Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
Giovedì 5 novembre ore 18:30
DIALOGO ONLINE CON LAURA PUGNO E VITTORIO LINGIARDI
Paesaggi nelle soglie: la poesia come esplorazione
L’incontro si terrà online / live streaming sul canale Facebook della Fondazione Adolfo Pini per il progetto Casa dei Saperi.
[Questa rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, nasce dal desiderio di entrare in dialogo con altri poeti, scrittori e chissà, in futuro, anche artisti, chiamati a rispondere a un identico questionario.
La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.
Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.
L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).
Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.
Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro? (Laura Pugno)]
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Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Metto qui, in questo spazio, un’analogia, allo stesso tempo precisa e imperfetta come tutte, che la situazione della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Cosa te ne sembra? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?
Sono molto legato al concetto di “terzo paesaggio”. Non solo perché è acuto e fecondo, ma anche perché si presta, nella sua dimensione insatura, a diverse applicazioni e contaminazioni feconde. E un concetto sconfinante che vediamo germogliare nell’interregno vegetale, animale e minerale. Può essere agevolmente applicato ad altri mondi, come tu fai con la poesia. Incoraggiato dall’osservazione di Clément per cui uno spazio senza terzo paesaggio è come un mente senza inconscio, l’ho impiegato nel mio libro Mindscape (da cui traggo parte delle mie considerazioni attorno alle tue domande). Mindscape: rapporto tra psiche e paesaggio, o meglio scena psichica del paesaggio. In un’epoca come la nostra dove ciascuno cura il giardino privato in modo sempre più identitario e autoconsolatorio, mentre il paesaggio pubblico è sfigurato da edifici coperti di cartelloni o da luoghi resi obbedienti e residenziali, il concetto di terzo paesaggio mi sembra utile proprio da un punto di vista psichico. Nei vuoti urbani, osserva Clément, compaiono erbe, arbusti e fiori, piccole foreste primigenie dell’abbandono. Clément considera la biodiversità di alcuni luoghi una risorsa di alterità inquietante e di bellezza. Non di rado la vista di questa natura risorgente, talvolta natura zombie, suscita preoccupazione o sdegno negli abitanti per bene, a causa del suo aspetto selvatico e un po’ borderline. Lo stesso accade quando uno sguardo o una parola poetica attraversano lo spazio in modo “improprio”, destando irritazione o svalutazione. Se in un contesto “civilizzato”, per esempio un consiglio di amministrazione o un collegio accademico, usi un linguaggio o uno stato della mente poetici di solito produci scandalo di inappropriatezza. Considero invece la poesia un evento neurale che contribuisce a “costruire” la realtà in cui viviamo. I versi sono righe brevi, la poesia si serve della rima e di figure formali che permettono letture del mondo immediate, profonde, ritmiche. Il film di Jim Jarmusch Paterson lo esemplifica impeccabilmente raccontando la poesia delle cose che non si vedono, le giornate, il loro ripetersi; il movimento degli oggetti che non si muovono; leggére inquietudini e la compagnia di versi pronunciati mentre nascono dentro la mentemondo del poeta, che in questo caso è un autista di autobus.
Tornando al terzo paesaggio, esso naturalmente non riguarda solo le città ma tutti i “frammenti indecisi” del Giardino Planetario che rappresentano la somma degli spazi abbandonati dall’uomo dove la natura riprende il controllo. La dimensione residuale del terzo paesaggio è sempre davanti ai nostri occhi come “zona grigia”. Uno spazio selvatico che parla di precarietà sociale e stress individuale, una terra di nessuno dove possiamo incontrare “le nuove povertà, gli immigrati, gli emarginati, gli esclusi”. Anche per questo, forse, il poeta, nella sua dimensione per definizione sradicata e selvatica (eppure autodisciplinata – non dimentichiamo, con Robert Frost, che “A poem is an arrest of disorder”) è tra i primi a sentire questo paesaggio. “Direi che per me ancora oggi è molto tonificante restare rasoterra e rasoombra, riferirmi ad esempio ad alcuni fiori come i topinambùr che se ne infischiano di tutto, sbucano fuori magari nei luoghi più devastati, al limite delle grandi strade e nelle golene e che odiano i giardini e recinti. Rappresentano la forza liberatrice che possiede la natura che a un certo momento produce anche nei luoghi degradati qualcosa di veramente meraviglioso: che non vuol nulla se non esserci e basta, e compiuto il suo passaggio se ne va nella metamorfosi perpetua”. Queste parole di Andrea Zanzotto non sanciscono in modo definitivo il legame tra poesia e terzo paesaggio?
E la letteratura, l’arte più in generale? Che tipo di paesaggio occupano intorno a questo incolto, residuo, friche?
Amo una fotografia scattata nel 1967 da Richard Long e intitolata A line made by walking. Rappresenta l’avvento del corpo dell’artista nel paesaggio. Mostra un prato al limitare di un bosco e la traccia di un sentiero che si è formata con il ripetersi del passaggio del fotografo. Se l’erba calpestata immortala intenzionalmente la presenza-assenza dell’artista, molti sentieri, urbani e non, contengono invece il carattere involontario, imprevisto e irregolare dei “terzi paesaggi” intuiti da Clément. Sentieri non pianificati, generati dal cammino marginale dei passanti, percorsi inattesi. Possiamo pensare il terzo paesaggio come lo spazio che accoglie il non coltivato e si contrappone all’insieme dei territori (anche editoriali) sfruttati in modo prevedibile e iperproduttivo. Penso a certi cataloghi editoriali come a parchi naturali che, a volte persino con le migliori intenzioni, l’ambizione commerciale ha isolato dalla verità dell’esperienza fisica, trasformandoli in riserve-Disneyland o in aree per voyeurismi e feticismi naturalistici. Direi quindi che il terzo paesaggio porta con sé un’idea imprevedibile e selvatica di autenticità come espressione del vero sé a dispetto delle costrizioni, delle convenzioni e dei conformismi. Questa autenticità è l’anima del paesaggio, che non coincide con un “belvedere”. Ed è l’anima della scrittura poetica e della vita psichica. Proseguendo con le analogie c’è una produzione intellettuale contemporanea che possiamo paragonare a certi paesaggi di imbalsamazione cosmetico-commerciale (centri storici gentrified e borghi antichi prettified), a luoghi di pseudo-estetiche globalizzate e organizzate per fasce di censo (dall’etnochic all’etnopop), a luoghi contaminati dall’inquinamento, dalla trascuratezza e dal degrado.
E uscendo dalla letteratura? Dove ci conduce questa conversazione. Verso quali campi? Verso quale politica nel senso più ampio di questa parola, che riguarda non solo il politico come è normalmente inteso ma anche (oltre) l’umano?
