di Francesco de Cristofaro

 

[LPLC celebra il centenario della nascita di Gianni Rodari pubblicando una versione ridotta del capitolo Il secolo dei fanciulli. Romanzi per l’infanzia tra Italia e mondo, tratto da Il romanzo in Italia, a cura di G. Alfano e F. de Cristofaro, III. Il primo Novecento, Carocci, Roma 2018, pp. 439-454. Ringraziamo l’autore e l’editore].

 

1. Italia, estate del 1954. All’inizio dell’anno è caduto il governo democristia­no pre­­sieduto da Giuseppe Pel­la e appoggiato dai liberali e dai filomonarchici; è salito a Palazzo Chigi, dopo un tentativo miseramente fallito di ese­cutivo monocolore con alla guida Fanfani, Mario Scelba, fedelissimo di De Gasperi. Il clima istituzionale è roven­te a causa della cosiddetta «legge truf­fa» che, auten­tico evergreen della nostra de­mocrazia, assegna un premio alla mag­­gio­ranza; a giugno è stata sconfitta. Nell’anno in cui arrivano nelle ca­se americane i pri­mi tv-color, debutta la programmazione della Radiotelevisio­ne ita­­liana. Le sale cinematografiche proiettano La stra­da di Fellini, Senso di Visconti, Viaggio in Italia di Rossellini; ma anche pellicole dai titoli parlanti quali Vergine moder­na o Amar­ti è il mio peccato. Ci sono alme­­no due Italie. Intanto dallo scenario internazionale giungono segnali ambigui: l’i­­nizio del­­la guerra d’Algeria coincide con il termine del conflitto in Indo­cina, vin­to dai vietnamiti. I costi umani sono altissimi. Con la politica del con­teni­men­to di Eisenhower da un lato e la destalinizzazione kruscioviana dal­­l’altro sembra essersi aperta una nuova fase di tregua armata, forse meno aspra.

 

In realtà, in quel 1954 la guerra fredda si è ormai, diciamo così, fatta ver­bo. Si è infiltrata nel­le pieghe più insospettabili della società civile e del dibat­tito cul­turale. Così, quan­do Chiodino, l’uomo-odradek ideato per il pub­bli­co dei più piccoli da Marcello Argil­li, evade dai fogli sgargianti di un giornalino per dar vita a un «romanzo» di largo successo popolare, scoppia subito una polemica che, a leggerla oggi, suonerà forse assur­da nei toni e nel merito. Eppure quello scontro, che non è solo politico, può illuminare per un istante la cruciale funzione formativa e ideologica ricoperta dalla letteratura giovanile nel Novecento italiano, almeno fino al dopoguerra.

 

Pubblicate da CDS (Centro di Diffusione Stampa), editore vicino al Partito Comunista, Le avventure di Chiodino erano dapprima uscite alla spiccio­lata sul Pioniere, il periodico per l’infanzia di area ‘progressista’ che in que­­gli anni si contrapponeva al cattolicissimo Vittorioso. Il protagonista, che era di­­venuto subito un beniamino dei ragazzi tanto da essere riprodotto in diffusissimi giocattoli, presentava un corpo di metallo come il boscaiolo del Ma­go di Oz, ma diversamente da lui aveva anche un cuore: quel cuore che lo portava a farsi animale sociale, a nutrire teneri sentimenti verso la sua Perlina, a contrapporsi al volto demoniaco del potere, alle ingiustizie della giustizia, al dominio del capitale; e soprattutto a promuovere un’alleanza tra gli umili, al fine di ristabilire una tavola di valori umana e condivisa.

 

Si fa qualche fatica a crederlo, ma il romanzo fu avvertito da alcuni esponenti della DC come una specie di affronto. E in qualche modo lo era: nel senso che Chiodino sferrava, è il caso di dire, un pugno di ferro – pur coi guanti di velluto della favola surreal-utopica – contro il moralismo ben­pensante cui s’ispirava la letteratura d’istruzio­ne del tempo. Non molto differen­­temente dall’occhiuta «fabbrica del consenso» fascista, la cultura della ricostruzio­ne aveva provveduto a recintare la gioventù italiana con un cordo­ne sanitario, nella convinzione che fosse più che mai esposta alle deviazio­ni dell’i­deo­logia. Ecco allora che, proprio mentre aumentava la posta in gio­co (l’an­­no dopo sarebbero stati varati i programmi Ermini per la scuola elementare), dalle colonne di un periodico organico al partito di governo Italo Borzi tuonò che il robot di Argilli era la «pedissequa imi­tazione del buratti­no di Collodi, ma oppor­tunamente aggiornata secon­do i dettami del­la teoria marxista»; e che veniva meno all’impegno «di inserire i fanciulli nella società in cui vivono per farne dei rispettabili cittadini» (Borzi 1954; cfr. Boero-De Lu­ca 2009, p. 205). Ancor più Lucignolo che Pinoc­chio, Chio­di­no mirava insomma, a detta dell’oscuro polemista de «La Discussione», a incitare alla «rivolta contro lo stato, per accelerare la conquista del pote­re». Questa nuova ‘pinocchia­ta’ nascondeva in seno una serpe bolscevica.

