di Sandro Abruzzese

 

Le righe che seguono prendono spunto dalla vicenda del video commissionato dalla Regione Calabria al regista Gabriele Muccino. Non analizzerò il video ma prenderò spunto da alcuni elementi per alcuni rilievi su Calabria e Questione nazionale. In via generale, sul video basterebbe dire qui che, se la rappresentazione è sempre finzione e parzialità, l’irrealtà – la potenza dell’irrealtà mediatica di cui il lavoro di Muccino si avvale – è, per citare il Pasolini corsaro, forse l’unica vera forma di pornografia esistente. Tuttavia anche la pornografia dice qualcosa del tutto. In questo caso è utile per ragionare sull’attuale immaginario calabrese e magari per chiedersi un’ennesima volta cosa realmente rappresenti la Calabria oggi, e farlo a maggior ragione perché, ogni volta che si parla di Meridione, sovvengono quei versi disincantati di Franco Costabile, quando scrive: Ecco / io e te, Meridione / dobbiamo parlarci una volta / ragionare davvero con calma / da soli, / senza raccontarci fantasie / sulle nostre contrade. / Noi dobbiamo deciderci / con questo cuore troppo cantastorie.

 

Geografie

 

Prendendo in parola Costabile, il primo rilievo sull’argomento è di ordine geo-antropico. La penisola calabrese è circondata da poco più di 700 chilometri di costa, è vero, ma il suo suolo e buona parte della sua storia sono prevalentemente di natura montana: il Pollino, la Sila, le Serre, l’Aspromonte, insieme a eremi e monasteri, santi e filosofi, sono lì a ricordarlo. Si tratta di boschi maestosi (è la quarta regione italiana per superficie forestale) e laghi artificiali, dei calanchi del Pollino, di fiumare e torrenti, fino alla roccia granitica della Sila. Il bosco, verrebbe da aggiungere, sarebbe ricchezza, in altri luoghi d’Europa lo è, ma, come ricorda Francesco Iovino in La montagna calabrese (Rubbettino 2019), in Calabria “la frammentazione della proprietà fondiaria, la carenza di una pianificazione forestale a diversi livelli, la mancanza di appropriati strumenti conoscitivi e di supporto alla gestione, insieme al basso grado di meccanizzazione forestale (…) rendono poco efficiente la filiera foresta-legno e alto il grado di abbandono dei boschi, almeno per quanto attiene le fustaie”. Molto suggestiva, a riguardo, la lettura di Mauro Minervin, in La Calabria brucia, dove gli incendi e la dissoluzione del patrimonio boschivo del passato assurgono a sorta di dépense o potlatch, un segno della dissoluzione e di sovvertimento, comunque di un rapporto distruttivo e distorto con la modernità.

 

Insomma, se c’è un discorso culturale sulla Calabria, questo non può prescindere dalle sue montagne, che sono l’archivio della memoria regionale, perché conservano, con tutta la problematicità, le tracce del passato. Vero è che col risanamento delle coste, in un lento e a volte tumultuoso processo, i calabresi, come gli altri abitanti della penisola italiana, sono scesi verso le coste e le statali, ma solo dall’800, e spesso senza mai riferirsi del tutto al mare.

Da questa natura montuosa, peraltro, deriva un clima umido e piovoso, per cui i cieli azzurri del video in questione sono stati molto fortunati a non intercettare nemmeno in lontananza le nuvole aspromontane o silane, che spesso minacciano temporali pomeridiani, anche in piena estate. Ma al di là della boutade, vengono meno nella visione mucciniana l’asperità e la verticalità della regione, privata della sua vera dimensione, che non era sfuggita invece al grande geografo Lucio Gambi e a studiosi che ne custodiscono la lezione, come Francesco Bevilacqua.

 

Paesi

 

Beninteso, un discorso sono i paesi, le province, altro è la paesanità e il provincialismo culturale. Sul video c’è l’imbarazzo della scelta: si può partire dalla lingua, dalle pittoresche comparse in bretelle e coppola col clarinetto in sottofondo che rimandano agli stereotipi dispregiativi sul montanaro calabrese, all’insistita e gratuita sensualità. Ma, anche qui andrebbe ricordato qualche dato.