Per quanto mi riguarda inevitabilmente ad alcune considerazioni sulla psicoanalisi e il suo rapporto con il tessuto sociale. Parto dalla parola “campo”, parola di paesaggio presente nella tua stessa domanda. La vicenda analitica si svolge in un campo bipersonale, luogo d’incontro tra i personaggi che abitano il mondo interno del paziente e quello dell’analista, paesaggio dove l’analista può osservare contemporaneamente l’analizzato e se stesso. Nel campo, la situazione analitica ha una sua struttura spazio-temporale, è orientata lungo specifiche linee di forza e di sviluppo, possiede obiettivi generali e momentanei. Il campo può essere dunque considerato lo spazio analitico, un terreno variabile, attraversato da emozioni e protoemozioni che appartengono alla coppia analitica e vengono continuamente trasformate in narrazioni. Non è un caso che, per darci un’immagine del campo analitico, il collega Nino Ferro ricorra alla cartografia fantastica del Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, su cui Fellini basò La voce della luna. Un atlante acqueo “che si legge penetrando con gli occhi sempre più dentro, una regione sotto l’altra”, dove “i confini delle nostre regioni ondeggiano, come succede nella realtà” e dove, “se si formano delle correnti […], l’inchiostro della tipografia si spande e si sfilaccia, come le nuvole quando c’è il vento”. Un atlante in cui, se si stampano parole o colori “per indicare le montagne e i prati” o “un tratteggio […] per indicare le valli nebbiose”, a poco a poco, “per la natura dell’acqua, tutto questo fitto di segni si diluisce e forma delle ombre o delle striature”. Il campo, dunque, coincide con la sua narrazione che, nel momento in cui viene compiuta, è già altrove. La psicoanalisi stessa, “messa alla prova dalla ridefinizione dei propri confini” diventa una “mappa continuamente aggiornata” capace di tracciare il disegno di “luoghi a venire”. L’esatto contrario delle rassicuranti carte geografiche, fisse e menzognere, su cui scherza Wisława Szymborska nella sua poesia La mappa. L’altro elemento verso cui mi conduce questa conversazione è un’idea politica e politeista di psiche. La psiche come “città aperta”. Come negare che il nostro sviluppo avviene in una costante immersione nel mondo politico e sociale, per cui la psiche di ognuno, attraverso il linguaggio da cui è strutturata, assorbe norme e conflitti politici? Ancora con Szymborska: “I tuoi geni hanno un passato politico,/la tua pelle una sfumatura politica,/i tuoi occhi un aspetto politico./Ciò di cui parli ha una risonanza,/ciò di cui taci ha una valenza/in un modo o nell’altro politica”. Per questo, e mai come in questo momento di pandemia e di crisi emotiva globale, è giusto chiedere alla psicoanalisi di interessarsi al mondo e di assumersi responsabilità in questo senso politiche.
Che cos’è che non ti ho chiesto, e che vorresti dire?
Vorrei citare un’ultima parola sul rapporto tra poesia e paesaggio: retentissement. Una parola amata sia da Gaston Bachelard sia dallo psicoanalista Christopher Bollas. Potremmo tradurla con “eco”, meglio ancora “riverbero”, a indicare quel fenomeno che porta il lettore, di fronte a un verso che lo cattura, a sentirsi come il poeta che l’ha creato. Anzi, a sentire che quell’immagine, quel verso, è per lui, è suo. Mentre la risonanza si disperde sui vari piani della nostra esistenza, il riverbero ci porta nella profondità. Con la risonanza sentiamo il poema, con il riverbero lo parliamo. Di fronte a quell’immagine, poeta e lettore reagiscono nello stesso modo, vengono còlti nella loro identi(ci)tà. Non solo: l’esperienza del retentissement attiva in chi legge un’intensità poetica che emerge in modo spontaneo, pre-psicologico. Risonanze affettive e ricordi arrivano in un secondo momento. La comprensione stessa della poesia arriva dopo. È come se il verso venisse da un luogo interno del poeta e raggiungesse un luogo interno del lettore senza smuovere le superfici. Come se immagine, psiche e linguaggio si cercassero fino a coincidere, in una perfetta metrica neurale. È ciò che mi accade quando leggo la prima terzina di questa poesia di Sandro Penna: «Mi nasconda la notte e il dolce vento./ Da casa mia cacciato e a te venuto/ mio romantico antico fiume lento». L’incipit leopardiano mi prepara alla consolazione fluviale del meraviglioso endecasillabo “mio romantico antico fiume lento”, alla pace della sua ripetizione interna (romantico-antico). Nel riverbero, la terzina di Penna mi consegna contemporaneamente alla poesia e al paesaggio: promuove un’azione poetica, inaugura una forma. Il modo in cui l’esperienza riverberante partecipa alla costruzione della realtà comprende il tentativo simultaneo di dotarla di senso e di trovare-creare, in noi stessi e nel mondo esterno, una dimora per i nostri vissuti emotivi.
E ora vorrei ringraziarti per le tue domande, che consentono sconfinamenti obbligando al rigore.
[Immagine: Richard Long, A line made by walking (particolare)].