dinamiche, dall’altro, da casa, altrettante porte esterne di esposizione al mondo. Nel momento in cui si apre all’esterno, coloro che si trovano all’interno dell’aula, così come l’intero corso della relazione didattica, sono dunque esposti a uno sguardo che possiamo arrivare a definire pornografico: esibiti nel loro agire e senza possibilità di reale consapevolezza, scelta e controllo: perché è vero che è l’insegnante a gestire il collegamento, ma nello stesso tempo la realtà ha l’abitudine di accadere senza preavviso, e dunque non è possibile scegliere di interrompere il collegamento là dove si verifichi (ciò che è il cuore delle dinamiche di classe) qualcosa di non preventivato. Scelta e controllo sono dunque collocati anche all’esterno di quell’aula (che per normativa sarebbe ancora vietata agli estranei), nelle mani di chi si trova dall’altro lato del dispositivo di collegamento con il fuori.

 

Se tutto questo è vero, bisogna comprendere allora come mai, al momento della ripartenza, le riflessioni di maggio sulla improprietà della didattica ‘mista’ siano state rapidamente dimenticate, o accantonate, e sostituite da questa pressante richiesta di collegamento sincrono a distanza. Le ragioni, a mio avviso, sono presto dette: perché tutte le argomentazioni, le più nitide, razionali, inattaccabili, devono poi essere calate nell’esperienza reale. E l’esperienza reale parla, nelle prime settimane di scuola, di doverose quarantene preventive di moltissimi alunni che, a scacchiera, “per contatto stretto con positivo”, si trovano sbalzati via all’improvviso, in attesa di tracciamento diagnostico, dalla propria comunità di classe, nella quale avevano appena fatto in tempo a riambientarsi. Ed è in questo contesto, per rispondere a questo tipo di bisogno – che è di tutti: degli insegnanti, delle famiglie, degli alunni – che le scuole con buona volontà e i mezzi con cui sono abituate ad agire (cioè senza uniformità istituzionale, molto a scacchiera, spesso artigianali) si sono attivate, una volta di più, per trovare soluzioni di prossimità che consentissero di scavalcare la distanza. E tra queste soluzioni quella più semplice è di aprire senza tanti complimenti al collegamento da casa.

 

Si tratta di una scelta, intendiamoci, comprensibile e – l’ho detto – in nome della prossimità, per certi aspetti giusta, che non a caso è prevista da tempo, per le forme di didattica in ospedale o domiciliare per soggetti a vario titolo fragili. Ma, appunto, in quel caso vi sono una serie di cornici normative, di progettazione, relazionali e didattiche che la tutelano e la determinano, modalità che pongono il collegamento con la classe (peraltro non continuativo, peraltro affiancato da lezioni dedicate a domicilio e/o dirette) come percorso particolare di quel gruppo-classe, dove la lezione in collegamento, non sistematica, diventa momento di interazione privilegiato con l’alunno e tutto il mondo che lo tutela e che, per quello spazio e tempo, ha il permesso di partecipare.

 

Molto diverso è il caso invece attuale, nel quale la riflessione pubblica sembra essersi concentrata soprattutto su questioni contrattuali (sacrosante) e tecniche (peraltro essenziali: se non ho la fibra all’ultimo miglio, posso avere pure l’Apollo 11 in tutta la scuola, ma il collegamento non reggerà, e basta): attivare una modalità in streaming a distanza può diventare il modo più semplice per dire di avere fatto qualcosa, poco importa se la lezione non si sente, poco importa se la prossimità relazionale, dai due lati, è monca se non inesistente, poco importa se questo cambia il senso stesso di quello che si ritiene scuola.