In quei magnifici borghi desolati oggi vivono circa 10 milioni di italiani, e quasi il 70 per cento dei poco più di 8000 comuni italiani è composto da nuclei che non superano i 5000 abitanti. In piena estate, Muccino vi troverebbe non Adelaide o Penelope, sorta di parodia nomenclatoria degna del Don Chisciotte di Cervantes, ma molte case chiuse e porte sprangate, tetti divelti, come a Siderno Superiore per esempio. O al limite emigranti di ritorno, emigranti o figli di emigranti degli esodi perdurati per tutta l’età liberale, e ingigantitisi col boom economico, continuati con la rivoluzione digitale. Quei borghi una volta privi di acquedotti, fognature – il loro travaso dalle montagne alla pianura, e poi verso l’altrove – costituirono una calamità e una liberazione da condizioni inimmaginabili, che meritano rispetto. Oggi quasi il 90 per cento dei borghi montani e collinari calabresi e buona parte delle aree interne italiane, lo sappiamo, è affetto da abbandono, oltre che altamente esposto a rischio sismico e idrogeologico. Inoltre essi presentano una natalità più bassa e un’età media più alta delle aree metropolitane. Ma se fossimo in comuni sotto i mille abitanti, probabilmente non troveremmo che sparute scuole pluriclasse, nessun presidio ospedaliero e zero asili nido.

 

Allora che cos’è la Calabria? Quante Calabrie esistono e come rappresentarle senza ferire o banalizzare? Come far coesistere le città medie con Tropea e Gerace, o Scilla, Oriolo, Diamante, con i paesi doppi delle statali, le foreste e le gole, il non finito e gli ecomostri?

La Calabria è innanzitutto una delle regioni più fragili d’Italia, insieme a Campania e Lazio presenta le maggiori irregolarità sul sommerso in agricoltura, direi al Muccino degli agrumeti. È poi tra le prime per abbandono scolastico, per la povertà relativa, senza contare le classifiche sulla qualità della vita condotte dal “Sole 24 ore”, dove in fondo alla lista albergano Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Dunque, nessuna falsità o edulcorazione, nessun patetismo o populismo, fondato sulla presunta calabresità o su pseudo-folklore, potranno cambiare il fatto che sulla punta dello stivale si condensano e cristallizzano, radicalizzandosi, molti problemi nazionali.

 

Sguardi e pregiudizi

 

Intendiamoci, se la Regione commissiona un corto a Muccino, non possiamo lamentarci che il regista interpreti se stesso. È la scelta politica a tradire evidente confusione, per cui siamo ancora una volta alla riproposizione di uno sguardo esterno, oltre che posticcio e offensivo. Ora, subire la realtà in forma colonizzante è traumatico e ovviamente non tutte le colpe di questo trauma e dei dati sopra riportati possono essere imputate ai calabresi, soprattutto alla luce di ragioni storiche, del caotico, spontaneo e repentino boom economico italiano – per stare alla Repubblica –, cioè alla mancata industrializzazione di una parte del paese, vero spartiacque della storia recente. Molto però potrebbe essere imputato, sul piano politico, ai parlamentari meridionali e ai loro partiti nazionali di riferimento, sia nel passato che per quanto riguarda la politica italiana degli ultimi trent’anni, la quale ha visto un rinfocolarsi del pregiudizio antimeridionale di stampo prima leghista e poi trasversale, con il risultato significativo di distrarre indebitamente risorse dal Sud per riportarle verso il centro e il nord del paese. Infatti in Italia “I Conti pubblici territoriali dimostrano almeno a partire dal 2000 una persistente differenza a favore del Centro-nord: in media 26 miliardi all’anno pur depurando il dato delle pensioni, che sono reddito differito”, scrive Marco Esposito in Fake news, per poi chiosare: “non soltanto dal 2000 al 2017 la spesa pubblica continua ad andare nella medesima direzione della ricchezza privata, ma addirittura gli investimenti, cioè gli interventi per costruire infrastrutture e servizi dove mancano, si orientano verso i territori già più ricchi, al punto che si è dovuta scrivere una legge nel 2016 per obbligare lo stato a spendere il 34% degli investimenti ordinari nel Mezzogiorno. Legge di cui peraltro si è rinviata l’attuazione”.