 

Proprio «Le avventure di un “Pinocchio bolscevico”» s’intitolava il pez­zo, sferzante, con cui «L’Unità» ribatteva a Borzi. Lo firmava un giovane pubblicista engagé ed eterodosso, che pochi anni prima si era distinto come responsabile di una rubrica domenicale destinata ai bambini; e che si era rita­gliato un posto ragguardevole nella letteratura di genere con Il libro delle filastrocche, Il romanzo di Cipollino e Le avventure di Scarabocchio. Dopo avere appunto fondato il Pioniere, si era infine procurato una scomunica dal Vaticano (come «ex-seminarista cristiano diventato diabolico»!) e persino l’autodafé parrocchiale delle sue pubblicazioni. Si chiamava Gianni Rodari.

 

Erano ancora tempi di malafede. Né le cose sarebbero cambiate presto, con un comparto educazione ancora addormentato su libri di lettura ipo­cri­ta­mente inneggianti alla «santa campagna», e pronto a punire con uno zéro de conduite i volteggi della fantasia. L’Italia oleografata nei testi scolastici del tempo era una formazione immaginaria sospesa tra un ormai ir­reale “Paese Reale” e l’Ar­cadia: dì lì a molti anni, sull’onda lunga della contestazione studentesca, inchieste come I pampini bugiar­di (1972) avreb­­bero demistifi­cato le inadeguatezze di un’editoria specialistica fuori dal mondo. E per la ve­rità già nel ’47, con lungi­miranza di vero «pionie­re», lo stesso Rodari ave­va arato il campo, pubblicando sempre sull’«U­ni­tà» i risultati di un’indagine personalmente svolta attraverso cen­tinaia di volumi adottati negli istituti nell’immediato dopoguerra. E aveva restituito, insieme a una co­spicua messe di campioni testuali, il ritratto avvilente di una nazione «bacchet­tona e timorosa del nuovo, saldamente ancorata a un cli­ma di codino moralismo creato soprattutto da ambienti cattolici» (Boero-De Luca 2009, p. 213).

 

Sette anni dopo, la scuola italiana era ferma sempre lì. Alla fine di quello stes­so 1954 un prete-maestro di Firenze, don Lorenzo Milani, sarebbe giun­to in uno sperduto paese della campagna mugellese, Barbiana, per intraprendervi il suo rivoluzionario esperimento di istruzione moderna, inclusiva e democrati­ca. Quanto a Rodari, quel processo sommario a un pupazzo ritenu­to «non compatibile col Codice Penale», e accusato di inculcare nei ragazzi il sentimen­to che «u­ni­sce i fuorilegge di una stessa banda o di una stessa gan­ga» (ovvero «l’o­mertà fra un gruppo di individui che si fa giustizia da sé contro la perfidia della polizia e dei ricchi»), era una nuova occasione per esprimere ancora una volta la sincera preoccupazione pedagogica che non lo avreb­­be mai abbando­nato. Era proprio quella preoccupazione a indurlo a spiegare che il romanzo di Argilli non costituiva affatto un dogmatico «trattato di pedagogia», bensì «una storia vivace e divertente, con qualche spun­to di bonaria critica sociale, che si guar­da bene dall’approfondire e dall’amplificare. I nostri bambini avranno tem­po di leggere Marx ed Engels quando saranno gran­di: per il momento han­no bisogno solo di storie divertenti, e che non esaltino la guerra e la violenza» (Rodari 1954).

 

Queste frasi, infilate con naturalezza cristallina, contenevano in fon­do qual­cosa di scandaloso: la protesta contro l’ideologizzazio­ne della letteratura infanti­le, l’i­dea molto semplice che essa serva all’evasione, non alla coo­­p­tazio­ne; al diletto ludico, non a forme di catechesi. Tra le due strade che si era­no aperte negli anni ’80 dell’Ottocento, tra la retorica della patria e dei buo­ni sen­timenti di De Amicis e la sovversione dei sensi, delle istituzioni e dello stesso principio di realtà di Collodi, Rodari non aveva dub­bi. E coglieva l’oc­casione per precisare – al fine di «rinfrescar la me­mo­ria» a Borzi & Co., sgomberando il campo dall’equivoco che Pinocchio fosse «a­pologia del be­ne» e Chiodino «apologia del male» – che anche al burattino ante­na­to, così poco incline alla preghiera, era da principio toccato lo stigma dei cattolici. In seguito, però, gli era stato universalmen­­te riconosciu­to «valore educativo»: nonostante fosse screziato da allegoriche lepidezze e da spunti satirici.

