di Anonimo
[Questo è un manifesto-proposta per l’anonimato intellettuale. L’idea è semplice: almeno in questo ecosistema – nei blog, nelle riviste online, nei social –, ma forse anche fuori di qui, l’autore non è affatto in declino, né morente, pace Roland Barthes. Forse il lettore è autore, qui più che altrove. Forse questa è la fabula dove regna incontrastato il lector, sotto forma di like. Eppure, se è così, il lettore è inevitabilmente irretito nelle maglie dell’autore – della sua celebrità, del ruolo che ha, del pulpito da cui parla. E anche chi autore non può essere nel senso classico, cioè l’individuo qualunque, qui – in questo ecosistema – spesso come autore si atteggia sin da subito. La funzione-autore foucaultiana si esercita a tutto spiano in certi ambiti della Rete, fagocitando tutto il resto. Fagocitando soprattutto le idee e il merito delle argomentazioni. Allora, la proposta è mettere l’autore fra parentesi, dare uno spazio a chi accetterà di prenderselo – a certe condizioni, naturalmente – senza volerlo occupare con la propria identità, ma solo con la propria voce. Potrebbe non accettare nessuno; potrebbero essere troppi i favorevoli alla proposta. Lo vedremo. La rubrica inaugurata da questo intervento, e curata dal suo autore anomimo, sarà lo speaker’s corner per chi, parte del General Intellect, vorrà sfuggire dalla logica che rende la produzione intellettuale un altro ambito della produzione di ricchezza, che fa della comunicazione umana una fra le altre merci. Testi collettivi, testi irregolari, testi provocatori, testi marginali: voci della moltitudine potranno apparire qui, sotto le mentite spoglie dell’anonimato e grazie allo scudo che esso garantisce.]
Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio.
M. Foucault, Che cos’è un autore?
- Incipit
Stai per cominciare a leggere un post su Le parole e le cose2. Potresti esserci arrivato in molti modi. Magari sei uno di quegli affezionati lettori o lettrici che controlla il sito tutte le mattine, o ci arriva dalla posta elettronica, perché sei abbonata alla newsletter. Ma è più probabile che rimbalzi qui da un social, uno dei tanti che chi cura questo sito, o chi ci scrive, usa. Precisamente: da un post di questi social, in cui, dopo un breve commento, o una foto, talvolta una sola parola, c’è il link a questa pagina. Spesso, molto spesso, è l’autore medesimo del post a metterlo sulla sua bacheca, o a twittarlo – più raramente a mettere il link a commento di una foto su Instagram. Sempre, sono anche i curatori di questo blog a diffondere i link a ogni pagina nuova sui social.
Se le cose stanno così, è molto probabile che tu legga dal tuo smartphone. E quindi potresti essere ovunque. Potresti essere in ufficio (e in questo caso potresti anche stare leggendo dal computer, e il computer potrebbe essere il tuo personale, se sei un certo tipo di lavoratore, oppure potrebbe essere quello dell’azienda, o comunque del datore di lavoro). E, se sei in ufficio, ci sono molte probabilità che non dovresti proprio stare leggendo questo post, invece di lavorare, tranne che tu non sia una di quelle poche persone per cui farlo è, in qualche modo, lavorare. E quindi, forse, a questo punto tornerai al lavoro, chiuderai questa pagina. Oppure, potresti continuare, attratto da quello che sto scrivendo.
Come dicevo, però, è molto più probabile che tu legga dal tuo smartphone, e che sia giunta qui saltando di link in link. Ed è probabile che tu stia in qualche posizione precaria. Magari sei sull’autobus, o in metro, se vivi in una grande città, o su un treno locale. Potresti essere in macchina: in questo caso chiudi subito, oppure fermati! Potresti essere in fila, a un incrocio, al supermercato, in un ufficio.