 

Tornando all’immaginario, e stando solo all’ultimo decennio, se artisti come il cantautore, più volte Premio Tenco, Peppe Voltarelli, nonché lo sguardo aperto sul mondo della scrittrice Sonia Serazzi, per fare dei nomi, hanno dimostrato una lucida e ispirata capacità di auto-rappresentazione; se lo stesso Wim Wenders ha scelto di lavorare a Badolato, la vicenda Regione-Muccino finisce per riportare alla luce il complesso d’inferiorità meridionale nel rapporto col paese. Complesso che non è frutto di banale latitudine, bensì di annosa discrepanza tra civiltà contadina e civiltà industriale, tra reti di città e paesi o province isolate, tra luoghi feriti da costante emigrazione, disagio, illegalità, e luoghi attrattivi e iper-produttivi. Insomma, le varie modalità e vulgate con cui nel discorso pubblico, sui media, si parla della Calabria e dei Sud, oppure l’insistenza con cui al suo interno si parla di calabresità, sono termometro di una situazione perdurante di crisi, e portano in superficie il latente fondo problematico che accomuna un po’ tutti i paesi che hanno subìto la modernità invece di accompagnarvisi. Basti pensare al risvolto urbano della calabresità, ovvero a quella napoletanità a volte ostentata, fitta di luoghi comuni e alibi auto-assolutori da cui, come ricorda Mario Pezzella in Altrenapoli, solo i grandi autori partenopei hanno saputo emanciparsi.

 

Terre inquiete

 

È Vito Teti in Terra inquieta ad avvisare che “Bisogna essere cauti, accorti, pazienti, nel definire la Calabria come un luogo, (…) si rivela spesso un’ambiziosa scorciatoia”, e tuttavia anche la sua diversità “nasconde una forma di pigrizia, di semplificazione, una rinuncia a tentare di cogliere la regione nelle sue differenze”. L’antropologo del Senso dei luoghi, partendo dalla geografia delle varie “Calabrie”, ne ricostruisce la trascuratezza idrogeologica, la piaga sismica, quindi gli smottamenti, le frane, gli abbandoni. Una terra di eventi catastrofici e disastri come i terremoti del 1783 o quello del 1905, mobile e precaria, eccentrica, di paesi svuotati e nuove periferie, in cui spesso la liberazione è venuta dalla fuga verso l’America: “fuga di protesta, di ribaltamento”, da cui lo sdoppiamento e la gemmazione di tante piccole “Calabrie” nel mondo.

 

È chiaro con Terra inquieta, seguendo il magistero di grandi osservatori come Padula e Alvaro, che l’immaginario calabrese è pervaso dall’esterno e dall’altrove, quello dell’abbondanza, della riuscita, che avverrà non più nel paese natio, bensì errando nel mondo. Meridionali come ennesimi ebrei erranti che per bibbia hanno il ricordo della comunità tradizionale. Da qui il richiamo nostalgico e emotivo verso la tradizione e l’identità, che “ha a che fare con i modi di percepirsi, di rappresentarsi, di sentirsi quando si esce fuori dal mondo di origine”.

Beninteso, ciò di cui parliamo non è una storia solo calabrese, non c’è magia o pretenziosa specificità, ma ragioni che accomunano a tanti altri popoli del mondo in bilico tra pre-moderno e ormai post-moderno.

 

Per giunta, a complicare ulteriormente il quadro si aggiunge, come racconta Antonio Talìa in Statale 106, il fatto che all’isolamento aspromontano risponde una rete di traffici e intrecci che può portare a Duisburg, a Bratislava, in Australia, ricordandoci che il rapporto estremamente disomogeneo della Calabria e del Mezzogiorno col paese, qui, nella fattispecie tra Reggio e Locride, forse la provincia più povera d’Italia, genera una tra le più potenti organizzazioni criminali d’Europa, con diramazioni globali e un’estrema capacità di permeare le istituzioni locali e nazionali. Anche questo è il paradosso calabrese. Essa, in un connubio tribale, arcaico, eppure dinamico e avanguardistico, genera trame e interconnessioni globali fino a mettere in discussione l’effettiva sovranità dello stato. La fragilità ha una sua densità, genera fenomeni più pervasivi, ma non è alterità, quanto coerente continuità nazionale.

