di Francesco de Cristofaro
[LPLC celebra il centenario della nascita di Gianni Rodari pubblicando una versione ridotta del capitolo Il secolo dei fanciulli. Romanzi per l’infanzia tra Italia e mondo, tratto da Il romanzo in Italia, a cura di G. Alfano e F. de Cristofaro, III. Il primo Novecento, Carocci, Roma 2018, pp. 439-454. Ringraziamo l’autore e l’editore].
1. Italia, estate del 1954. All’inizio dell’anno è caduto il governo democristiano presieduto da Giuseppe Pella e appoggiato dai liberali e dai filomonarchici; è salito a Palazzo Chigi, dopo un tentativo miseramente fallito di esecutivo monocolore con alla guida Fanfani, Mario Scelba, fedelissimo di De Gasperi. Il clima istituzionale è rovente a causa della cosiddetta «legge truffa» che, autentico evergreen della nostra democrazia, assegna un premio alla maggioranza; a giugno è stata sconfitta. Nell’anno in cui arrivano nelle case americane i primi tv-color, debutta la programmazione della Radiotelevisione italiana. Le sale cinematografiche proiettano La strada di Fellini, Senso di Visconti, Viaggio in Italia di Rossellini; ma anche pellicole dai titoli parlanti quali Vergine moderna o Amarti è il mio peccato. Ci sono almeno due Italie. Intanto dallo scenario internazionale giungono segnali ambigui: l’inizio della guerra d’Algeria coincide con il termine del conflitto in Indocina, vinto dai vietnamiti. I costi umani sono altissimi. Con la politica del contenimento di Eisenhower da un lato e la destalinizzazione kruscioviana dall’altro sembra essersi aperta una nuova fase di tregua armata, forse meno aspra.
In realtà, in quel 1954 la guerra fredda si è ormai, diciamo così, fatta verbo. Si è infiltrata nelle pieghe più insospettabili della società civile e del dibattito culturale. Così, quando Chiodino, l’uomo-odradek ideato per il pubblico dei più piccoli da Marcello Argilli, evade dai fogli sgargianti di un giornalino per dar vita a un «romanzo» di largo successo popolare, scoppia subito una polemica che, a leggerla oggi, suonerà forse assurda nei toni e nel merito. Eppure quello scontro, che non è solo politico, può illuminare per un istante la cruciale funzione formativa e ideologica ricoperta dalla letteratura giovanile nel Novecento italiano, almeno fino al dopoguerra.
Pubblicate da CDS (Centro di Diffusione Stampa), editore vicino al Partito Comunista, Le avventure di Chiodino erano dapprima uscite alla spicciolata sul Pioniere, il periodico per l’infanzia di area ‘progressista’ che in quegli anni si contrapponeva al cattolicissimo Vittorioso. Il protagonista, che era divenuto subito un beniamino dei ragazzi tanto da essere riprodotto in diffusissimi giocattoli, presentava un corpo di metallo come il boscaiolo del Mago di Oz, ma diversamente da lui aveva anche un cuore: quel cuore che lo portava a farsi animale sociale, a nutrire teneri sentimenti verso la sua Perlina, a contrapporsi al volto demoniaco del potere, alle ingiustizie della giustizia, al dominio del capitale; e soprattutto a promuovere un’alleanza tra gli umili, al fine di ristabilire una tavola di valori umana e condivisa.
Si fa qualche fatica a crederlo, ma il romanzo fu avvertito da alcuni esponenti della DC come una specie di affronto. E in qualche modo lo era: nel senso che Chiodino sferrava, è il caso di dire, un pugno di ferro – pur coi guanti di velluto della favola surreal-utopica – contro il moralismo benpensante cui s’ispirava la letteratura d’istruzione del tempo. Non molto differentemente dall’occhiuta «fabbrica del consenso» fascista, la cultura della ricostruzione aveva provveduto a recintare la gioventù italiana con un cordone sanitario, nella convinzione che fosse più che mai esposta alle deviazioni dell’ideologia. Ecco allora che, proprio mentre aumentava la posta in gioco (l’anno dopo sarebbero stati varati i programmi Ermini per la scuola elementare), dalle colonne di un periodico organico al partito di governo Italo Borzi tuonò che il robot di Argilli era la «pedissequa imitazione del burattino di Collodi, ma opportunamente aggiornata secondo i dettami della teoria marxista»; e che veniva meno all’impegno «di inserire i fanciulli nella società in cui vivono per farne dei rispettabili cittadini» (Borzi 1954; cfr. Boero-De Luca 2009, p. 205). Ancor più Lucignolo che Pinocchio, Chiodino mirava insomma, a detta dell’oscuro polemista de «La Discussione», a incitare alla «rivolta contro lo stato, per accelerare la conquista del potere». Questa nuova ‘pinocchiata’ nascondeva in seno una serpe bolscevica.