Ovunque tu sia, non è necessario che ti concentri troppo. O almeno non serve che tu dedichi a questo post più della concentrazione distratta e multitasking che tributi (come tutti noi) al flusso di informazioni, messaggi vari e stimoli che escono continuamente dallo smartphone. Non devi raccoglierti, o allontanare da te gli altri pensieri, né devi interrompere contatti con l’esterno. Niente porte da chiudere, televisioni da spegnere, altri da avvertire. Niente urla: “Sto leggendo il nuovo post giornaliero di Le parole e le cose2!”. Sarebbe alquanto ridicolo. E la posizione in cui leggi non puoi certo sceglierla. Leggi in piedi, o camminando – attenta a quel palo! –, o seduta scomodamente, o pigiata insieme ad altri corpi su un mezzo pubblico.
Non fa niente. Non c’è bisogno di molta attenzione qui. Se sei arrivato sin qui, hai trascorso quei secondi che ti serviva impiegare, hai ricevuto quella zaffata di serotonina da blanda stimolazione che cercavi. E non c’è bisogno di molta attenzione per notare una cosa, d’altra parte. O forse un po’ d’attenzione serve, ma poca. Per esempio, basta notare che queste parole, o questo stile, non te le aspettavi dal proprietario della bacheca da cui provieni – penso sempre che FB, dato il pubblico di Lplc2, sia la cosa più probabile. Basta questo a farti sospettare che questo post non sia suo. No, non è la solita autopromozione. Il tuo amico, la tua amica, non può aver scritto questo pezzo. Nel post, rimanda a un pezzo altrui. Ma di chi? Aspetta, vai su, scorri lo schermo verso su, scrolla, come si dice. Ecco, guarda l’autore. Ecco: vedi? L’autore non c’è. Questo pezzo è anonimo. Ti chiedi: “Ma da quando Lplc2 pubblica pezzi anonimi?”. Se sei una lettrice affezionata, forse te ne ricordi altri…
Può darsi che a questo punto la cosa si faccia più interessante. Forse adesso pensi che ci voglia maggiore attenzione. Forse ti fermi, se sei veramente in macchina. E dovevi farlo prima: sconsiderato! Oppure, forse adesso vai via, abbandoni questa pagina. Figurarsi! dici. Adesso mi metto pure a leggere i post anonimi! Se uno vuole dire qualcosa, insomma, deve metterci la faccia, come si suol dire: o forse sarebbe meglio dire, adesso, che deve metterci il profilo, l’identità social, il nome. Potresti pensare questo, mentre premi il tasto sinistro, o destro, in basso del tuo telefonino, per tornare indietro, oppure mentre chiudi questa pagina sul tuo computer.
2. Effetti d’identità
Ma immaginiamo invece che tu non lo faccia, che la tua sia la prima reazione di quelle elencate sopra (una reazione d’interesse, anzi di maggiore interesse). Vorrei chiederti: perché la cosa t’interessa o ti colpisce? Perché il fatto che questo post non abbia autore – o meglio, non abbia autore noto, qualcuno che scrive ovviamente dev’esserci stato (qualcuno che ha scritto, iniziando su un Frecciarossa magari, quel giorno, tornando da un viaggio di lavoro, riprendendo degli appunti scritti chissà quando, e finendo di scrivere sull’ultimo treno, quello locale, il più vicino a casa). Dev’esserci stato un autore, tranquillo: questo testo non arriva qui per caso, come quello delle scimmie instancabili, né è il prodotto di GPT-3 …
Allora: sei tornata? Perché immagino tu abbia cliccato sui link sopra, e sia andata a vedere. Stavamo dicendo: immaginiamo che tu sia interessata, o colpita, dal fatto che Lplc2 pubblichi un testo anonimo. Volevo chiederti: perché? Perché è importante che questo testo abbia un autore noto, e non solo, com’è inevitabile, un autore?