 

Corsi e ricorsi

 

Non vorrei, con questi rilievi, sembrare troppo deterministico. Al di là degli alibi, le enormi difficoltà quotidiane sul fronte politico locale e nazionale derivano da strutture e istituzioni democratiche deboli. Le istituzioni configurano e dispongono, per cui la loro sofferenza produce distanza, sfiducia, oltre che danni. Mi riferisco inoltre alla debolezza partitica, di coalizione, all’espressione di una componente razionale di orientamento della società, alla capacità di coesione e indirizzo su temi e priorità di interesse generale e equità sociale, volta anche all’allineamento tra istituzioni e cittadini.

 

Ebbene, dal punto di vista storico, fallito il tentativo della terza via intrapreso da Togliatti e Berlinguer per un fronte popolare con cattolici e socialisti in grado di riformare radicalmente il Paese attraverso l’incontro della lotta di classe e i ceti medi progressisti, ecco che la società postfordista, negli anni ’80, ha subìto una ulteriore frammentazione, stratificandosi in maniera molto più complessa. Il ceto medio italiano, con la scomparsa del popolo per la fluttuante moltitudine, e il massiccio approdo di immigrati, in risposta al trentennio neoliberista, pare ancora nelle secche del piccoloborghesismo più acuto. In questo quadro frammentato, privo di riferimenti, le uniche riforme restano prevalentemente di natura tecnologica o tecnocratica e la politica ridotta in fazioni insegue pulsioni territoriali. Tuttavia c’è una costante invariata: l’immarcescibile trasformismo della classe dirigente meridionale. Quel blocco agrario dell’età liberale inviso a Salvemini e Dorso che ha poi accolto il fascismo padano; oppure quello successivo repubblicano che ha costituito il nerbo della Democrazia cristiana, per ritrovarsi poi in ogni nuovo partito disceso, nella Forza Italia di Dell’Utri, nella Margherita come nella Lega di Salvini, per l’appunto eletto nel collegio di Reggio Calabria, e in frange del Pd e Cinque stelle. Schema che vince non si cambia. A pagare restano i milioni di cittadini irretiti in un questo circolo vizioso. Il treno perduto è sempre quello delle mancate riforme per la giustizia sociale.

 

Familismi

 

Per rispondere però a chi è tentato dalla vecchia categoria del familismo amorale, potremmo rammentare, come in altri tempi fece Lombardi Satriani con Banfield, che il fenomeno attecchisce e perdura anche perché in un determinato contesto si rivela utile o obbligato, mentre le pratiche democratiche, nella disomogeneità socio-economica, nella carenza di servizi e possibilità, rappresentano un percorso incerto, rischioso, impervio.

Per dirla altrimenti, i pretenziosi appelli liberali alla riforma morale meridionale, a meno che non vogliano degli eroi al posto di concittadini, dovrebbero considerare che essa può imporsi solo se, nel breve periodo, non produce contrasti eccessivi tra interessi individuali e generali. Se questo punto è valido, ho l’impressione che la politica clientelare stessa finisca per acuire il costante bisogno istituzionale in cui sono tenuti i cittadini, emancipando il suo operato dal legame col territorio attraverso favoritismi e privilegi che vanno a sostituirsi ai diritti costituzionali. È un sistema in grado di svuotare il senso dell’impalcatura democratica, e le direzioni nazionali dei partiti, tranne che per rare eccezioni, hanno quasi sempre preferito beneficiarne. Il dato più umiliante è che in certe parti d’Italia emigrare resta ancora l’unico atto di libertà e ribellione possibile.