Proprio «Le avventure di un “Pinocchio bolscevico”» s’intitolava il pezzo, sferzante, con cui «L’Unità» ribatteva a Borzi. Lo firmava un giovane pubblicista engagé ed eterodosso, che pochi anni prima si era distinto come responsabile di una rubrica domenicale destinata ai bambini; e che si era ritagliato un posto ragguardevole nella letteratura di genere con Il libro delle filastrocche, Il romanzo di Cipollino e Le avventure di Scarabocchio. Dopo avere appunto fondato il Pioniere, si era infine procurato una scomunica dal Vaticano (come «ex-seminarista cristiano diventato diabolico»!) e persino l’autodafé parrocchiale delle sue pubblicazioni. Si chiamava Gianni Rodari.
Erano ancora tempi di malafede. Né le cose sarebbero cambiate presto, con un comparto educazione ancora addormentato su libri di lettura ipocritamente inneggianti alla «santa campagna», e pronto a punire con uno zéro de conduite i volteggi della fantasia. L’Italia oleografata nei testi scolastici del tempo era una formazione immaginaria sospesa tra un ormai irreale “Paese Reale” e l’Arcadia: dì lì a molti anni, sull’onda lunga della contestazione studentesca, inchieste come I pampini bugiardi (1972) avrebbero demistificato le inadeguatezze di un’editoria specialistica fuori dal mondo. E per la verità già nel ’47, con lungimiranza di vero «pioniere», lo stesso Rodari aveva arato il campo, pubblicando sempre sull’«Unità» i risultati di un’indagine personalmente svolta attraverso centinaia di volumi adottati negli istituti nell’immediato dopoguerra. E aveva restituito, insieme a una cospicua messe di campioni testuali, il ritratto avvilente di una nazione «bacchettona e timorosa del nuovo, saldamente ancorata a un clima di codino moralismo creato soprattutto da ambienti cattolici» (Boero-De Luca 2009, p. 213).
Sette anni dopo, la scuola italiana era ferma sempre lì. Alla fine di quello stesso 1954 un prete-maestro di Firenze, don Lorenzo Milani, sarebbe giunto in uno sperduto paese della campagna mugellese, Barbiana, per intraprendervi il suo rivoluzionario esperimento di istruzione moderna, inclusiva e democratica. Quanto a Rodari, quel processo sommario a un pupazzo ritenuto «non compatibile col Codice Penale», e accusato di inculcare nei ragazzi il sentimento che «unisce i fuorilegge di una stessa banda o di una stessa ganga» (ovvero «l’omertà fra un gruppo di individui che si fa giustizia da sé contro la perfidia della polizia e dei ricchi»), era una nuova occasione per esprimere ancora una volta la sincera preoccupazione pedagogica che non lo avrebbe mai abbandonato. Era proprio quella preoccupazione a indurlo a spiegare che il romanzo di Argilli non costituiva affatto un dogmatico «trattato di pedagogia», bensì «una storia vivace e divertente, con qualche spunto di bonaria critica sociale, che si guarda bene dall’approfondire e dall’amplificare. I nostri bambini avranno tempo di leggere Marx ed Engels quando saranno grandi: per il momento hanno bisogno solo di storie divertenti, e che non esaltino la guerra e la violenza» (Rodari 1954).
Queste frasi, infilate con naturalezza cristallina, contenevano in fondo qualcosa di scandaloso: la protesta contro l’ideologizzazione della letteratura infantile, l’idea molto semplice che essa serva all’evasione, non alla cooptazione; al diletto ludico, non a forme di catechesi. Tra le due strade che si erano aperte negli anni ’80 dell’Ottocento, tra la retorica della patria e dei buoni sentimenti di De Amicis e la sovversione dei sensi, delle istituzioni e dello stesso principio di realtà di Collodi, Rodari non aveva dubbi. E coglieva l’occasione per precisare – al fine di «rinfrescar la memoria» a Borzi & Co., sgomberando il campo dall’equivoco che Pinocchio fosse «apologia del bene» e Chiodino «apologia del male» – che anche al burattino antenato, così poco incline alla preghiera, era da principio toccato lo stigma dei cattolici. In seguito, però, gli era stato universalmente riconosciuto «valore educativo»: nonostante fosse screziato da allegoriche lepidezze e da spunti satirici.