 

Mettere la prossimità relazionale al centro, invece, non significa aprire con facilità una porta telematica; significa interrogarsi su un bisogno sopraggiunto (e non adeguatamente previsto a livello istituzionale) e aprire il tavolo sulle possibilità, anche parziali, anche temporanee, di risolverlo. È possibile dunque che una comunità di classe decida che la soluzione migliore, per venire incontro alle esigenze di diritto allo studio di alunni impossibilitati a recarsi in aula, sia di sottomettersi, temporaneamente, alla didattica ‘mista’, ma questa scelta non deve essere né scontata, né continuativa, né a pioggia: considerata extrema ratio. E resta comunque un caso ben diverso da quello prospettato da Azzolina a maggio (e che tuttora riecheggia in ordinanze regionali degli ultimi giorni, così come nelle richieste generiche dalla società): metà in aula e metà a casa – “un po’ di qua, un po’ di là, così semo de meno” – per venire incontro a problemi di assembramento e numeri troppo alti di alunni per classe o sugli autobus, che devono essere risolti aumentando spazi, autobus e diminuendo il numero di alunni per classe, e non teorizzando, dall’alto e dal basso, la rinuncia a quello che ci rende scuola.

 

In questi giorni A., la figlia di una mia cara amica, che frequenta l’ultimo anno della scuola primaria, si trova in isolamento fiduciario preventivo; e, come tanti suoi compagni (nella sua scuola e non), è stata invitata dalla scuola a collegarsi da casa alla lezione. A., prima di aprire il collegamento con la sua classe, si è messa il grembiule, ha chiuso la porta della sua camera, e si è messa alla sua scrivania, schiena alla porta, lo schermo del computer coperto dal suo corpo, a protezione intuitiva di uno spazio che appartiene solo a lei.

 

Come ho detto in apertura di questa riflessione, non ho risposte, ma è indispensabile che l’intera comunità sociale affronti il dibattito sull’eventuale necessità, ragionata caso per caso, e comunque provvisoria, di aprire lo spazio dell’aula scolastica a un esterno ai suoi membri con lo stesso sguardo di A.: con la consapevolezza istintiva che quella reclusione costituisce uno spazio esclusivo e proprio, da difendere a ogni costo come un insostituibile privilegio.

 

Note

[1] F. Bertoni, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus, Milano, Nottetempo, 2020 (scaricabile qui gratuitamente: https://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/insegnare-e-vivere-ai-tempi-del-virus); L. Mirone, Fritto misto di didattica, «Laletteraturaenoi», 5 ottobre 2020: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/1268-fritto-misto-di-didattica.html (u.c. 22/10/2020).

[2] Cfr. La ministra Azzolina: “A settembre lezioni metà a scuola e metà a casa, «La Stampa», 2/05/2020 (u.c. 22/10/2020). Cui fa seguito, due giorni dopo, il passo indietro dopo l’ondata di perplessità e proteste: G. Fregonara, Metà in classe e metà a casa? Azzolina frena: solo per le superiori. Un’unità speciale per aiutare i presidi, «Corriere della Sera», 04/05/2020 (u.c. 22/10/2020).

[3] Gruppo DiSLL, Le ragioni dell’emergenza: sui limiti della didattica a distanza, «Le parole e le cose», 22/10/2020: https://www.leparoleelecose.it/?p=39553 (u.c. 22/10/2020).