 

Non a caso l’articolo si chiudeva con una lunga citazione dalla sce­na di Pi­nocchio in cui viene proclamata un’am­nistia generale nella città di Acchiap­pacitrulli: il protagonista, imbrogliato dal Gat­to e dalla Volpe, è scar­cerato non benché, ma perché «malandrino». Di là dal suo portato ideologico, il bra­­no ripreso da Rodari aveva il merito di condurre alle radici stes­se della for­ma-roman­­­zo: tra i Re Baldoria e i Paesi di Cuccagna, tra i mon­di alla rovescia e i giganti buffoni. Come si vedrà più avanti, è proprio in questo territorio for­ma­le – il cui principio estetico è, bachtinianamente, un riso «sco­ronan­te» e «smem­bran­te» – che il nostro romanzo per l’infanzia ha dato i risultati mi­­gliori: prestando orecchio, per quanto gli era possibile, ai grandi modelli europei e americani; e riuscendo a costituire, nel sottosuolo di un Kindergarten pieno di solfa patriottica e bigotta, una specie di sacca di resistenza. In questa riserva della fantasia il Gian Burrasca di Vam­ba, il Chiodino di Argil­li, il Capitan Fanfara di Yambo, il Totò di Zavattini, il signor Bonaventura di Sto, il Cipollino di Rodari si divertono esercitando un’intel­ligen­za nutrien­te, franca, dadaista: in compagnia, magari, di personaggi di un’altra progenie (da Bàrnabo delle montagne a Marcovaldo), pensati per uo­mini che vogliono essere bambini e per bambini che vogliono essere uomini.

 

2. Rodari non stava certo sparando a salve: poche righe più sopra, immaginan­do per assurdo un Chiodino «che andasse all’as­salto di una Casa del popolo, o che guidasse una pattuglia di crumiri», e chiosando perfidamente che i catto­lici senz’al­tro «gli avrebbero eretto un monumen­to», aveva alluso a quei metodi di persuasione (nemmeno troppo occulti) con cui da tem­po, anche ad avvenuta tumulazione del Duce, si pilotavano, intorbidivano e plasmavano le coscienze dei più giovani nel nome di Pinocchio. Al pari delle av­venture di Sandokan, anche le avventure del bambino di legno erano infinite.

 

La ricreazione, invece, era finita. Sembravano ormai tramontati, almeno in patria, i tempi in cui i bambini giocavano alla guerra – come ancora poteva avvenire nelle piccole epiche di Ferenc Molnár (I ragazzi della via Pál, 1906) o di Louis Per­gaud (La guerra dei bot­to­ni, 1912). Dopo il pluritradotto Pinocchio in Affrica di Eugenio Che­ru­bini (1903), con tanto di incoronazione impe­riale del protagonista, quello che An­tonio Gibelli ha chia­mato «il popolo bambino» s’era fatto irretire da innumerevoli revival e «spedizioni punitive» della marionetta (cfr. da ultimo Curreri 2017): che in queste “con­ti­nua­zioni”, sovente grevi, poteva mantenere inalterato il proprio nome o essere ribattezzata, con un po’ di goffaggine, Pistacchio. Altro che Chiodino.

 

Questa metamorfosi, prima in soldato e poi in balilla, è preziosa perché ci offre un ottimo esempio dei reinvestimenti di senso che la politica e la propaganda riservarono ai mitologemi (oltre che ai memi) che scorrevano nel­la cultura di mas­sa. C’è però una microstoria più puntuale, più personale e anche più ossessiva da cui conviene ripartire. Il 25 dicembre 1917, cioè due mesi dopo la disfatta di Caporetto, Paolo Lorenzini, passato alle cronache come Collodi Nipote e già autore del non spregevole Sussi e Biribissi (una “cantafavola” argutamente sospesa tra Verne e Cervantes), dà alle stampe un sequel del capolavoro di zio Carlo, Il Cuore di Pinocchio: un ibrido testuale in cui i due volti opposti del romanzo infantile italiano si fondono sin dal­l’ecla­tante titolo. Ciò che udiamo in questa disturban­te e quasi dickensiana stren­na natalizia sono soprattutto le «voci di dentro» del­la Gran­de Guerra: men­tre la disputa Borzi-Rodari ci ha appena mostrato come la più smagata e soave narrativa giovanile potesse trasformarsi, in letture tendenziose e ideologiche, in qualcosa di tremendamen­te serio, al contrario il palinsesto di Pinocchio a opera di Collodi Nipote mette dinanzi ai nostri occhi una effettiva torsione del te­sto d’origine. La creatura lorenziniana, un ragazzino partito per il fron­te alla ricerca del­la «bella morte» (dunque relativamente simile alle indifese vittime sacrificali di certe parabole deamicisiane, da Il tamburino sardo a La piccola vedetta lombarda), sembrava più Frankenstein che Pinocchio: «carne e legno, osso e ottone: era nato l’uomo bionico in sim­biosi con i ricambi corporei, il reduce meccanico» (Caffarena 2012, p. 491).  Tuttavia il suo corpo composto di disiecta membra, tutto mutilazioni e protesi, non fu che l’esito più aberrante di quella retorica dell’amor patrio e della stigmatizzazione del diverso che aveva e avrebbe dilagato nel­le letture infantili e soprattutto nei libri scolastici: toccando, dentro le scritture degli emuli di Salgari, punte di razzismo insostenibili.