 

In definitiva, solo l’arresto di questa soggezione attraverso una doppia spinta, interna e esterna, locale e nazionale, volta al sostanziale abbassamento del tasso di disoccupazione, all’innalzamento del reddito, all’arresto dell’emigrazione giovanile, ovvero una politica di ampio respiro che miri a risolvere la distanza tra le varie Italie, può contrastare definitivamente la situazione descritta. Regionalismo e federalismo, invece, seppur nate per avvicinare le istituzioni ai cittadini, così come le politiche dei fondi a pioggia privi di pianificazione, in questo contesto sembrano acuire gli sprechi del paese.

 

Utopie calabresi

 

Detto questo, sinergie e convergenze possono avvenire anche in comunità sfilacciate o in centri fiorenti o cosiddetti minori. Lo dimostra la vicenda tutta calabrese di Riace, dove il sindaco Lucano, alla guida di un Comune di 1.726 abitanti della Provincia di Reggio Calabria, dal 2004 fino alle inchieste che hanno provocato la fine dell’esperienza, ha ospitato oltre 6.000 richiedenti asilo provenienti da 20 diverse nazioni. Lo sbarco, nel 1998, di 200 profughi curdi a Riace Marina fornì all’associazione Città Futura l’idea di una vera e propria utopia concreta, quella di ripopolare il paese, usando le vecchie case abbandonate dai proprietari. Riace così, nel tempo, è riuscita a ospitare rifugiati, immigrati irregolari con diritto d’asilo, rigenerando scuola, servizi, piccole attività artigianali. Il Comune ionico ha dimostrato che il circolo vizioso di istituzioni e società si nutre dell’assenza di utopie concrete e forza morale, e che finanche nei luoghi più poveri d’Italia ci sono inedite strade percorribili. In fondo la colpa maggiore dell’irregolare Domenico Lucano è stata l’aver demolito alibi di amministratori, dirigenti o politici, mettendoli di fronte alla propria insipienza, che a sua volta produce acute forme di nichilismo e tribalismo. Credo che il riconoscimento della rivista Fortune verso Lucano, che anni fa lo annoverò tra gli uomini più influenti al mondo, fosse di carattere principalmente morale, e che le stesse ragioni abbiano portato, con l’inquietante tempismo che ha visto il leader xenofobo leghista Matteo Salvini alla guida degli Interni, al sabotaggio del progetto.

 

Assenze

 

Insomma, pur in contesti difficili, restano margini o esempi. Basta non raccontarsi storie sul Mezzogiorno, e chiedersi se ciò di cui stiamo parlando non sia tradotto troppe volte con discorsi di natura reazionaria, con banalizzazioni populistiche intorno ai Sud italiani e del mondo. Magari in futuro occorrerà pensare più spesso ai versi di Franco Costabile. E magari bisognerà dirsi pure che la retorica sul calore, sull’ospitalità, sull’umanità meridionale, rischia di nascondere altre assenze: carenza di solidi soggetti impersonali e capacità di autodeterminazione.

Il mancato sviluppo non rende solo più povero il Mezzogiorno, lo rende pure ostaggio delle sue tare, orfano di reali esperienze di rottura, di cambiamento e spinte propulsive progressiste. Mi pare sia un punto primario, che ha trovato in passato ampia attenzione nel discorso politico e intellettuale, per essere poi, fatta salva la parentesi in corso del ministro Giuseppe Provenzano, artatamente bypassato e falsificato da media e partiti territorializzati, alla cieca ricerca di consenso.

 

 

Bibliografia essenziale

 

AA.VV., La montagna calabrese, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2020

Marco Esposito, Fake Sud, Piemme, Milano 2020

Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989

Fabrizia Ippolito, Paesaggi frantumati, Atlante d’Italia in numeri, Skira, Milano 2019

Mauro Francesco Minervino, La Calabria brucia, Ediesse, Roma 2008

Mario Pezzella, Altrenapoli, Rosenberg  Sellier, Torino 2019

Luigi Lombardi Satriani, Antropologia culturale, Rizzoli, Milano 1980

Vito Teti, Terra inquieta, Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2015

Vito Teti, Il senso dei luoghi, Donzelli, Roma 2004

Antonio Talìa, Statale 106, Minimum fax, Roma 2019

1 thought on “Che cosa racconta la Calabria di Muccino

  1. Bene citare Bevilacqua andrebbe fatto più spesso ed “utilizzato”da chi vuol “fare” Calabria.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *