di Luca Iletterati
Non ho mai voluto creare ‘un’opera che dura nel tempo’ ma volevo preservare i nostri corpi che respirano e non vengono raccontati, dentro il tempo.
Ocean Vuong
‘We Are Who We Are’, la serie diretta da Luca Guadagnino e da lui scritta insieme a Paolo Giordano e Francesca Manieri, è probabilmente il film più riuscito di Luca Guadagnino. Perché in effetti di un film si tratta e non, come pure appare, di una serie. Gli episodi in cui si dipana la narrazione – talmente fluida da apparire quasi priva della necessità di una qualche trama che la debba sostenere – non rispondono a nessuna logica seriale. Non c’è una direzione determinata che mira a spingere in avanti lo spettatore, a collocarlo dentro l’attesa di un ‘non ancora’ che deve avvenire, come è appunto tipico delle serie. In WAWWA – l’acronimo del titolo che ha l’immediatezza del nome di una rock band, ma ce potrebbe essere anche la sigla di un movimento spontaneo o anche una variante paradossalmente meno identitaria ed escludente rispetto a LGBT o ad altre sigle del genere – non c’è un ‘verso dove’ che dà senso alla storia. La storia è tutta in quel ‘qui e ora’ che non a caso apre ogni singolo episodio. WAWWA è il film più riuscito di Guadagnino non solo perché finalmente lontano dalla non di rado artificiosa affettazione di ‘Call me by your name’ o da alcune forme di ostentata sofisticazione citazionale di altri suoi lavori, ma soprattutto perché nel microcosmo straordinariamente peculiare e niente affatto consueto dentro cui si svolgono le vite dei protagonisti – famiglie e adolescenti in una base militare americana nei pressi di Chioggia – si riflette di fatto il mondo intero, l’epoca dentro la quale siamo immersi, quello che verrebbe persino voglia di chiamare lo spirito del tempo; ovvero ciò che è già realtà nel tempo, nel mondo e nella vita e che invece le nostre forme di pensiero e i nostri schemi concettuali non sono ancora riusciti ad afferrare, ad accogliere, e dunque, di fatto, non solo a capire, ma nemmeno a pensare.
La scelta di collocare la vicenda dentro un luogo come una base militare americana nel paesaggio esso stesso fluido e incerto della laguna è potente ed efficace. Da una parte una base militare, un luogo ipernormato, retto da regole ferree, da controlli capillari; dall’altra la laguna, né mare né terra, sia mare sia terra, identità in divenire e impossibile da chiudere dentro geometrie e traiettorie decise e definite. Contemporaneamente, però, la base, che dovrebbe essere il terreno fermo e solido contrapposto alla liquidità della laguna, è un luogo del tutto fuori contesto, una sorta di villaggio senza radici, privo di quelle strutture relazionali che invece l’essere interrati e incistati dentro una qualche appartenenza, così come l’essere avvinghiati a una qualche identità predeterminata e più o meno scontata, sempre impongono. Gli abitanti di questa città artificiale, di questa città-caserma ovviamente gerarchizzata, eppure al tempo stesso tendenzialmente piatta, in quanto priva delle infinite stratificazioni materiali attraverso le quali si manifestano le differenze (le case qui sono più o meno tutte uguali, le scuole sono le stesse per tutti, il rapporto con il mondo di fuori è più o meno il medesimo indipendentemente dal grado militare che si rappresenta), dalla quale sono liberi di uscire, in quel fuori dove ci sono gli estranei, ma nella quale nessun estraneo invece può entrare, sono vite definite dall’identità della nazione che rappresentano – che non è quella in cui, di fatto, si trovano – e che tuttavia sembrano non poter contare su alcuna reale appartenenza. Sono – gli abitanti di questa città – individui strutturalmente sradicati, privi di di qualsiasi legame originario a delle abitudini o a delle pratiche che ne predeterminino la configurazione esistenziale. Sono soggettività che, proprio perché non appartengono a un mondo definito se non a quello artificiale della base, esplicitano e rendono visibile un senso di sospensione e mancanza che, anche se non ci identifichiamo con l’esperienza peculiare che incarnano, riusciamo però a riconoscere, avvertendolo come qualcosa di stranamente intimo e famigliare.
Quelle che veniamo poco alla volta a conoscere in WAWWA sono esistenze allo stesso tempo iper-definite e insieme radicalmente in-definite.
A partire da quelle di Fraser e Caitlin, i due strepitosi adolescenti che fanno quasi da guida in questa storia senza storia. E non è certo un caso che siano degli adolescenti, ovvero dei soggetti per definizione indefiniti, esistenze immerse dentro un enigmatico e sempre più prolungato e complicato rito di passaggio che sembra dilatarsi fino a coinvolgere la totalità dell’esistenza, a reggere il senso della storia. Fraser e Caitlin non sanno ciò che sono: non sanno se riconoscersi nel sesso che si sono trovati addosso, nella biologia che li attraversa, non sanno cosa vogliono, non sanno dove stanno andando e se stanno andando da qualche parte. Eppure, da un certo punto di vista, Fraser e Caitlin sono ciò che sono (we are who we are), nel senso forte del termine, più di quanto non lo siano altri. Fraser e Caitlin più di altri sono ciò che sono, perché più di altri accettano questo loro non sapere chi sono: lo esplorano, lo vivono e lo percorrono. L’essere quello che si è, insomma, non è l’aderire a qualcosa, il pacifico acquietarsi dentro una qualche immagine di sé. Fraser e Caitlin sono quello che sono, in quanto sono quello che divengono; vivono, certo non senza dolore e sofferenza, il loro essere in divenire, il loro essere questo diventare ciò che sono. Fraser e Caitlin sono intimamente contraddittori. Allo stesso tempo, però, non agiscono con l’obiettivo di sciogliere la contraddizione, di uscire dall’indeterminatezza. Vogliono semmai provare ad essere davvero questa contraddizione, questo essere irrisolto, nuotarci dentro, lasciarsi prendere dal gorgo. E qui c’è anche la paura – una sorta di tenero terrore – che i desideri prendano forma, che l’immaginazione diventi realtà, che il possibile si solidifichi. Così, Fraser e Caitlin sono ognuno maschio, ognuno femmina, ognuno né maschio né femmina; sono avventati e paurosi, sbruffoni e timidi, interni ed esterni al gruppo, carichi di voglia e incapaci di realizzarla, terribilmente goffi e in questa goffaggine straordinariamente perfetti, incredibilmente coerenti con il paesaggio metafisico della laguna, della confusione di acqua e terra, di villaggi insieme provvisori ed eterni.
In questo tentativo di essere senza decidere ciò che si è, Fraser e Caitlin – e come loro tutti gli altri protagonisti che compongono questo mondo forse bizzarro eppure più reale della realtà – sono però soprattutto dei corpi. Dei corpi che sentono, dei corpi che esplodono, che sfuggono a tutte quelle logiche estranee alla corporeità e che invece pretendono di aver già deciso cosa quei corpi siano. Fraser e Caitlin, a ben vedere, sono corpi che parlano, una sorta di linguaggio afono, insieme disarticolato e potentemente espressivo: il modo di correre di Caitlin è un discorso più intenso delle parole che le escono dalla bocca, come lo è l’ipercineticità nevrotica di Fraser, la sua commovente scompostezza, la sua sconcertante violenza e la sua ruvida delicatezza.
Gli adolescenti di WAWWA sono esistenze che provano – con tutto il peso che questo provare implica – a lasciarsi essere ciò che sono; esistenze costrette dentro un mondo fuori dal mondo e tuttavia paradossalmente libere: non vincolate a una realtà che chiede di essere riconosciuta e che impone ad esse di riconoscersi, vite gettate dentro uno spazio nel quale cercarsi, nel quale provare ad essere questo cercarsi.
Per gli adulti è più difficile. Nel loro caso la vita sembra avere deciso ciò che devono essere. Ma il fatto che la vita abbia deciso, non significa che la loro esistenza corrisponda a ciò che effettivamente sono. Alla mamma nigeriana di Caitlin basta l’incontro con una delle due mamme di Fraser (una biologica, la comandante della base, e una acquisita in quanto compagna della madre biologica) per rendersi conto di non essere la donna felice che vuole essere e che si è sempre sforzata di essere.
Le vite di WAWWA sono vite in bilico – in ogni famiglia c’è un militare che sa di poter essere spedito in missione in qualunque momento –, vite nelle quali l’irrompere reale della morte spezza per un attimo la condizione di sospensione che le caratterizza, ricompattando i gruppi, le famiglie, ricostituendo appartenenze e identità fisse, quasi bloccando ciò che diviene, solidificando e pietrificando la sostanza fluida dell’esperienza. Come se identità e appartenenza, e con esse tutte le dinamiche escludenti che segnano la vita collettiva, si rivelassero nient’altro che meccanismi di difesa rispetto alla potenza distruttiva della morte. Come se l’uccisione della vita spingesse la vita a non essere più ciò che è per ricompattarsi dentro strutture solide e rassicuranti.
Con WAWWA si entra dentro a un mondo inconsueto, straniante, inusuale. E tuttavia in esso si avverte qualcosa del mondo che noi stessi siamo e che forse perlopiù ignoriamo di essere.
La realtà, come è noto, è sempre un passo più in là rispetto ai nostri pensieri. Ogni volta che ci convinciamo di averla catturata, essa ha mutato natura e ha assunto una consistenza che le nostre parole, i nostri concetti, non sono più in grado di trattenere. Questo vale anche per la “nostra” realtà, quella che saremmo portati a chiamare identità e in cui crediamo di poterci riconoscere come ciò che siamo.
L’arte, però, è la capacità di cogliere, attraverso l’intuizione, ciò che il concetto non ha ancora la forza o la determinazione di cogliere. L’arte, sosteneva Hegel, è immersa nel presente in un modo diverso da come lo sono la rappresentazione religiosa o il pensiero filosofico. Tanto la rappresentazione religiosa quanto il pensiero filosofico sembrano venire sempre dopo rispetto al presente. L’arte, invece, proprio perché è intrecciata al presente ed è invischiata in esso, lo vede e lo esprime, ne coglie gli elementi di frattura, le crisi, intuisce le trasformazioni che in esso si stanno producendo e dà forma al divenire. Non a caso WAWWA è costellato di libri. Fraser è un lettore appassionato, come lo è Jonathan, il militare che lavora con la madre di Fraser e che è l’oggetto del desiderio di Fraser. Entrambi leggono Ocean Vuong, scrittore statunitense di origine vietnamita: sia le poesie di Vuong (in italiano è stata tradotta nel 2019 da Damiano Abeni e Moira Egan per La Nave di Teseo con il titolo Cielo notturno con fori d’uscita la raccolta del 2016 Night Sky with Exit Wounds) sia anche il suo più recente romanzo, On Earth We’re Briefly Gorgeous (tradotto in italiano con grande cura da Claudia Durastanti e pubblicato nel 2020 sempre per La Nave di Teseo con il titolo Brevemente risplendiamo sulla terra) che sembra essere uno dei riferimenti forse più diretti nella costruzione del film. Brevemente risplendiamo sulla terra è infatti un romanzo di formazione scritto in prima persona in cui il protagonista, Little Dog, dà voce alla condizione stessa di chi è senza patria, senza radici evidenti, alla ricerca di una identità che è di cultura, di genere e di ruolo sociale. Ma quasi come controcanto a Vuong, Fraser e Jonathan leggono anche Le Benevole, di Jonathan Littell (romanzo del 2006, tradotto per Einaudi da Margherita Botto nel 2008), anche questa una narrazione in prima persona, ma di un militare delle SS attivamente coinvolto nello sterminio del popolo ebraico e arruolatosi perché sorpreso durante un incontro tra omosessuali in un parco. Libri che parlano di esistenze contraddittorie e mai esauribili dentro identità definite e facilmente classificabili, libri che prendono sul serio l’immersione della vita nel fango del mondo.
WAWWA intuisce un presente – un qui e ora – in radicale e fluida trasformazione e intuendolo ne prepara forse la comprensione. Nelle immagini della laguna, nelle facce insieme bizzarre e comuni dei protagonisti, in quei corpi sghembi che parlano parole afone avvertiamo qualcosa che ancora non siamo forse in grado dire e che pure abita già il mondo e la realtà dentro cui siamo. Un mondo e una realtà che non sono già più quello che ancora adesso pensiamo che siano.
[Una versione breve di questo testo è apparsa su Il mattino di Padova].
“‘Qual è l’età dello spettatore?’ […] è una perpetua adolescenza, ossia un età senza fine dove le azioni intraprese rivelano un disagio del corpo immerso in esse, è un’età infinita quella che deve scontare la fatalità di non arrivare a compimento, a mettere cioè il mondo in equilibrio…”
Jean Louis Schefer, L’homme ordinaire du cinéma, Gallimard, Paris, 1983 p. 162