Non a caso l’articolo si chiudeva con una lunga citazione dalla scena di Pinocchio in cui viene proclamata un’amnistia generale nella città di Acchiappacitrulli: il protagonista, imbrogliato dal Gatto e dalla Volpe, è scarcerato non benché, ma perché «malandrino». Di là dal suo portato ideologico, il brano ripreso da Rodari aveva il merito di condurre alle radici stesse della forma-romanzo: tra i Re Baldoria e i Paesi di Cuccagna, tra i mondi alla rovescia e i giganti buffoni. Come si vedrà più avanti, è proprio in questo territorio formale – il cui principio estetico è, bachtinianamente, un riso «scoronante» e «smembrante» – che il nostro romanzo per l’infanzia ha dato i risultati migliori: prestando orecchio, per quanto gli era possibile, ai grandi modelli europei e americani; e riuscendo a costituire, nel sottosuolo di un Kindergarten pieno di solfa patriottica e bigotta, una specie di sacca di resistenza. In questa riserva della fantasia il Gian Burrasca di Vamba, il Chiodino di Argilli, il Capitan Fanfara di Yambo, il Totò di Zavattini, il signor Bonaventura di Sto, il Cipollino di Rodari si divertono esercitando un’intelligenza nutriente, franca, dadaista: in compagnia, magari, di personaggi di un’altra progenie (da Bàrnabo delle montagne a Marcovaldo), pensati per uomini che vogliono essere bambini e per bambini che vogliono essere uomini.
2. Rodari non stava certo sparando a salve: poche righe più sopra, immaginando per assurdo un Chiodino «che andasse all’assalto di una Casa del popolo, o che guidasse una pattuglia di crumiri», e chiosando perfidamente che i cattolici senz’altro «gli avrebbero eretto un monumento», aveva alluso a quei metodi di persuasione (nemmeno troppo occulti) con cui da tempo, anche ad avvenuta tumulazione del Duce, si pilotavano, intorbidivano e plasmavano le coscienze dei più giovani nel nome di Pinocchio. Al pari delle avventure di Sandokan, anche le avventure del bambino di legno erano infinite.
La ricreazione, invece, era finita. Sembravano ormai tramontati, almeno in patria, i tempi in cui i bambini giocavano alla guerra – come ancora poteva avvenire nelle piccole epiche di Ferenc Molnár (I ragazzi della via Pál, 1906) o di Louis Pergaud (La guerra dei bottoni, 1912). Dopo il pluritradotto Pinocchio in Affrica di Eugenio Cherubini (1903), con tanto di incoronazione imperiale del protagonista, quello che Antonio Gibelli ha chiamato «il popolo bambino» s’era fatto irretire da innumerevoli revival e «spedizioni punitive» della marionetta (cfr. da ultimo Curreri 2017): che in queste “continuazioni”, sovente grevi, poteva mantenere inalterato il proprio nome o essere ribattezzata, con un po’ di goffaggine, Pistacchio. Altro che Chiodino.
Questa metamorfosi, prima in soldato e poi in balilla, è preziosa perché ci offre un ottimo esempio dei reinvestimenti di senso che la politica e la propaganda riservarono ai mitologemi (oltre che ai memi) che scorrevano nella cultura di massa. C’è però una microstoria più puntuale, più personale e anche più ossessiva da cui conviene ripartire. Il 25 dicembre 1917, cioè due mesi dopo la disfatta di Caporetto, Paolo Lorenzini, passato alle cronache come Collodi Nipote e già autore del non spregevole Sussi e Biribissi (una “cantafavola” argutamente sospesa tra Verne e Cervantes), dà alle stampe un sequel del capolavoro di zio Carlo, Il Cuore di Pinocchio: un ibrido testuale in cui i due volti opposti del romanzo infantile italiano si fondono sin dall’eclatante titolo. Ciò che udiamo in questa disturbante e quasi dickensiana strenna natalizia sono soprattutto le «voci di dentro» della Grande Guerra: mentre la disputa Borzi-Rodari ci ha appena mostrato come la più smagata e soave narrativa giovanile potesse trasformarsi, in letture tendenziose e ideologiche, in qualcosa di tremendamente serio, al contrario il palinsesto di Pinocchio a opera di Collodi Nipote mette dinanzi ai nostri occhi una effettiva torsione del testo d’origine. La creatura lorenziniana, un ragazzino partito per il fronte alla ricerca della «bella morte» (dunque relativamente simile alle indifese vittime sacrificali di certe parabole deamicisiane, da Il tamburino sardo a La piccola vedetta lombarda), sembrava più Frankenstein che Pinocchio: «carne e legno, osso e ottone: era nato l’uomo bionico in simbiosi con i ricambi corporei, il reduce meccanico» (Caffarena 2012, p. 491). Tuttavia il suo corpo composto di disiecta membra, tutto mutilazioni e protesi, non fu che l’esito più aberrante di quella retorica dell’amor patrio e della stigmatizzazione del diverso che aveva e avrebbe dilagato nelle letture infantili e soprattutto nei libri scolastici: toccando, dentro le scritture degli emuli di Salgari, punte di razzismo insostenibili.