Aspetta. Non voglio imbarcarmi a discutere con te sull’autorialità, sull’importanza dell’io narrante, della voce o dell’io poetico. Non voglio riprendere la questione della morte, o delle resurrezione, o della trasformazione dell’autore. So per certo che molti lettori abituali di Lplc2 potrebbero parlare di queste cose, e darmi lezioni. Ma aspetta. Questo non è un testo letterario. So che non eri tenuta a saperlo, so che debbo dirtelo, giacché su Lplc2 escono anche testi propriamente letterari – poesie, pezzi di romanzo, saggi impegnati. Ebbene, te lo dico: no, questo non è un testo di quel genere. Questo è un post tradizionale, per così dire. Proprio uno di quelli cui si arriva più di frequente dalle vie che ho ricostruito sopra, e che secondo me restano le vie d’ingresso più probabili da cui giungere qui. Questo è un post dove si avanza un’idea, si fa un commento, si argomenta un punto, si espone un pezzo di una visione del mondo. Non che questo non si faccia nei testi letterari, o nei saggi, beninteso. Ma lo si fa anche, e ormai lo si fa più frequentemente in questo tipo di testi, nei post dei blog, che ormai non esistono neanche più come fonte primaria, ma sono quello che anche questo è: punto d’arrivo di rimbalzi, a partire dai social.
Allora, il punto è: perché è importante che questo tipo di testo abbia un autore noto? Oppure, perché il fatto che non lo abbia ti colpisce? A che cosa serve di preciso l’autore? Serve, come diceva Foucault, a costruire l’opera? Senza l’autore, queste sono solo parole, sono solo rotoli di carta virtuale su cui, durante le nostre giornate in carcere, elaboriamo i nostri fantasmi?
L’idea che vorrei avanzare qui (finalmente ci arrivo) è questa: è vero, se l’autore non è noto, lo notiamo (bello il bisticcio, vero?). Se l’autore non ha un’identità, la cosa ha effetti – effetti che possono essere opposti, come dicevo prima: o un aumento dell’interesse o una diminuzione, un azzeramento di qualsiasi interesse. L’autore, insomma, fa parte del testo. Anzi, l’autore è e fa il testo. Non cerchiamo testi, cerchiamo personaggi. Non cerchiamo idee, cerchiamo emittenti di idee. O non riconosciamo le idee senza sapere chi, o che qualcuno, le ha dette.
E vabbe’, dirai, ma questo è ovvio, e banale. Da un lato, riproduciamo una situazione vecchia come il mondo, o comunque vecchia come il mondo umano: parlare con qualcuno. Noi ascoltiamo, prestiamo attenzione, se c’è una voce umana come la nostra – e tutto, la letteratura, i social, lo spettacolo, è finzione di voci umane, finzione di dialogo. E da sempre l’autore, come parte del paratesto, è anche e sempre parte del testo, tipograficamente, ma anche logicamente. E ogni testo è comunque un io che parla a un tu, e quindi ogni testo evoca il suo autore. Dall’altro, ci sono gli effetti di spettacolarizzazione, di show business e di mediatizzazione della discussione pubblica, del mercato delle idee, di cui ormai sappiamo tutto. C’è bisogno di un autore anonimo su Lplc2 per scoprire l’egemonia, il nazional-popolare, o fare un’analisi bourdieusiana? C’era bisogno di tutto questo, nell’epoca dei festival dove si presentano libri che non verranno letti, delle lezioni televisive e su youtube affollatissime e delle aule universitarie deserte, dei premi letterari senza fine e delle quotidiane sensazionali scoperte letterarie? C’è bisogno di questo, nell’epoca dove il General Intellect ha fagocitato il lavoro e la politica? Dove l’industria culturale, la fabbrica dell’anima, è diventata industria generale dei mezzi di produzione?
Forse non ce n’è bisogno. Forse tutto questo è vero. Ma io vorrei dire un’altra cosa – meno epocale ma anche più precisa. Il punto è che la presenza dell’autore spesso (o almeno qui, in questi post, in questi luoghi dove molti di noi scrivono e leggono) offusca, anzi quasi annulla, il contenuto, l’idea. Forse esagero. Diciamo allora che la presenza, e soprattutto l’identità dell’autore, o forse di certi autori, influenzano, anzi quasi determinano, il contenuto e la sua ricezione. Il fatto che certe cose vengano dette da certe persone le rende diverse. (E, peraltro, il fatto che certe cose vengano dette da persone che si comportano come autori è parte essenziale della produzione di merce culturale post-fordista. Il nuovo sfruttamento delle moltitudini, forse, sta proprio nel quarto d’ora di celebrità esteso a tutti.) E le cose sono diverse se dette da certuni non solo nel senso banale che se certe persone, persone di visibilità, dicono certe cose, le loro parole raggiungono più lettori. Né nell’altro senso, banale anch’esso, che le caratteristiche dell’emittente – a partire dalle cose, più o meno note, che ha dette prima, per finire con la sua autorevolezza, ma anche col ruolo, col personaggio che incarna – determinano la nostra interpretazione del messaggio. È ovvio che, per esempio, certi messaggi cambiano di segno se provengono, ad esempio, da un uomo o da una donna, da un politico o da un accademico, e così via. E certe opere cambiano natura se si scopre che non sono state scritte da chi credevamo. Il nome d’autore non è un nome proprio come tutti gli altri.
Quello che ho in mente, però, è qualcosa che si aggiunge agli effetti ovvi di cui sopra. Il fatto è che, specialmente in questo tipo di comunicazione (cioè post su blog e social), la presenza dell’autore – e non solo quando l’autore è ovviamente ingombrante, o quando lo è troppo poco – tende ormai sempre più ad annullare quasi del tutto il messaggio, e a costruire interamente la ricezione del messaggio. Volendolo dire con uno slogan, l’autore è il messaggio, o il messaggio è l’autore. Gli effetti di identità annullano gli effetti comunicativi e determinano totalmente gli effetti di ricezione.
Forse tutto questo rimane banale, nel senso di ovvio. Forse, peraltro, si tratta di un fenomeno poco rilevante, perché avviene su blog, social e altre forme estemporanee del chiacchiericcio inautentico in cui siamo immersi. Si può pensare – stavo scrivendo: c’è la tentazione di pensare – che ci siano altre sedi, sedi più meditate, più lente, più durature, dove le cose non vanno così. La lenta formazione del pensiero, che avviene ancora in libri, in articoli scientifici, in convegni, è un luogo veramente democratico, in cui conta l’idea, l’argomentazione, non chi la propone. Tanto è vero che tutti questi luoghi di produzione del pensiero – libri, articoli, convegni – sono regolati da procedure di blind referee.
Eppure, proprio questo riferimento al blind referee, cioè alla procedura per cui un esperto valuta un articolo o un libro senza sapere chi lo ha scritto, mi ha fatto vedere in un altro modo le cose che avvengono qui. Nel campo dell’accademia, il blind referee serve a evitare conflitti di interessi, in primo luogo. Ma serve anche perché si eviti un peso eccessivo dell’autorità e dell’autorialità, nonché di quelle dinamiche che hanno proprio a che fare con la presenza di un autore noto. In altri termini, si deve valutare se l’idea è buona, indipendentemente dal fatto che provenga dal grande luminare o da un pivello alle prime armi. La selezione, ciò che rende il luminare e il pivello tali, sono la bontà o meno delle loro idee, non le posizioni acquisite, il nome, la cattedra, il ruolo, l’accesso ai mezzi. È il punto terminale di un lungo processo. Prima molte opere letterarie viaggiavano anonime, e bastava la loro antichità e la loro trasmissione a garantirle. Le opere scientifiche, nel loro primo sorgere, erano invece legate necessariamente a un nome d’autore – Euclide, Tolomeo – che attestava l’evidenza, che tramandava una tradizione di ricerca e di testimonianza in prima persona dei fenomeni. Pian piano, l’idea che le verità presentate potevano essere indipendenti, perché di nuovo replicabili, si fece strada, e l’autore divenne necessario per le opere letterarie e di pensiero, per garantire l’imputabilità di quel che si percepiva ancora come atto d’audacia o di rottura.
La cosa paradossale che sto cercando di dire qui è che questa modalità – la selezione delle idee in quanto idee, e non in quanto pronunciamenti del vate – è un ideale da rinnovellare proprio qui, dove forse non avviene efficacemente: in Rete, o in quella parte della Rete occupata dall’ecosistema di post su blog e social. Quelli dei lettori che credono che in realtà anche nell’accademia, o nella scienza, tutto sia una questione di potere, mi diranno che ho scoperto l’acqua calda: la scrematura delle buone idee senza tenere conto degli effetti d’identità non avviene mai in Rete, diranno, tutto è potere, e anche la cultura e la comunicazione lo sono, e l’identità è potere, il corpo del re, i riti, homo academicus, sapere-potere e così via. O, in una versione più gentile e fuori moda, potrebbero parlare di egemonia e politica culturale. Altri ancora mi potranno dire che questo è il mercato, è il mercato delle idee, bellezza, e le idee sono merci come le altre, e tutto sommato la gente sente quel che vuole sentire. Il blind referee, come istituzione, seleziona ma è anche fattore di conformismo: difficile che da questo tipo di procedura esca l’innovazione reale. Qualcuno potrebbe arrivare a dire che in tutto quello che avviene in Rete c’è comunque una forma di democrazia, di libertà, di maggiore accesso alla discussione, che il regno paludato delle riviste accademiche, o della scienza ufficiale, con i suoi blind referee, nasconde soltanto delle camarille, e si trincera dietro vincoli che servono solo a impedire il libero fluire del pensiero, o a escludere le idee eterodosse e irregolari. Qui, invece, tutti possono parlare di tutto – parlano di filosofia i non filosofi, di fisica i non fisici, di epidemiologia tutti gli altri. Per alcuni questo è il potere democratico della Rete, per altri questo è l’imbarbarimento dei nostri tempi. Per alcuni sono i Barbari che produrranno, dopo pochi secoli bui, una nuova modernità. Per altri sono i barbari che annienteranno la civiltà. Ci torno dopo.
Forse è vero, sono vere tutte queste posizioni, che in realtà non si differenziano poi tanto. Forse il potere, o l’egemonia, o l’accesso democratico alla discussione pubblica sono i collanti, o anche i veri valori, che muovono tutto quel che facciamo quando scriviamo un testo come quello che sto scrivendo qui, quando parliamo con altri cittadini, quando mandiamo un tweet, persino quando discutiamo coi colleghi a una riunione, o parliamo con altri simpatizzanti di un certo movimento o partito, o quando teniamo una lezione, o addirittura scriviamo un libro.
Eppure, proprio per questo, mi pare che gli effetti che la presenza dell’autore noto esercita sul contenuto, o meglio sulla sua ricezione, non siano da trascurare. Nello specifico, mi pare che proprio per gli autori la cosa dovrebbe avere importanza. Non parlo tanto degli autori famosi, di chi si imbarca in un’operazione che sul suo nome, sulla creazione della sua identità si fonda. Chi è intellettuale pubblico, e vuole esserlo, chi è personaggio o autore riconoscibile, e vuole esserlo, forse non può fare a meno di quelli che sopra ho chiamato effetti d’identità. Faccio due esempi lontani nel tempo, così evitiamo polemiche, simpatie o la vischiosità dell’analisi dell’ecosistema social. Il fatto che fosse stato Voltaire, nel 1763, all’apogeo della sua fama, a prendere le difese di Calas padre non può non aver influito sulla revisione del processo. (E naturalmente gli esempi contemporanei che possono venire alla mente dei lettori sono innumerevoli. Quanti intellettuali famosi si sono schierati, negli ultimi sessant’anni, in difesa di presunti colpevoli? Quanto ha pesato, nel bene e nel male, il loro nome? Quanto conta il nome di chi indaga su vittime e carnefici nella città dei vivi?) Il fatto che fosse stato l’autore dei Gulliver’s Travel a scrivere la Modesta proposta nel 1729 non può non aver determinato la ricezione del sarcastico pamphlet.
