di Mathias Enard (trad. di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta)
[E’ uscito da poco per le Edizioni e/o Ultimo discorso alla Società proustiana di Barcellona, un libro che raccoglie la produzione in versi dell’autore di Bussola, nella traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta. Presentiamo una lunga poesia tratta dal libro (in italiano e in lingua originale), ringraziando l’editore e i traduttori].
MARI NERI
I.
Ecco le darsene di un porto abbandonato dove
non caricano più né provviste né spezie
dove non si carena nessun veliero, dove nessun
pennone dà riposo ai gabbiani
vicino a un mare inutile,
poeta di nessuno.
II.
L’Oriente è una puttana cieca con cui degli
impiccati ci danno dentro.
Dall’alba al tramonto.
Nel miracolo dello zafferano, gusto e colore
delle labbra dell’amante.
È dell’alba il miraggio grezzo e cangiante.
Il ritmo che ci sottomette.
Lì i racconti sono malati e indeboliti dagli
occhi d’opale dei bambini.
Leggiamo male gli squallidi desideri di questa
gente senza vergogna.
I loro sorrisi lebbrosi.
L’infanzia, regina del tempo,
è un panno lacero oscurato dal vento.
Oriente che ha il sapore e il gusto della tomba.
Il brivido di un lungo cammino, della traversata
di orribili stretti, si cerca il traghettatore,
la guida, i cedri e la barca solare.
Il sonno allora ci sconfigge come il pellegrino
caduto ai bordi della strada,
dolcemente cullato dal richiamo del suo santo.
Ce ne andiamo all’infinito sul fiume circolare.
L’avvenire ci mangia sulla mano.
Riempiamo borse di polvere d’oro:
corniola dei poveri, seta dei mendicanti.
III.
Il giorno pesa alle navi attraccate, perché amavano
partire ben prima dell’alba per pescare
lampi tra le correnti.
Frequentiamo carene e scotte, crediamo fermamente
allo scorrere svigorito delle onde e
delle insolenti striature meridiane.
Allargare, ingrandire recessi di braccia e commessure
di labbra che balbettano colori, epoche
di minuti senza domani, di lingue morte e
steli distrutte.
Sullo scoglio al centro dell’attività marina.
I marinai non hanno altre mappe che il loro
riflesso sull’acqua.
Il vento della furia del vento. Accostare è soltanto
una soluzione provvisoria dopo la quale
ci si trova da soli con il premio, la coppa che
verrà consegnata al vincitore per la larghezza
delle sue vele.
La sua età immensa e la sua eleganza tra le
rocce, là dove pochi remi arrivano.
Il suo stupore nebulizzato.
Per raggiungere i tesori di un tempo; le vigne
leggendarie, i mostri di prua mettono in fuga i
selvaggi.
Colmare l’oceano, fendere la schiuma per vincerla
e infine riposare sulla spiaggia.
Un sospiro per un libro senza pagine, un’onda
senza misura.
Una quartina senza altezza dove sopravvivono
pochi uccelli.
IV.
Preghiera della dolcezza nascosta dentro ai
frutti, della luce del vino aspro, della vecchiaia
dell’olivo e della piega del grano.
Anatolia dell’albicocca e del fico, i tuoi fiori
profumano grotte perdute.
Si prega poco per le piccole cose.
I nastri ornano i fugaci pacchi di Natale.
Non lascerò più le tue rive.
L’immensità delle tue frontiere.
L’immenso sospiro di morte che esala il tuo
vino nella coppa.
Si prega poco per le piccole cose.
Il grano o la grappa, la vigna o l’orizzonte.
Il bastimento e il remo sulla punta delle dita.
Il dito inzuppato in un liquore vermiglio e altre
minuscole cose gettate in mare,
la storia in cui la mano è messa a essiccare
come una foglia dentro un grande libro aperto,
il conflitto della linfa e dell’età,
lo sguardo storto del tempo,
le unghie, le unghie e il loro pericolo per la
carne,
i sorrisi di corallo.
Si prega poco per i piccoli paesi,
si ascolta con serietà, le labbra incollate,
le sue lacrime fragili come pesci d’argento
gli scricchiolii del legno ci avvolgono e ci
riscaldano
quando il vento nostro malgrado risponde alle
nostre attese, ci disperde terrorizzati tutti piccoli
ricurvi la pelle screpolata,
semina del nostro ricordo i suoi campi sconfinati,
ci pianta duri e verticali
alberi bassi e tristi, fragile eternità di marmo,
e ci lascia
selvaggina esposta dopo la caccia e che tornerà
a far fiorire ogni primavera d’assenza
la saggezza dell’infanzia.
V.
Ai volti inafferrabili del pittore preferisco la
tela senza fondo e i ritratti
la pelle granulosa, la pelle di creta senza segno
e senza ferita
accarezza i rulli delle macchine e la bontà della
moleskine
moltiplica il ruvido candore della carta.
Parole senza altri nomi oltre a quelli dei colori
che non hanno.
Delle matite le battezzano,
ecco lo stridio che i solventi sospendono.
Al cielo aperto delle ferite di piume, il clima
della secchezza delle punte.