Giusto nell’anno dell’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (1926) avrebbe visto invece la luce il massimo successo commerciale nella narrativa italiana di guerra di ogni tempo: quel Piccolo alpino in cui «il romanzesco […] ricompare per cancellare ogni traccia di realismo» (de Leva 2017, p. 186). Scritto da Salvator Gotta, già autore dell’inno ufficiale del Partito Nazionale Fascista Giovinezza, il romanzo raccontava le gesta di Giacomino, un ragazzo che, dopo che i suoi genitori risultano dispersi a causa di una valanga, diviene mascotte degli alpini e poi tetragono modello di eroismo.
Piccolo alpino rimodulava le litanie dei «racconti mensili» di Cuore enfatizzandone gli aspetti guerrieri e patriottici. Dagli Appennini di De Amicis alle Alpi di Gotta si verificava però un cambiamento importante: nei mesi di presunta orfanità Giacomino appariva mosso, più che dall’elaborazione del lutto, dall’ebbrezza della mobilitazione, del “rito di passaggio” anticipato all’esperienza adulta, della conquista di un’autonomia dal nido familiare («vi è […] una relazione simbolica stretta tra questi tre termini: la separazione dai genitori […], la fine dell’infanzia e dell’adolescenza, il servizio militare finalizzato alla guerra»: Gibelli 2005, p. 98). E soprattutto egli non moriva, anzi nell’epilogo il Re gli appuntava in petto una medaglia d’oro al valore. Dopodiché, come è d’uopo per un bravo ragazzo, ricominciava a studiare. Il San Bernardo che accompagnava il piccolo alpino nelle sue imprese si chiamava Pin; chissà se Italo Calvino se ne accorse, quando decise di battezzare alla stessa maniera il giovane protagonista del Sentiero dei nidi di ragno, che certo appartiene a una stirpe opposta a quella di Giacomino – la stirpe di Pollicino e di Pip. La storia della letteratura può fare brutti scherzi.
3. Si può dire che non ci sia stata casa della nostra borghesia novecentesca che non abbia posseduto Il piccolo alpino o volumi analoghi di Laura Orvieto, Giuseppe Nuccio o Ugo Mioni, baciati da stratificata e longeva fortuna editoriale. A doverli valutare con un occhio critico e comparatistico, colpirebbe soprattutto la distanza che sembra separarli da alcune opere straniere coeve dall’eccezionale modernità e libertà formale, e spesso vicine alla formula del Bildungsroman (cfr. Zanotti 2001, passim; e Calabrese 2013, pp. 171 ss.): opere che nell’Italia umbertina e fascista furono ignorate o censurate con le motivazioni più assurde, e che dovettero aspettare l’adattamento in cartoon per poter divenire patrimonio, socialmente trasversale, della nostra gioventù. Il catalogo, il cui capostipite non può che essere il Peter Pan di Barrie (1906), va da Anna dai capelli rossi (ma in realtà si trattava di green gables, ‘verdi abbaini’) di Lucy Maud Montgomery (1908) a Pollyanna di Eleanor Hodgman Porter (1913), da Bambi di Felix Salten (1923) a Mary Poppins di Pamela Lyndon Travers (1934): «romanzi» che trascendono l’idea di una «letteratura del “Qui” mostrato pesantemente come unico mondo narrabile», dando vita a «una letteratura per l’infanzia diversa, più poetica, che anche se non rinuncia a dar conferme della realtà esistente si protende verso altro e mostra il legame profondo dell’uomo – o meglio del bambino – con l’universo» (Grilli 2011, p. 46). Al contrario, la stragrande maggioranza degli autori italiani qui menzionati restano fedeli al «presupposto che il mondo sociale in cui si vive, quello fatto dei problemi di tutti i giorni, sia il mondo di cui si deve parlare, di cui si devono imparare dinamiche e valori, e in cui ci si deve in qualche modo inserire» (ibid.). Inoltre essi mostrano una sostanziale sordità nei confronti dei nuovi paradigmi della “scienza dell’infanzia”, per come erano stati illustrati già all’alba del Novecento da un libro come Il secolo dei fanciulli di Ellen Key (subito tradotto in tutta Europa; in Italia nel 1906, cioè l’anno che precede il varo, a Roma, della prima «Casa dei bambini» di Maria Montessori). Sebbene non fosse privo di idiosincrasie e di aporie, il volume segnava un punto di svolta – in un incrocio per lo più inconsapevole tra le teorie di Darwin, Marx e Freud – entro il lungo processo sociale e culturale che sarebbe stato descritto da Philippe Ariès nelle sue famose pagine sul «sentimento dell’infanzia» nell’Europa medievale e moderna. Il discorso di Key puntava soprattutto a un superamento tanto della concezione d’una sostanziale uniformità tra le fasi della vita (il mito del parvus homo), quanto di una biopolitica della puerizia conseguita attraverso dispositivi di segregazione, controllo e pianificazione. Erano così poste le basi di una pedagogia sperimentale attenta a valorizzare la specificità della psiche del soggetto infantile e delle sue pulsioni, e proiettata alla progettazione di spazi educativi dedicati.