E gli effetti d’identità ci sono anche quando non c’è l’identità. Anche celare la propria identità, in uno sfondo in cui le identità sono sempre note e si gioca con gli effetti d’identità, non cambia le carte in tavola, significa sempre sfruttare gli stessi effetti della presenza dell’autore sul contenuto del testo e la sua ricezione. Anche Elena Ferrante e Wu-Ming sono autori, in questo senso. L’eteronomia non è anonimato. Pessoa e tutti gli altri sono autori.
3. La proposta: anonimato intellettuale
Ciò a cui penso io, però, è un’altra cosa. Penso all’annullamento o alla drastica riduzione di tutti gli effetti d’identità nella discussione pubblica. Cioè nella discussione che persone normali, che tutt’al più fanno parte dell’intellettuale collettivo, del General Intellect, conducono qui e su altri mezzi di comunicazione. Il punto di tutto quello che è detto sin qui è che gli effetti d’identità dilagano e sono inevitabili. Questo non vuol dire che siano sempre evitabili o sempre negativi. Ma certe volte sono tali da coprire del tutto il senso e la sostanza delle idee.
Questa è la premessa descrittiva della mia proposta. Aggiungo anche una premessa normativa, articolata in due parti. Primo: la discussione pubblica, cioè la discussione delle idee di tutti, ha un valore imprescindibile. Ha valore strumentale, perché, specialmente sulle questioni etico-politiche non ci sono esperti (sulla questione degli esperti ritorno), ma tutti noi abbiamo convinzioni che dovremmo discutere, e mettere a confronto con le convinzioni degli altri, e spesso il progresso morale e politico nasce proprio dal confronto fra idee – anche opposte, anche sbagliate. Non saremmo arrivati a superare razzismi e sciovinismi vari se le argomentazioni contro queste visioni avessero continuato a essere censurate. (E fin qui nulla di nuovo: quest’argomentazione è patrimonio di molte teorie liberali della libertà di parola.) La discussione pubblica, inoltre, ha valore espressivo, perché poter esprimere le proprie idee – anche sbagliate, anche profondamente sbagliate, anche odiose (e anche su questo torno) – fa parte dell’eguaglianza democratica e delle basi necessarie per rispettarsi (anche questa è un’argomentazione ben nota nella teoria democratica.) Diciamo che, in quanto cittadini e come esseri umani, ci dovrebbe premere che tutti, e noi con loro, possiamo articolare il nostro punto di vista. E quello che ci dovrebbe premere è che sia il nostro punto di vista, che sia un punto di vista, non che si sappia di chi è, e chi siamo noi.
Seconda parte della premessa normativa: chi più di frequente s’impegna nella discussione pubblica, chi più spesso, o più volentieri, prende la parola, non soltanto, o non principalmente, per fini commerciali, o di posizionamento personale, o immediatamente politici (cioè per vendere un libro, un prodotto, o vincere le elezioni, o affermare il proprio potere), non può che essere interessato alla pulizia, per così dire, del messaggio. E pulizia del messaggio significa non avere troppi effetti d’identità che lo distorcano. E da questo interesse nasce un dovere, un’etica dell’intellettuale comune o dell’intelletto generale – un obbligo in capo a chi non è, né vuole essere, né vate né megafono, né personaggio pubblico, ma semplicemente partecipante alla pari a una discussione pubblica democratica. Il dovere è quello di evitare al massimo, e se necessario annullare del tutto, le distorsioni derivanti dagli effetti d’identità. Il dovere è quello, talvolta, di rendersi anonimi, e lasciare parlare solo le proprie idee. Secondo Foucault, l’indifferenza all’autore è uno dei principi etici fondamentali della scrittura contemporanea. Eppure, ammonisce ancora Foucault, i privilegi dell’autore rimangono, anche quando si guardi solo alla sua scrittura, solo alla sua opera.