Quando i bianchi si scuriscono, nello specchio
dell’acido.
VI.
Le isole schiuse d’estate nel miraggio del cannocchiale sono pericolose, puntellate di rocce e
secche.
I sospiri esaminati troppo da vicino.
I panni esposti al rigore della via,
le vele gonfie e le reti troppo lasche.
Il rame degli strumenti
errori del sestante, riflessi dello zodiaco.
VII.
Un mattino dalla forma perfetta, la tua gamba
morta accanto a me.
Dove la profondità non è altro che sangue,
umori e meccanismi cedevoli.
Dove niente immagina la bellezza della pelle che
le mie labbra al mattino gelano in superficie.
Meno profondo della terra a Irkutsk
quando camminiamo verso il lago le nostre
parole assumono nell’aria le fattezze di un jinn
bianco e informe, subito spaventato
dal cacciatore nascosto nelle alte erbe dell’inverno
dai colpi sordi del sonno del mattino
passa tutto un amore di superficie
la tua gamba e il tuo braccio morti nel loro
sudario di piume
traggono alla coscienza la canzone interiore
del giglio chiuso, morbido e palpitante,
l’impossibile risveglio della poesia scomparsa.
VIII.
Da tutte le menzogne una nuova superficie, un
libro di pioggia quando torna l’inverno senza
che ce ne rendiamo conto
pensavamo che la guerra fosse un insetto estivo,
una mosca in un occhio vuoto
ma la guerra sa tornare sotto la pioggia e squarciare
le nuvole con fulmini rossi
crepare le montagne scortecciare alberi privi di
foglie
violare l’impeccabilità della neve sulle vette
silenzio e rispetto, compagni, per la morta stagione
morta
silenzio vetrificato
rispetto d’inverno.
IX.
I cannoni si sono zittiti e mi lasciano per un
momento
sentire le ore assediare i fasci di fucili,
gli uccelli, i morti
dove sono gli stregoni, le bestie, i cani?
I sopravvissuti non combattono che contro il
silenzio,
grida escono dalla terra sono le erbe folli,
semi per il deserto.
X.
La linea della mano prosegue sulla pagina
in un disegno molto lungo.
Non serve a niente ricoprirsi di tutti gli ornamenti
– dietro l’aquilone l’assenza,
sulla spiaggia ocra bruno,
il mare di metallo –
non serve a niente ricoprirsi di tutti gli specchi
sono io a tornare, cosa posso farci
XI.
Morto organizzo il tempo.
Sulla grana pesante
lascio grandi bianchi,
dita d’ombra,
fosforescenze
col favore della notte,
lotto contro il sonno cercando a tentoni
– senza vedere, senza più toccare
il volto raccolto
dallo specchio e dal calamaio –
di leggere sulla pelle del marmo
il fremito degli anni.
* * *
‘
MERS NOIRES
I.
Nous voici les darses d’un port abandonné où
l’on ne charge plus ni vivres ni épices
Où ne carène aucun hornier, où aucune vergue
ne repose les mouettes
Auprès d’une mer inutile,
Poétesse de personne.
II.
L’Orient est une putain aveugle que besognent
des pendus.
De l’aube au couchant.
Dans le miracle du safran, goût et couleur des
lèvres de l’amant.
C’est de l’aube le mirage brut et changeant.
Le rythme qui nous soumet.
Les contes y sont malades et affaiblis par les
yeux d’opale des enfants.
On lit mal les désirs affreux de ces gens sans
vergogne.
Leurs sourires lépreux.
L’enfance, reine du temps,
est un linge déchiré obscurci par le vent.
Orient de la saveur et du goût de la tombe.
Le frisson d’une longue marche, de la traversée
de détroits terrifiants, on cherche le passeur,
Le guide, les cèdres et la barque solaire.
Le sommeil nous gagne alors comme le pèlerin
tombé au bord de la route,
Doucement bercé par l’appel de son saint.
On barre à l’infini sur le fleuve circulaire.
L’avenir nous mange dans la main.
On emplit des sacoches de poudre d’or :
Cornaline des pauvres, soieries des mendiants.
III.
Le jour pèse aux navires à quai, car ils aimaient
partir bien avant l’aube pêcher des éclairs dans
les courants.
On fréquente des carènes et des écoutes, on
croit fort au parcours sans raideur des flots et
des insolentes rayures méridiennes.
Élargir, agrandir des recoins de bras et des
commissures de lèvres balbutiant des couleurs,
des âges de minutes sans lendemains, de langues
mortes et de stèles détruites.
Sur le brisant au centre de l’activité marine.
Les marins n’ont d’autres cartes que leur reflet
dans l’eau.
Le vent de la fureur du vent. Accoster n’est
qu’une solution provisoire où on se trouve seul
avec le prix, la coupe qu’on remettra au vainqueur
pour la largeur de ses voiles.
Son grand âge et son élégance entre les
rochers, là où parviennent peu d’avirons.
Sa stupeur d’embruns.
Pour rejoindre les trésors de jadis; les vignes de
légende, les monstres de proue font fuir les
sauvages.