Le punte femministe del saggio, che si giovò anche del sostegno di Sibilla Aleramo, non mancarono di suscitare polemiche e prese di distanza; eppure non può che condividersi la critica al modello patriarcale (che tende a trasformare il bambino in «parte del gregge che il ‘superuomo’ domina»: Key 1906, p. 9) e militaristico («Si direbbe che fin dall’asilo pensiamo ai soldati che i nostri bimbi dovranno essere un giorno»: ivi, p. 164), a favore dell’opzione simmetrica: quella stessa opzione rispettosa della dimensione leggera, «fantastica» e autonoma della fanciullezza che veniva rivendicata anche nell’articolo di Rodari da cui abbiamo preso le mosse.
È interessante notare come alcuni autori bascularono per tutta la vita tra queste due antitetiche possibilità. Rasenta la schizofrenia, e induce un sincero dispiacere, il caso di Giuseppe Fanciulli, forse il più aggiornato e poligrafo fra i liberi battitori dei sentieri della letteratura infantile. Fu redattore dalla prima ora del «Giornalino della Domenica», e poi direttore di altri periodici specializzati; estensore di una moderna agiografia di San Filippo Neri; studioso di psicopedagogia e coautore di una storia della letteratura dei piccoli; compilatore di manuali adottati in tutte le scuole del Regno e di una «piccola enciclopedia dei ragazzi curiosi» intitolata, con prefigurazione rodariana, Il libro dei perché; traduttore ed epitomatore di classici (pratica, questa, diffusissima nell’Italia autarchica: basti pensare a quella palestra creativa, nonché base di stoccaggio della narrativa straniera, che fu La Scala d’oro); fondatore d’un errante «Teatro dei bambini»; autore di libri ridenti come il fiabesco L’uomo turchino e il novelliere Come sono felice!, in cui pure si presentono i ludolinguismi del miglior Rodari. Insomma, un operatore culturale a tutto tondo, perfettamente a suo agio in questa provincia profonda della narrativa per i più giovani che era l’Italia; e del tutto organico allo «spazio letterario» che si era definito degli anni del totalitarismo. Non stupisce troppo, allora, che Fanciulli – ch’è sempre stato un nazionalista – dia alle stampe nel 1940 un romanzo per ragazzi impavidamente intitolato Cuore del Novecento: che altro non è se non una smaccata adulazione del Duce, con in più la sconfessione del pacifismo al quale egli si era ispirato per lunghi anni.
Al netto di qualche scivolone ideologico e di un immancabile Ciuffettino balilla, parrebbe invece più incline al «preferirei di no» Yambo, maledetto toscano al pari di Collodi e di Vamba. La sua storia artistica dimostra il fatto, per niente secondario, che una provincia è anche un luogo di irrequietezza, sperimentazione, bricolage; è un luogo in cui i ruoli del gioco non sono assegnati in modo troppo rigido, o sono addirittura intercambiabili. Yambo è fantasista poliedrico e transmediale, giacché spazia dal giornalismo al disegno, dal teatro alla divulgazione, dalla narrativa lunga a quella breve; e miete pagine iperboliche e ipertestuali, ove centrifuga materiali diversi specie di provenienza francese: dal gotico al liberty. D’altronde la rapidità è, oltre che il valore estetico cui si ispirano la prosa e il tratto, anche il suo motivo prediletto. Lo aveva indovinato un lustro prima dei proclami futuristi: la più mirabolante creazione che ci ha lasciato, Capitan Fanfara, col suo bolide chiamato Saetta in fuga perenne tra il Belpaese e le Indie, reca la data del 1904. Nel 1902 lo scrittore aveva invece dato alle stampe il suo libro più pinocchiesco, Le Avventure di Ciuffettino: cui sarebbe spettata, un secolo dopo, un’onorificenza del tutto fuori programma. In un «romanzo illustrato» intriso di memoria autobiografica, La misteriosa fiamma della Regina Loana (il cui io narrante si chiama proprio Yambo), Umberto Eco avrebbe celebrato con tenerezza quella specie di spolveramobili antropomorfo, quel «bambino piccolino e graziosetto dal ciuffo di bravaccio fiabesco»: molto più rassicurante, certo, del personaggio di Collodi, che da piccolo l’aveva indotto a «ranicchiarsi sotto alle coperte, le notti di temporale» (Eco 2004, p. 137). Dentro un grigio solaio nelle Langhe o nel Monferrato, tra le nebbie del ricordo e il presagio d’una vicina apocalisse morbida, Ciuffettino diveniva così il bizzarro contro-emblema di un’autoricognizione, in un sol colpo, personale e generazionale: «Lì era nato il Yambo che sono, e che mi sono voluto. Beh, in fondo, meglio che identificarmi con Pinocchio» (ibid.).