Da queste premesse deriva la mia proposta. È recentemente stata fondata una rivista chiamata Journal of Controversial Ideas (https://journalofcontroversialideas.org/). La nuova rivista, si legge nella presentazione che ne fanno nel sito, dovrebbe fornire uno spazio per «la discussione attenta, rigorosa e non polemica di questioni considerate da molti controverse, cioè di tesi che potrebbero essere ritenute da parecchie persone moralmente, socialmente o ideologicamente detestabili o offensive». Nella rivista si possono pubblicare articoli «sotto pseudonimo, in maniera da proteggersi da minacce alla carriera o all’integrità fisica», con la speranza che ciò «incoraggi i lettori a occuparsi delle argomentazioni e le prove a loro favore, quando leggono un articolo, piuttosto che di chi scrive».
La mia proposta ha lo stesso spirito, e lo allarga. Tutte le idee sono controverse, in un certo senso. O meglio tutte le idee hanno bisogno della protezione che il Journal of Controversial Ideas assicura alle idee controverse, che è (anche) una protezione dagli effetti di identità. Dobbiamo ritornare allo statuto originario della scrittura, come atto intrinsecamente rischioso, di parresia, abbandonando l’istituto dell’appropriazione-imputazione tipico dell’attribuzione di autore.
E quindi: proviamo a cercare e a creare uno spazio dove si parli senza apparire, in un certo senso: uno spazio dove si possa esser sé stessi senza essere qualcuno. Proviamo a costruire – qui su Le parole e le cose2 innanzitutto – un mercato di idee senza venditori di idee. Scriviamo, discutiamo, provochiamo, commettiamo anche tutti gli errori che facciamo di solito, diciamo banalità e assurdità, o lanciamo proposte in buona fede, ma senza dire necessariamente chi siamo, lasciando cadere, per un po’, lo sfondo, il piedistallo, il vantaggio, ma anche lo svantaggio, che la nostra identità necessariamente si porta appresso. Come gli alcolisti anonimi, se mi si permette l’ironia, facciamo i cittadini riflessivi anonimi. Forse questo ci potrà disintossicare dai tic, dai veleni, dalle pose che ho faticosamente cercato di indicare sopra. Forse questo renderà più autentica ed efficace la nostra discussione pubblica. Una volta i radicali aprirono i microfoni della loro radio, ricordate? Adesso tutte le radio hanno i microfoni aperti. Non è detto che sia sempre un bene. Ma proviamo a vedere che cosa succederebbe se i microfoni fossero aperti – microfoni più mediati, i microfoni della scrittura, che richiede sempre un minimo di mediazione riflessa – senza aprire agli io, e al peso delle vanità. Può darsi che in realtà in questo modo molti rimangano muti. Ma forse alcuni parleranno di più e diranno cose più interessanti.
4. Risposta alle obiezioni
Prima di chiudere, vorrei rispondere ad alcune obiezioni alla mia proposta, almeno a quelle che riesco ad anticipare. Me ne vengono in mente almeno cinque. La prima potrebbe essere: ma chi ti credi di essere? Se hai detto che per i personaggi, i vati, i brunovespa, i diegofusaro e simili, gli effetti d’identità fanno parte del gioco, per te, che sei un nessuno, non contano nulla. Quello che scrive un nessuno come te è come se fosse già anonimo, in fondo. Perché ti affanni a rinunciare a ciò che non hai? In fondo sei solo invidioso.