 

Giusto nell’anno dell’istituzione dell’O­pe­ra Nazionale Balilla (1926) avrebbe visto invece la luce il massimo successo commer­ciale nella narra­tiva italiana di guerra di ogni tem­po: quel Piccolo alpino in cui «il romanzesco […] ricompare per cancellare ogni traccia di realismo» (de Leva 2017, p. 186). Scrit­to da Salvator Gotta, già autore dell’inno ufficiale del Partito Naziona­le Fascista Giovinezza, il romanzo raccontava le gesta di Giacomino, un ragazzo che, dopo che i suoi genitori risultano dispersi a causa di una valanga, diviene mascotte degli alpini e poi tetragono modello di eroismo.

 

Piccolo alpino rimodulava le litanie dei «rac­conti mensili» di Cuo­re enfatizzandone gli aspetti guerrieri e patriottici. Dagli Appennini di De Amicis alle Alpi di Gotta si verificava però un cambiamento importante: nei mesi di presunta orfanità Giacomino ap­pa­riva mosso, più che dall’e­la­borazione del lut­to, dall’ebbrezza della mobilitazione, del “rito di passaggio” anticipato al­l’esperien­za adulta, della conquista di un’autonomia dal nido familiare («vi è […] una relazione simbolica stret­ta tra questi tre termini: la separazione dai genitori […], la fine dell’infanzia e dell’adolescenza, il servizio militare finalizzato alla guerra»: Gibelli 2005, p. 98). E soprattutto egli non moriva, anzi nell’epilogo il Re gli appuntava in petto una medaglia d’oro al valore. Dopodiché, come è d’uopo per un bravo ragazzo, ricominciava a studiare. Il San Bernardo che accompagnava il piccolo alpino nelle sue imprese si chiamava Pin; chissà se Italo Calvino se ne accorse, quando decise di battezzare alla stessa maniera il giovane protagonista del Sentiero dei nidi di ragno, che certo appartiene a una stirpe opposta a quella di Giacomino – la stirpe di Pollicino e di Pip. La storia della letteratura può fare brutti scherzi.

 

3. Si può dire che non ci sia stata casa della nostra borghesia novecentesca che non abbia posseduto Il piccolo alpino o volumi analoghi di Laura Orvieto, Giuseppe Nuccio o Ugo Mioni, baciati da stratificata e longeva for­tuna editoriale. A doverli valutare con un occhio critico e comparatistico, colpirebbe soprattutto la distan­za che sembra separarli da alcune opere straniere coeve dall’eccezionale modernità e libertà formale, e spesso vicine alla formula del Bildungsroman (cfr. Zanotti 2001, passim; e Calabrese 2013, pp. 171 ss.): opere che nell’Italia umbertina e fascista furono igno­­ra­­te o cen­surate con le motivazio­ni più assurde, e che dovettero aspettare l’adattamen­to in cartoon per poter divenire patrimonio, socialmente trasversa­le, della nostra gioventù. Il catalogo, il cui capostipite non può che essere il Peter Pan di Barrie (1906), va da Anna dai capelli rossi (ma in realtà si trattava di green gables, ‘verdi abbaini’) di Lucy Maud Montgome­ry (1908) a Pollyanna di Eleanor Hodgman Porter (1913), da Bambi di Felix Salten (1923) a Mary Poppins di Pamela Lyndon Tra­vers (1934): «ro­man­zi» che trascendono l’idea di una «letteratura del “Qui” mostrato pesantemente come unico mondo narrabile», dando vita a «una letteratura per l’infanzia diversa, più poetica, che anche se non rinuncia a dar conferme della realtà esistente si protende verso altro e mostra il legame profondo dell’uomo – o meglio del bambino – con l’universo» (Grilli 2011, p. 46). Al contrario, la stragrande maggioranza degli autori italiani qui menzionati restano fedeli al «presupposto che il mondo sociale in cui si vive, quello fatto dei problemi di tutti i giorni, sia il mondo di cui si deve parlare, di cui si devono imparare dinamiche e valori, e in cui ci si deve in qualche modo inserire» (ibid.). Inoltre essi mostrano una sostanziale sordità nei confronti dei nuo­vi paradigmi della “scien­­za dell’infanzia”, per come erano stati illustrati già all’al­ba del Novecento da un libro come Il secolo dei fanciulli di Ellen Key (subito tradot­to in tutta Europa; in Italia nel 1906, cioè l’an­­no che precede il varo, a Roma, della prima «Casa dei bam­bi­ni» di Maria Montessori). Sebbene non fosse privo di idio­sincrasie e di aporie, il volume segnava un punto di svolta – in un incrocio per lo più inconsapevole tra le teorie di Darwin, Marx e Freud – entro il lungo processo sociale e culturale che sarebbe stato descritto da Philippe Ariès nelle sue famose pagine sul «sentimen­to del­l’in­fan­zia» nell’Euro­pa medievale e moderna. Il discorso di Key puntava soprat­tut­to a un superamento tanto della concezione d’una sostan­zia­le uni­for­mità tra le fasi della vita (il mito del parvus ho­mo), quanto di una biopolitica del­la puerizia conseguita attraverso dispositivi di segregazio­ne, controllo e pianificazio­ne. Erano così poste le basi di una pedagogia sperimentale attenta a valorizzare la specificità della psiche del soggetto infantile e delle sue pulsioni, e proiettata alla progettazione di spazi educativi dedicati.