5 thoughts on “Un po’ di qua e un po’ di là. Aporie della didattica mista

  1. Si sta esagerando. A nessuno piace fare lezione attraverso il filtro di uno schermo, buona parte dei docenti almeno quelli di discipline umanistiche hanno scarso tecnoentusiasmo e si sono adattati a malincuore al digitale, ma l’hanno fatto per spirito di servizio, per adeguarsi alle “magnifiche sorti e progressive della società”. Chiarito questo presupposto, va riconosciuto che, certo, la scuola è socialità, relazione, incontro e che bisogna sforzarsi di salvaguardare sempre tali valori, tuttavia il covid esiste e nessuno l’ha scelto come compagno di vita, ma c’è. E la scuola non è un’isola slegata dal mondo: se la realtà circostante in cui ragazzi e docenti si muovono è fatta di rischi di contagio (sui mezzi, in famiglia) questi rischi circolano automaticamente e in egual misura anche nella scuola. E’ inutile negarlo o far finta di non capirlo. Bisogna deideologizzare il dibattito sulla didattica digitale. Dunque, se la scuola non è un luogo sicuro (perché i tracciamenti ormai sono saltati ovunque, i tamponi non bastano, e gli asintomatici ce li dobbiamo tenere allegramente in aula perché nessuno mai scoprirà più se sono positivi) e poiché non bastano distribuzioni saltuarie di gel e mascherine a renderla sicura, la didattica digitale integrata, mista, ibrida, a distanza è necessaria più che mai, per proteggere i nostri figli, noi stessi e i nostri anziani. Per la salute tutti rinunciamo a qualcosa temporaneamente. Per ora. Per l’emergenza. Non si tratta di scelte definitive. Certo, in futuro, qualora ci accorgessimo di subdoli tentativi volti a normalizzare una soluzione che è e deve restare solo emergenziale, allora sì, con veemenza e passione insorgeremo. Per quanto attiene alla violazione della privacy durante le lezioni online, fermo restando che è una responsabilità di chi trasgredisce e non di chi la subisce, che può, invece, benissimo denunciare la violazione, qualora tale trasgressione si verificasse, mi sembra comunque fuori luogo usare termini iperbolici come “voyerismo” e “sguardo pornografico”. Capisco l’effetto espressionistico che tali espressioni sono orientate a creare, ma, davvero, discutiamone: che cosa si espone agli sguardi “voyeristici”? Ragazzi che fanno equazioni e leggono racconti? Noi che commentiamo in classe l’Epistola 95 di Seneca? Allora, magari ci vedessero e ci spiassero! Questi genitori “spioni” (poi, tutti disoccupati? Tutti in casa a guardarci? Mi pare strano!) forse imparerebbero con Seneca che cos’è l’ “humanitas”, capirebbero quanto è dura la vita di un docente e diventerebbero più empatici e meno inclini a fare i sindacalisti dei loro pargoli quando si tratta di contestare voti e compiti.

  2. Innanzi tutto grazie per il commento. La cosa che più mi preme è che questo intervento non voleva essere affatto un intervento genericamente contro la didattica digitale, men che meno integrata, ma solo sollevare una questione su una sua molto specifica declinazione che, unica tra tutti, non mi convince in nessun contesto (pur consapevole che la realtà possa, come dicevo, renderla necessaria).
    Cito dal commento: ” la didattica digitale integrata, mista, ibrida, a distanza è necessaria più che mai”. Il mio argomentare non discute sulla necessità o meno della didattica a distanza (per scelta, non parlo di protocolli sanitari nei miei interventi sulla scuola – non sono un virologo, mi attengo a quello che mi viene detto, con dati, sulla situazione sanitaria, e non solo non ho motivo di, ma non contesto l’emergenza; per scelta e per natura sono ligia, e penso che poche cose siano difficilmente governabili come una pandemia globale all’interno di una società a governo democratico). Il punto è che integrata, mista, ibrida, a distanza, a mio avviso, non sono la stessa cosa, così come non lo sono gli spazi di apprendimento che chiamano in causa. E che sollevano problemi a mio avviso di natura relazionale diversa da quasi nulli (o comunque molto governabili) a molto alti.
    Per quanto mi riguarda, mentre capisco la natura eccezionale e prossimale di quasi tutte le altre forme, non concordo sulla ibrida, come sincrona casa-scuola, perché secondo me viceversa la lezione scolastica non è come dicevo solo trasmissione, ma creazione di dinamiche di gruppo, che sono a) protette b) inevitabilmente molto falsate dalla ibrida. Gli elementi più interessanti in una lezione sono nell’interazione, e quella interazione ha toni, modi, idioletti, regole interne che sono proprie di quel gruppo; e che la legge protegge dall’esterno a mio avviso per motivi di relazione didattica oltre che legali. Non è solo o tanto una questione di privacy (che pure esiste e secondo me pure non va allontanata e non basta pensare di pensarci “dopo”, specie quando quel dopo è in un durante di ancora vacanza contrattuale su punti molto significativi).
    Ciò detto, non ho soluzioni: non penso che non si debba fare a prescindere, perché il diritto all’istruzione di un alunno in quarantena è fondamentale. Ma non penso che se ne debba discutere solo dopo. Mi pare sia esattamente l’errore a mio avviso che abbiamo fatto troppo spesso per decenni a scuola “ora è urgente, poi se mai protestiamo e vigiliamo”. Non credo che abbia funzionato.
    Inoltre (questo è a latere del punto della mia riflessione, ma mi pare un punto importante del suo commento), il cambio di definizione da DaD a DDI credo sia stato fatto proprio anche per cercare di strappare l’assolutismo della lezione frontale sincrona che l’ha fatta da padrona durante i mesi della chiusura. DDI non vuol dire DaD: e ci sono molti altri modi, interessanti e che presuppongono la costruzione di diversi e altri tipi di interattività, per poterla fare. Invece a mio avviso l’appiattimento di ogni forma di FAD sul solo sostantivo distanza, come se ogni modalità fosse sinonima, non aiuta, pur per ragioni diverse, secondo me a de-ideologizzare la didattica digitale (sul fatto che siano necessariamente i letterati a non volersene servire, invece, nella mia esperienza non è tanto vero, anzi).
    Per quanto mi riguarda, faccio didattica digitale integrata davvero da decenni, tanto che al momento della chiusura non ho dovuto creare nulla, nelle mie classi avevamo già tutto: a me pare viceversa che questa chiusura abbia spazzato via proprio molto di quel tutto, a favore di uno streaming diretto che è più semplice e meno faticoso per tutti, a prescindere da risultati, destinatari, ambienti (chi insegna, come me, in una scuola di frontiera sa che il Meet è la cosa più semplice perché gli studenti formalmente si presentino, ascoltino, magari rispondano pure a domanda, ma di fatto non siano minimamente impegnati nella relazione didattica; ciò che avrebbe, ha, sperimentati, altri ritorni con altre modalità altrettanto a distanza e altrettanto digitali).