Combler l’océan, fendre l’écume pour la vaincre
et enfin reposer sur la grève.
Un soupir pour un livre sans pages, une vague
sans mesure.
Un quatrain sans hauteur où peu d’oiseaux
survivent.
IV.
Prière de la douceur cachée à l’intérieur des
fruits, de la lumière du vin âpre, de la vieillesse
de l’olivier et de la courbure des blés.
Anatolie de l’abricot et de la figue, tes fleurs
embaument des grottes perdues.
On prie peu pour les petites choses.
Les rubans ornent les colis fugaces de la Noël.
Je ne quitterai plus tes rives.
L’immensité de tes frontières.
L’immense soupir de mort qu’exhale ton vin
dans la coupe.
On prie peu pour les petites choses.
Le grain ou la grappe, la vigne ou l’horizon.
La nave et la rame au bout du bras.
Le doigt trempé dans une liqueur vermeille et
autres choses minuscules jetées par-dessus bord,
L’histoire où la main prend place et sèche
comme une feuille dans un grand livre ouvert,
Le conflit de la sève et de l’âge,
Le regard tordu du temps,
Les ongles, les ongles et leur danger pour la
chair,
Les sourires de corail.
On prie peu pour les petits pays,
On écoute gravement, les lèvres attachées,
Ses pleurs fragiles comme des poissons d’argent
Les craquements du bois nous enveloppent et
nous tiennent chaud
Quand le vent répond malgré nous à nos attentes,
nous disperse terrifiés tout petits repliés la
peau craquelée,
Ensemence de notre souvenir ses champs
grands ouverts, nous plante durs et verticaux
Arbres bas et tristes, fragile éternité de marbre,
Et nous laisse
Gibier exposé après la chasse et que reviendra
fleurir chaque printemps d’absence
La sagesse de l’enfance.
V.
Aux visages insaisissables du peintre je préfère
la toile sans fond et les portraits
La peau grainée, la peau de craie sans marque
et sans blessure
Caresse les rouleaux des machines et la bonté
de la moleskine
Multiplie la blancheur rêche du papier.
Paroles sans autres noms que ceux des couleurs
qu’elles n’ont pas.
Des crayons les baptisent,
Voilà les cris que les solvants suspendent.
Au ciel ouvert des blessures de plumes, le climat
de la sécheresse des pointes.
Quand les blancs s’assombrissent, dans le
miroir de l’acide.
VI.
Les îles écloses l’été dans le mirage de la longuevue
sont dangereuses, gardées de rochers et de
hauts-fonds.
Les soupirs examinés de trop près.
Les linges exposés à la rigueur de la rue,
Les voiles gonflées et les filets trop lâches.
Le cuivre des instruments
Erreurs du sextant, reflets du zodiaque.
VII.
Un matin au galbe parfait, ta jambe morte à
mes côtés.
Où la profondeur n’est que sang, humeurs et
mécanismes souples.
Où rien ne suppose la beauté de la peau que
mes lèvres au matin gèlent en surface.
Moins profond que la terre à Irkoutsk
Quand on marche vers le lac nos paroles prennent
dans l’air le corps d’un djinn blanc et nuageux,
vite effrayé
Par le chasseur caché dans les hautes herbes de
l’hiver
Par les coups sourds du sommeil du matin
Passe tout un amour de surface
Ta jambe et ton bras morts dans leur linceul de
plumes
Tirent à la conscience la chanson intérieure
Du lys enfermé, souple et palpitant,
L’impossible éveil du poème disparu.
VIII.
De tous les mensonges une nouvelle surface,
un livre de pluie quand revient l’hiver sans
qu’on s’en aperçoive
On pensait que la guerre était un insecte d’été,
une mouche dans un oeil vide
Mais elle sait revenir sous la pluie et percer les
nuages d’éclairs rouges
Crever les montagnes écorcer des arbres sans
feuilles
Violer l’impeccabilité de la neige sur les sommets
Silence et respect, camarades, pour la morte
saison morte
Silence vitrifié
Respect d’hiver.
IX.
Les canons se sont tus et me laissent un
moment
Entendre les heures assiéger les faisceaux,
Les oiseaux, les morts
Où sont les sorciers, les fauves, les chiens ?
Les survivants ne combattent plus que le silence,
Des cris sortent de terre ce sont les herbes folles,
Semence pour le désert.
X.
La ligne de la main se poursuit sur la page
En un très long dessin.
On a beau se couvrir de toutes les parures
– derrière le cerf-volant l’absence,
sur la plage d’ocre brun,
la mer de métal –
On a beau se recouvrir de tous les miroirs
C’est moi qui reviens, qu’y puis-je
XI.
Mort j’organise le temps.
Sur le grain lourd
Je laisse de larges blancs,
Des doigts d’ombre,
Des phosphorescences
à la faveur de la nuit,
Je lutte contre le sommeil en cherchant à tâtons
– sans voir, sans plus toucher
le visage recueilli
par le miroir et l’encrier –
à lire sur la peau du marbre
le frisson des années.
[Immagine: Foto di Jacqueline Macou – https://pixabay.com/it/users/jackmac34-483877/].