 

Le punte femministe del saggio, che si giovò anche del sostegno di Sibilla Aleramo, non mancarono di suscitare polemiche e prese di distanza; eppure non può che condividersi la critica al modello patriarcale (che tende a trasformare il bambino in «par­te del greg­ge che il ‘superuomo’ domina»: Key 1906, p. 9) e militaristico («Si direb­be che fin dal­l’asilo pensiamo ai soldati che i nostri bimbi dovranno essere un gior­no»: ivi, p. 164), a favore dell’opzione simmetrica: quel­­­la stessa opzio­ne rispettosa della dimensione leggera, «fantastica» e autonoma del­la fanciullezza che veniva rivendicata anche nel­l’ar­­ticolo di Rodari da cui abbiamo preso le mosse.

 

È interessante notare come alcuni auto­ri bascularono per tutta la vita tra queste due antitetiche possibilità. Rasenta la schizofrenia, e induce un sincero dispiacere, il caso di Giuseppe Fanciulli, forse il più aggiornato e poligrafo fra i liberi battitori dei sentieri della letteratura infantile. Fu redattore dalla pri­ma ora del «Gior­­nalino del­la Domenica», e poi direttore di altri periodici specializzati; estensore di una moderna agiografia di San Filippo Neri; stu­dioso di psico­pedagogia e coautore di una storia della letteratura dei piccoli; compilatore di manuali adottati in tutte le scuole del Regno e di una «piccola enciclopedia dei ragazzi curiosi» intitolata, con prefigurazione rodariana, Il libro dei perché; tra­dut­tore ed epitomatore di classici (pratica, questa, diffusissima nell’I­ta­lia autarchica: basti pensare a quella palestra creativa, nonché base di stoccaggio della narrativa straniera, che fu La Scala d’oro); fondatore d’un erran­te «Teatro dei bam­bini»; autore di libri ridenti come il fiabesco L’uo­mo turchino e il novelliere Come sono felice!, in cui pure si presentono i ludolinguismi del miglior Rodari. Insom­ma, un operatore culturale a tutto tondo, perfettamente a suo agio in questa provincia profonda del­la narrativa per i più giovani che era l’Italia; e del tutto organico allo «spazio letterario» che si era definito degli anni del totalitarismo. Non stupisce troppo, allora, che Fanciulli – ch’è sempre stato un na­zionalista – dia alle stampe nel 1940 un romanzo per ragazzi impavidamen­te intitolato Cuo­re del Novecento: che altro non è se non una smaccata adulazione del Duce, con in più la sconfes­sione del pacifismo al quale egli si era ispirato per lunghi anni.

 

Al netto di qualche scivolone ideologico e di un immancabi­le Ciuffettino balilla, parrebbe invece più incline al «preferirei di no» Yambo, maledetto tosca­no al pari di Collodi e di Vamba. La sua storia artistica dimostra il fatto, per niente secondario, che una provincia è anche un luogo di irrequietezza, sperimentazione, bricolage; è un luogo in cui i ruoli del gioco non sono assegnati in modo troppo rigido, o sono addirittura intercambiabili. Yambo è fantasista poliedrico e transmediale, giacché spazia dal giornalismo al disegno, dal teatro alla divulgazione, dalla narrativa lunga a quella breve; e mie­te pagine iperboliche e ipertestuali, ove centrifuga materiali diversi specie di provenienza francese: dal gotico al liberty. D’altronde la rapidità è, oltre che il valore estetico cui si ispirano la prosa e il tratto, anche il suo motivo pre­diletto. Lo aveva indovinato un lustro prima dei proclami futuristi: la più mira­­bo­lante crea­zio­ne che ci ha lasciato, Capitan Fanfara, col suo bolide chia­ma­to Saetta in fuga perenne tra il Belpaese e le Indie, reca la data del 1904.  Nel 1902 lo scrittore aveva invece dato alle stampe il suo libro più pinocchiesco, Le Avventure di Ciuffettino: cui sarebbe spettata, un secolo dopo, un’o­no­­ri­ficenza del tutto fuori programma. In un «romanzo illustrato» intriso di memo­ria autobiografica, La misteriosa fiamma della Regina Loana (il cui io narrante si chia­ma proprio Yambo), Umberto Eco avrebbe celebrato con te­nerezza quel­­­la specie di spolveramobili antropomorfo, quel «bambino pic­co­­lino e graziosetto dal ciuffo di bravaccio fiabesco»: molto più rassicurante, certo, del personaggio di Collodi, che da piccolo l’aveva indotto a «ra­­­nic­chia­rsi sotto alle coperte, le notti di temporale» (Eco 2004, p. 137). Dentro un grigio solaio nelle Langhe o nel Monferrato, tra le nebbie del ricordo e il presagio d’una vicina apocalis­se mor­bida, Ciuffettino diveniva così il bizzarro contro-emblema di un’au­to­rico­gni­zione, in un sol colpo, personale e generazionale: «Lì era nato il Yambo che sono, e che mi sono voluto. Beh, in fondo, meglio che identificarmi con Pinocchio» (ibid.).