  3. Grazie Teresa D’Errico, è uno dei ragionamenti più lucidi che mi è capitato di sentir fare sulla questione.

  4. Ringrazio Orsetta Innocenti per questo esame molto analitico dei problemi emersi con la DAD; che la soluzione sia necessaria non significa che si debba accettare acriticamente qualsiasi forma di DAD, senza contare gli aspetti istituzionali e legali di cui il Ministero poteva ben farsi carico approfondendoli durante l’estate.
    Aggiungo solo una cosa per quanto riguarda lo “sguardo voyeristico”: che il mio alunno autistico che non si riesce a contenere, o il mio alunno che scoppia in una crisi emotiva debba essere visto da chiunque, al di fuori del gruppo-classe, anche casualmente presente nella stanza dello studente collegato a distanza , non mi fa esclamare “magari ci spiassero!”.

  5. Grazie per il commento: la riflessione sui due esempi coi due alunni è esattamente quella cui pensavo mentre scrivevo, in effetti, pur consapevole, lo ripeto, che i bisogni di contemperare siano tanti. Ci sono situazioni in quarantena per le quali collegarsi diventa un atto di prossimità molto stringente, prima ancora che di istruzione (che a mio avviso si risolvono con forme di distanza assai più mirate e asincrone, che, dal punto di vista dello stretto coinvolgimento dell’istruzione, sono più stringenti. Io in questo momento ho risolto, sperimentalmente, usando la asincrona per l’istruzione e organizzando dei momenti di collegamento molto incorniciati, prendendo come modello grosso modo quelli della didattica domiciliare/ospedaliera (cioè qualcosa di già sperimentato e normato), ma non è una soluzione univoca ed è legittimo che non sia compresa da alunni e famiglie che ne sentono una necessità.
    Viceversa, la facilità con cui il collegamento si prospetta come normale continua a sembrarmi pericoloso e traditore di ogni forma di didattica, anche digitale, anche integrata, oltre che come ho scritto del senso dell’essere scuola così come siamo abituati a identificarlo.

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