4. Yambo si chiamava, all’anagrafe, Enrico Novelli; era figlio di Ermete, il leggendario attore che rimbalzando dalla pochade alla francese alle tragedie elisabettiane aveva praticamente trasvolato l’intera gamma dell’arte drammatica. Novelli figlio serbò traccia, nella sua portentosa produzione narrativa, di questo blasone teatrale. Novelli padre, invece, era un autentico autocrate della scena: uno che poteva permettersi di mutilare di un intero atto Il mercante di Venezia, pur di non sostare troppo dietro le quinte e, soprattutto, pur di prendersi l’applauso finale. A raccontare l’aneddoto è un suo allievo d’eccezione, Sergio Tofano (2017, p. 114), che ha consegnato al nostro Novecento alcune tra le più belle e solari e buffe storie mai scritte per i bambini.
Il signor Bonaventura, l’«eroe dinamico statico» che dai paginoni del Corriere dei Piccoli sorrideva in realtà anche agli adulti, e il cui «slancio diventava quasi subito statico, l’eleganza grafica fissava l’azzardo della parola, risolveva il movimento in grazia» (Del Buono 1974, p. 13), visse però le sue due vite fra giornale e palcoscenico, senza mai evolvere a personaggio romanzesco. Fu eroe di un’epica povera e in versi poveri: un po’ come erano poveri, in fondo, i Reali di Francia cari al sarto manzoniano. Né Tofano (anzi Sto, come si firmava per l’occasione) volle che il suo strampalato Pierrot di «un circo non fantasmagorico, ma ristretto e quasi patetico» (Faeti 1972, p. 308) alludesse, fosse pure indirettamente, alla presente tragedia bellica; la «sventura» con cui si aprivano le sue ‘comiche’ doveva esser lieve; la fine doveva esser lieta, con quel milione puntualmente piovuto dal cielo ed esibito clownescamente, «come un naso finto o un fiore che spruzza acqua» (ivi, p. 306).
Eppure quest’artista melanconico e versatile – attore per il teatro, per il cinema, per la televisione; illustratore anche per altri, e con esiti sublimi per Calvino e il suo Marcovaldo; fotografo e disegnatore dall’elegantissimo tratto déco per la moda e per la pubblicità… – l’angoscia della prima guerra mondiale la stava conoscendo, e sapeva cos’era un romanzo. Decise allora di cimentarsi, in quello stesso 1917 e sul medesimo foglio domenicale, nella scrittura d’una storia unica in più puntate, che sarebbe poi uscita anche in volume. Che si tratti di romanzo o meno (il gusto di Tofano per il paradossale provvedeva subito a smorzare il magniloquente titolo Il romanzo delle mie delusioni con il sottotitolo in bemolle Racconto piuttosto lungo), l’avventura soprannaturale di Benvenuto, scolaro (più Franti che Derossi) dinanzi al quale si schiude il sesamo divisorio tra la realtà e le favole, ha la malìa di certe invenzioni d’oltreoceano altrimenti precluse alla nostra letteratura per l’infanzia: la sottile, serpentinata linea che dal mondo di Oz conduce alla ‘meta-fiaba’ disneyana di Fantasia, insomma.
La trama era di una semplicità adamantina: dopo aver conosciuto, come nel più classico romanzo di formazione, un bravo precettore (in questo caso allampanato come Bonaventura: «un giovane alto, con una lunga zazzera di capelli color paglia, magro di una magrezza che arrivava alla trasparenza»; Tofano 1977, p. 5) e aver ascoltato dalla sua voce mirabili racconti «di sortilegi e incantesimi, metamorfosi, apparizioni e sparizioni», Fortunato gli sottrae, con mossa picaresca, un paio di magici stivali di pelle; può così partire alla volta dell’«altro reame» delle fiabe. Qui, però, deve fare i conti con un sistematico, frustrante abbassamento alla prosa del mondo: in quel mondo ‘disincantato’ si imbatte in un Aladino-sarto senza più il becco di un quattrino, in una Bella Addormentata sofferente d’insonnia cronica, in un lupo cattivo ridotto in servitù da Cappuccetto Rosso… Ne consegue un impegno del tutto inedito da parte dello studente, che tuttavia (e qui si spalanca l’abisso rispetto al modello ‘hegeliano’ di Cuore e del Piccolo alpino) viene bocciato di nuovo. Ma forse, proprio come il grande Meaulnes o il Piccolo Principe, qualcosa ha imparato. Ed è quanto, in fin dei conti, importa.
Mondo alla rovescia ‘naturale’ (fatto anche di meravigliose sortite culinarie e di esemplari punizioni) piuttosto che riflessiva e detronizzante parodia, il romanzo di Tofano appare governato da una morale agnostica e da una logica altra, duttile e aperta: quella «logica delle fiabe» che invita a «tenersi pronti «sia per un certo tipo di avvenimenti che per il loro contrario» (Faeti 1977, p. 108). Non v’è dubbio che l’habitat elettivo di Fortunato sia lo stesso in cui nel 1919 era venuta al mondo, esposta ai raggi della Luna, la terribile Viperetta di Antonio Rubino (poi adorata da Calvino); e soprattutto lo stesso in cui era sbocciato, già nel 1907, il più popolare journal, anzi Giornalino, della letteratura italiana: quello di Giannino Stoppani, al secolo Gian Burrasca.
Nel 1943 Tofano dirige per il cinema proprio un Gian Burrasca, riservandosi il cameo del maestro di pianoforte (appena l’anno prima, per Cenerentola e il signor Bonaventura, si era regolato in modo simile, vestendo i panni del dottore). Lo scrive insieme ad altri tre sceneggiatori, tra i quali è Cesare Zavattini. Negli stessi mesi, quest’ultimo pubblica in forma di romanzo, anzi di «romanzo per ragazzi (che possono leggere anche i grandi)», Totò il buono: la storia – cucita su misura per il Totò vero, Antonio de Curtis – di un pover’uomo dell’immaginaria città di Bamba, nato sotto un cavolo e capace, grazie a una colomba bianca e a due angeli custodi, di compiere miracoli per un giorno. Una storia di meraviglioso urbano e di onirica ecologia, idealmente sospesa tra Pollyanna e Mary Poppins, tra Alain-Fournier e Palazzeschi (cfr. Zanotti, 2001, pp. 127-42). Una storia – soprattutto – che avrebbe conquistato Vittorio De Sica.
5. Che Zavattini e Sto si trovino insieme su quel set non è certo un caso: è il segno di un’appartenenza. Perché Il Giornalino di Gian Burrasca, «rivisto, corretto e completato da Vamba» (così recitava il paratesto, neanche si trattasse di un manoscritto ritrovato o di una qualsiasi robinsonata), resoconto quotidiano delle marachelle architettate da un enfant du siècle per sbugiardare l’ipocrisia dei grandi, era uno e bino: da un lato un’ironia candida e campata in aria, che ammiccava allo smagliante archetipo shandyano persino nelle trovate grafiche (il 16 ottobre Giannino lascia un’impronta nerofumo della sua mano sotto la scritta autografa «Moio per la libertà»; e quella pagina imbrattata viene riprodotta nell’oggetto-libro); dall’altro una pungente irrisione dell’oggi e dei comportamenti che avevano contrassegnato la borghesia italiana fin dalla nascita del Regno (basti rileggere l’‘attacco’: «Ecco fatto. Ho voluto ricopiare qui in questo mio giornalino il foglietto del calendario d’oggi, che segna l’entrata delle truppe italiane in Roma e che è anche il giorno che son nato io»). Insomma, in questo ometto di «nove anni finiti», capace come ogni briccone che si rispetti di una purissima verità sapienziale, coabitavano il satirista corrosivo ‘per adulti’ del «Fanfulla» o del «Capitan Fracassa» e il soave e spettacoloso umorista di Ciondolino: quello persuaso della moralità dei più piccoli e della loro facoltà di studiare con speciale scientificità, proprio in virtù di quella piccolezza, le cose del mondo.
In fondo, nel vergare il diario di Giannino, Vamba – pseudonimo significativamente mutuato dal buffone dell’Ivanhoe – stava solo in parte cambiando strategia rispetto a Ciondolino. In quella prima prova narrativa, risalente al 1895, egli aveva infatti lambito le regioni delle «meraviglie del possibile» inscenando una lillipuziana metamorfosi in formica; qui invece imboccava senz’altro la via di un realismo domestico e ‘municipale’ (anche nella pasta della lingua, che era una koinè italiana medio-colta venata di toscanismi). Restava però saldo il principio, ottico e insieme eidetico, di una miniaturizzazione, di una focalizzazione dal basso e dal piccolo: utile a diagnosticare, con straniamento regressivo, i più acuti mali del ‘secolo stupido’.
Se questo è vero, e se è vero che Gian Burrasca fu soprattutto un obliquo “discorso alla Nazione” e ai rampolli del ceto medio in chiave «nazionalista, interventista, irredentista» (Boero-De Luca 1995, p. 172), cionondimeno vive tra le sue pagine lo stesso slancio ilare e ribaldo, se si vuole perfino anarchico, che animerà le pagine di Sto e Zavattini, alleati non fortuiti in quella retrouvaille cinematografica del 1943. Gian Burrasca che con la sua lenza ‘pesca’ l’unico dente del signor Venanzio, o che buca una parete facendo credere al direttore dell’albergo che dietro di essa si nasconda uno spettro, o che aiutandosi con un salame muta un porco in coccodrillo, appare come un avo cartonato del signor Bonaventura: li accomuna l’idea di un comico quintessenziale, di una gag liberatoria e gratuita. Per contro, Gian Burrasca che s’inventa la strategia dei granelli di anilina per smascherare la frode della minestra del venerdì, o che induce una «Società Segreta» collegiale da lui costituita al sabotaggio delle scorte di riso, o che intona il celeberrimo inno alla gioia e alla pappa col pomodoro, sembra dotato della stessa audacia ideale e concretissima di Totò il buono: come questi, può assurgere a emblema di un’utopia (o di un’eresia) pauperista, che sogna un bonheur diffuso fra tutti gli uomini. Per quanto sia «l’ultimo carbonaro, il primo Balilla, l’eterno giolittiano» (Faeti 2011), il monello di Vamba alberga davvero, come il signor Bonaventura e Totò il buono, in un inesaudito paradiso dei semplici.
Questo cammino a ritroso, partito da un inferno del 1954 (l’inferno di un pupazzo incriminato di bolscevismo), può così concludersi in uno spazio ridente, costellato di parole in gioco e di immagini della fantasia: forse la sola dimora ove la nostra letteratura per l’infanzia abbia potuto insediarsi in modo felice, per giunta offrendo un proprio contributo originale all’avventura europea della forma romanzo. Non è privo di significato che la prima edizione del debutto narrativo di Gianni Rodari, quelle Avventure di Cipollino i cui personaggi sono tutti vegetali, si intitolasse appunto Il romanzo di Cipollino. Nel 1951 colui che diverrà il nostro più celebrato, ristampato e tradotto scrittore per bambini non è esente da una certa ambizione verso il genere letterario «canonico»; e infatti, anche se le peripezie dell’ortaggio a capo d’una rivoluzione dei poveri sembrano situarsi – per la rappresentazione surreale, per la struttura frammentaria, per la morale manichea – nell’ambito morfologico della fiaba, tuttavia si deposita al loro fondo una sorta di principio realistico. Tale principio si nutre, come riconoscerà lo stesso Rodari, dell’esperienza maturata negli anni di pratica come cronista all’«Unità», in cui aveva acquisito confidenza con le «questioni alimentari» e con i «tanti problemi nella borsa della gente» (cfr. Boero 1992, p. 119). Insomma, era ancora la conoscenza senza filtri di quell’Italia non abbandonata dalle lucciole, e dipinta nei libri di scuola nei modi del più stucchevole idillio, a muovere la penna; ancora una preoccupazione d’ordine morale, ancora il progetto visionario di un’armonia tra le classi, ancora l’idea di un mondo salvato dai ragazzini.
Nel 1973, nel pieno degli anni di piombo, Rodari pubblicherà la Grammatica della fantasia: il suo trattato di “fantastica” che è anche uno straordinario manifesto civile e politico; e in cui, come sarebbe senz’altro piaciuto a Calvino, «il Fantasista e il Ragioniere cavalcano insieme sulle due gobbe di un cam- mello» (Bartezzaghi, 2010, p. 222). Nell’introduzione del volume, quasi officiando le nozze tra paidía e ludus, col suo consueto garbo scriverà: «Io spero che il libretto possa essere egualmente utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. Tutti gli usi della parola a tutti mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo» (Rodari 1973, p. 6). La banda di Gian Burrasca, Chiodino e Cipollino poteva ancora vincere la sua battaglia.
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