 

4. Yambo si chiamava, all’anagrafe, Enrico Novelli; era figlio di Ermete, il leggen­dario attore che rimbalzando dalla pochade alla fran­cese alle tragedie elisa­bettiane aveva praticamente trasvolato l’intera gam­ma del­l’a­rte dramma­­tica. Novelli figlio serbò traccia, nella sua portentosa produzione narrati­va, di questo blasone teatrale. Novelli padre, invece, era un autentico autocra­te del­la scena: uno che poteva permettersi di mutilare di un intero at­to Il mercante di Venezia, pur di non sostare troppo dietro le quinte e, soprattutto, pur di pren­­dersi l’applauso finale. A raccontare l’aneddoto è un suo allievo d’ec­ce­zio­­­­ne, Sergio Tofano (2017, p. 114), che ha consegnato al nostro No­vecen­to alcune tra le più belle e solari e buffe storie mai scritte per i bambini.

 

Il signor Bonaventura, l’«eroe dinamico statico» che dai paginoni del Corriere dei Piccoli sorrideva in realtà anche agli adul­ti, e il cui «slancio diven­tava quasi subito statico, l’eleganza grafica fissa­­va l’az­zardo della parola, ri­solveva il movimento in grazia» (Del Buono 1974, p. 13), visse però le sue due vi­te fra giornale e palcoscenico, senza mai evolvere a personaggio roman­­zesco. Fu eroe di un’epica povera e in versi poveri: un po’ come erano poveri, in fondo, i Reali di Francia cari al sarto manzoniano. Né Tofano (anzi Sto, co­me si firmava per l’occasione) volle che il suo strampa­lato Pier­rot di «un circo non fantasmagorico, ma ristretto e qua­si pa­teti­co» (Faeti 1972, p. 308) alludesse, fosse pure indirettamente, alla pre­sen­­te tra­gedia bellica; la «sven­­tura» con cui si aprivano le sue ‘comiche’ doveva esser lieve; la fine dove­va esser lieta, con quel milione puntualmente piovuto dal cielo ed esibi­to clownescamente, «come un naso finto o un fiore che spruzza acqua» (ivi, p. 306).

 

Eppure quest’artista melanconico e versatile – attore per il teatro, per il cine­ma, per la televisione; illustratore anche per altri, e con esiti sublimi per Calvino e il suo Marcovaldo; fotografo e disegnatore dall’elegantissimo trat­to déco per la mo­da e per la pubblicità… – l’angoscia della prima guerra mondia­le la stava conoscendo, e sapeva cos’era un romanzo. Decise allora di cimen­­tarsi, in quello stesso 1917 e sul medesimo foglio domenicale, nella scrittura d’una storia unica in più puntate, che sarebbe poi uscita anche in vo­lu­me. Che si tratti di romanzo o meno (il gusto di Tofano per il paradossale prov­vedeva subito a smorzare il magniloquente tito­lo Il romanzo delle mie delusioni con il sottotitolo in bemolle Racconto piuttosto lungo), l’avventura soprannaturale di Benvenu­to, scolaro (più Fran­ti che Derossi) dinanzi al qua­le si schiude il sesamo divisorio tra la realtà e le favole, ha la malìa di certe invenzioni d’oltreoceano altrime­nti precluse alla nostra letteratura per l’infanzia: la sottile, serpentinata linea che dal mondo di Oz conduce alla ‘meta-fiaba’ disneyana di Fantasia, insomma.

 

La trama era di una semplicità adamantina: dopo aver conosciuto, come nel più classico romanzo di formazione, un bravo precettore (in questo caso allam­panato come Bonaventu­ra: «un giovane alto, con una lunga zazze­ra di capelli color paglia, magro di una magrezza che arrivava alla trasparen­za»; Tofano 1977, p. 5) e aver ascoltato dalla sua voce mirabili raccon­ti «di sortilegi e incan­tesimi, metamorfosi, apparizioni e sparizioni», Fortuna­to gli sottrae, con mos­sa picaresca, un paio di magici stivali di pelle; può così partire alla volta del­l’«altro reame» delle fiabe. Qui, però, deve fare i conti con un siste­mati­co, fru­strante abbassamento alla prosa del mon­do: in quel mondo ‘disincantato’ si im­batte in un Aladi­no-sarto senza più il becco di un quat­trino, in una Bella Addormentata sofferen­te d’insonnia croni­ca, in un lupo cattivo ridotto in servitù da Cappuccet­to Rosso… Ne conse­gue un im­pegno del tut­to inedito da parte dello studen­te, che tutta­via (e qui si spalanca l’abis­so rispetto al modello ‘hegeliano’ di Cuo­re e del Piccolo alpino) viene bocciato di nuovo. Ma forse, proprio come il grande Meaul­nes o il Piccolo Principe, qual­­cosa ha imparato. Ed è quanto, in fin dei conti, importa.

 

Mondo alla rovescia ‘naturale’ (fatto anche di meravigliose sortite culinarie e di esemplari punizioni) piuttosto che riflessiva e detronizzante parodia, il ro­man­­zo di Tofano appare governato da una morale agnostica e da una logica altra, duttile e aperta: quella «logica delle fiabe» che invita a «tenersi pronti «sia per un certo tipo di avvenimenti che per il loro contrario» (Faeti 1977, p. 108). Non v’è dubbio che l’habitat elettivo di Fortunato sia lo stesso in cui nel 1919 era venuta al mondo, esposta ai raggi della Luna, la terribile Viperetta di Antonio Rubino (poi adorata da Calvino); e soprattutto lo stesso in cui era sbocciato, già nel 1907, il più popolare journal, anzi Giornalino, della letteratura italiana: quello di Giannino Stoppani, al secolo Gian Burrasca.

 

Nel 1943 Tofano dirige per il cinema proprio un Gian Burrasca, riser­vandosi il cameo del maestro di pianoforte (ap­pena l’anno prima, per Cenerentola e il signor Bonaventura, si era regolato in modo simile, vestendo i panni del dottore). Lo scrive insieme ad altri tre sceneggiatori, tra i quali è Cesare Zavattini. Negli stessi mesi, quest’ultimo pubblica in forma di roman­zo, anzi di «romanzo per ragazzi (che possono leggere anche i gran­di)», Totò il buo­no: la storia – cucita su misura per il Totò vero, Antonio de Cur­tis – di un pover’uomo dell’immaginaria città di Bamba, nato sotto un cavolo e capace, grazie a una colomba bianca e a due angeli custodi, di compiere miracoli per un giorno. Una storia di meraviglioso urbano e di onirica ecologia, idealmente sospesa tra Pollyanna e Mary Poppins, tra Alain-Fournier e Palazzeschi (cfr. Zanotti, 2001, pp. 127-42). Una storia – soprattutto – che avrebbe conquistato Vittorio De Sica.

 

5. Che Zavattini e Sto si trovino insieme su quel set non è certo un caso: è il segno di un’appartenenza. Perché Il Giornalino di Gian Burrasca, «rivisto, corretto e completato da Vamba» (così recitava il paratesto, nean­che si trattasse di un manoscritto ritrovato o di una qualsiasi robinsonata), resoconto quo­tidiano delle marachelle architettate da un enfant du siècle per sbugiarda­re l’ipocrisia dei grandi, era uno e bino: da un lato un’ironia candida e campata in aria, che ammiccava allo smagliante archetipo shandyano persino nel­le tro­vate grafiche (il 16 ottobre Giannino lascia un’impronta nerofumo del­la sua ma­no sotto la scritta autografa «Moio per la libertà»; e quella pagina imbrattata viene riprodotta nell’oggetto-libro); dall’altro una pungente irrisione del­l’og­gi e dei com­portamenti che avevano contrassegna­to la bor­ghe­sia italiana fin dalla nascita del Regno (basti rileggere l’‘attacco’: «Ec­co fatto. Ho voluto ricopiare qui in questo mio giornalino il foglietto del calen­da­rio d’oggi, che segna l’entrata delle truppe italiane in Roma e che è an­che il gior­no che son nato io»). Insomma, in questo ometto di «nove anni finiti», capace come ogni briccone che si rispetti di una purissima verità sapienziale, coabitavano il satirista corrosivo ‘per adulti’ del «Fanfulla» o del «Ca­­pi­tan Fracassa» e il soave e spettacoloso umorista di Ciondolino: quello per­sua­so della moralità dei più piccoli e della loro facoltà di studiare con speciale scientificità, proprio in virtù di quella piccolezza, le cose del mondo.

 

In fondo, nel vergare il diario di Giannino, Vamba – pseudonimo significativamente mutuato dal buffone dell’Ivanhoe – stava solo in parte cambiando strategia rispetto a Ciondolino. In quella prima prova narrativa, risalente al 1895, egli aveva infatti lambito le regioni delle «meraviglie del pos­si­bi­le» inscenando una lillipuziana me­ta­morfosi in formica; qui invece imboccava senz’altro la via di un realismo domestico e ‘municipale’ (anche nel­la pasta della lingua, che era una koinè italiana medio-colta venata di tosca­nismi). Restava però saldo il principio, ottico e insieme eidetico, di una mi­niaturizzazione, di una focalizzazione dal basso e dal piccolo: utile a diagno­sticare, con straniamento regressivo, i più acuti mali del ‘secolo stupido’.

 

Se questo è vero, e se è vero che Gian Burrasca fu soprattutto un obliquo “discorso alla Nazione” e ai rampolli del ceto medio in chiave «nazionalista, interventista, irredentista» (Boero-De Luca 1995, p. 172), cionondimeno vive tra le sue pagine lo stesso slancio ilare e ribaldo, se si vuole perfino anarchico, che animerà le pagine di Sto e Zavattini, alleati non fortuiti in quella retrouvaille cinematografica del 1943. Gian Burrasca che con la sua lenza ‘pesca’ l’unico dente del signor Venanzio, o che bu­ca una parete facendo credere al direttore dell’albergo che dietro di essa si nasconda uno spettro, o che aiutandosi con un salame muta un porco in coccodrillo, appare come un avo cartonato del signor Bonaventu­ra: li accomu­na l’idea di un comico quintessenziale, di una gag liberatoria e gratuita. Per contro, Gian Burrasca che s’inventa la strategia dei granelli di ani­lina per smascherare la frode della minestra del venerdì, o che induce una «Società Segreta» collegiale da lui costituita al sabotaggio delle scorte di riso, o che intona il celeberrimo inno alla gioia e alla pappa col pomodoro, sembra dotato della stessa audacia ideale e concretissima di Totò il buono: come questi, può assurgere a emblema di un’utopia (o di un’eresia) pauperista, che sogna un bonheur diffuso fra tutti gli uomini. Per quanto sia «l’ultimo carbonaro, il pri­mo Balilla, l’eterno gio­lit­tia­no» (Faeti 2011), il monello di Vamba alberga davvero, co­me il signor Bonaventura e Totò il buono, in un inesaudito paradiso dei semplici.

 

Questo cammino a ritroso, partito da un inferno del 1954 (l’infer­no di un pupazzo incriminato di bolscevismo), può così concludersi in uno spazio ridente, costellato di parole in gioco e di immagini della fantasia: forse la sola dimora ove la nostra letteratura per l’infanzia abbia potuto insediarsi in mo­do felice, per giunta offrendo un proprio contributo originale all’avventu­­ra europea della forma romanzo. Non è privo di si­gni­ficato che la prima edizio­ne del debutto narrativo di Gianni Rodari, quelle Avventure di Cipollino i cui personaggi sono tutti vegetali, si intitolasse appun­to Il romanzo di Cipollino. Nel 1951 colui che diverrà il nostro più celebra­to, ri­stam­­pato e tradotto scrittore per bambini non è esente da una certa ambizione verso il genere letterario «ca­nonico»; e infatti, anche se le peripezie del­l’or­taggio a ca­po d’una rivoluzione dei poveri sembrano situarsi – per la rappresentazione surreale, per la struttura frammentaria, per la morale manichea – nell’ambito morfologi­co della fiaba, tuttavia si deposita al loro fondo una sorta di principio realistico. Tale principio si nu­tre, come riconoscerà lo stesso Rodari, del­­­l’esperienza maturata negli anni di pratica come cronista al­l’«U­nità», in cui aveva acquisito confidenza con le «questioni alimentari» e con i «tan­ti pro­­­ble­mi nella borsa della gente» (cfr. Boero 1992, p. 119). Insomma, era ancora la conoscenza senza filtri di quell’Italia non abbandonata dalle lucciole, e dipinta nei libri di scuola nei modi del più stucchevole idillio, a muovere la penna; ancora una preoccupazione d’ordine morale, ancora il progetto visionario di un’ar­­monia tra le classi, ancora l’idea di un mondo salvato dai ragazzini.

 

Nel 1973, nel pieno degli anni di piombo, Rodari pubblicherà la Grammatica della fantasia: il suo trattato di “fan­tastica” che è anche uno straordinario manifesto civile e politico; e in cui, come sarebbe senz’altro piaciuto a Calvino, «il Fantasista e il Ragioniere cavalcano insieme sulle due gobbe di un cam- mello» (Bartezzaghi, 2010, p. 222). Nell’introduzione del volume, quasi officiando le nozze tra paidía e ludus, col suo consueto garbo scriverà: «Io spero che il libretto possa essere egualmente uti­le a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’e­du­cazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. Tut­­ti gli usi della parola a tutti mi sembra un buon motto, dal bel suo­no democratico. Non perché tut­ti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo» (Rodari 1973, p. 6). La banda di Gian Burra­­sca, Chiodino e Cipollino poteva ancora vincere la sua battaglia.

 

 

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1 thought on “Gianni e gli altri. Romanzi per l’infanzia nel Novecento italiano

  1. “La più grande organizzazione di difesa che esista al mondo, è quella che l’umanità ha levato e tiene in perpetua efficienza contro il pericolo dell’infanzia.”

    Alberto Savinio, Tragedia dell’infanzia [1945], Einaudi, Torino, 1991 p. 97

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