Risposta: tutti abbiamo un’identità, nel momento in cui abbiamo un ruolo. I vati e gli intellettuali da festival hanno un’identità specifica, bigliettabile, per quanto anch’essa incistata dentro a un ruolo. C’è l’intellettuale di sinistra classico, il riformista, il destrorso atavico, il turbo-capitalista e così via con tutti gli stereotipi. Noi poveri individui normali abbiamo solo ruoli. Ma il loro peso è forte. Faccio un esempio veloce. Secondo te, che non so se sei donna o uomo (alternavo i generi, su, ricordi?), anziano o giovane, benestante o spiantato (anche se il fatto di essere qui dove siamo mi fa propendere per alcune di queste possibilità), io che cosa sono? Sono maschio o femmina? Ho una cattedra all’università, o sono uno di quegli studiosi irregolari, che avrebbero potuto avere una cattedra ma non ce l’hanno? Oppure sono un expat? O lavoro in una casa editrice? O in banca? Certo, è forse difficile pensare che io sia un coltivatore diretto, o un commesso, o un barista. Ma perché no, d’altra parte? La scuola pubblica in Italia è stata così cattiva che non posso avere anch’io quel minimo di cultura necessaria a scrivere questo testo? Secondo me, se tu sapessi chi sono, se lo avessi saputo sin dall’inizio, oppure lo venissi a sapere adesso, la tua interpretazione, o comunque la maniera in cui consideri questo testo, potrebbe cambiare. Forse, se avessi saputo chi sono, non saresti arrivata sin qui. O forse proprio perché sapevi chi sono, ci saresti arrivato. E, naturalmente, la tua percezione di questo testo sarebbe cambiata se avessi saputo che io sono …. E no. Non te lo dico. Tranquillo, non lo saprai mai. I redattori di LPLC2 sono una tomba. Ma tutto questo dimostra che gli effetti di identità riguardano tutti, e che talvolta potrebbe essere utile annullarli.
E ciò porta alla seconda obiezione, che è: ma è impossibile! Proprio tutto quello che ho detto sin qui, e i riferimenti a Elena Ferrante e a Wu-Ming, mostrano che non avere un’identità è un’identità. Anche l’anonimato orienta la lettura. Anche l’Anonimo è un ruolo, tutto sommato. E allora Pasquino? E Anonymous? Vero, è vero. Ma rimane vero che questi effetti d’identità sono meno pervasivi, e il contenuto di quel che diceva Pasquino o Anonymous era molto più evidente, molto meno influenzato dall’identità anonima. E peraltro c’è un aspetto collettivo della mia proposta: l’obiettivo non è che ci sia un Anonimo, ma che tanti discutano, che ci sia una collettività che argomenta, senza le asimmetrie degli effetti di identità. Come ho detto sopra, i grandi anonimi come Ferrante e Wu-Ming, per restare alla cultura italiana, sono fenomeni che hanno senso e funzionano su uno sfondo di autori standard, cioè noti. Se invece abbandoniamo, o meglio dissolviamo, la figura dell’autore, se ci concentriamo sulle idee, invece che su chi le propone, e questo diventa – almeno in certi ambiti – una prassi consolidata, allora gli effetti d’identità cessano quasi del tutto. L’idea che sto proponendo è creare uno spazio per molti, per tutti quelli che vogliono dire qualcosa, e che magari la dicono di solito, in molte sedi come questa, ma possono considerare l’ipotesi che, quella certa cosa che vogliono dire, sarebbe proprio il caso di dirla senza neanche apparire, senza neanche minimamente rischiare che il loro nome – quale che esso sia – offuschi il messaggio.
Variante della seconda obiezione: l’anonimato ci è insopportabile, se non in forma d’enigma. Quello che proponi, quello che fai, serve solo a solleticare ancora un po’ i nostri neuroni, e la tua vanità. Se abbiamo letto sin qui è per quella sfiancata curiosità superficiale che è appunto la cifra del mondo in cui viviamo – in cui vivono le nostre menti immerse nella Rete. Vogliamo capire chi sei, e cerchiamo di indovinarlo da come, e da quello che, scrivi. E se non lo indovineremo adesso, lo faremo a un certo punto, perché ti tradirai, perché non riuscirai a mantenere celate tutte le identità di chi scriverà in questo spazio.
Risposta: può darsi, può darsi che sia tutto un gioco. Ma siamo sicuri che l’anonimato sia insopportabile? Siamo sicuri che hai letto sin qui solo per capire chi sono? Davvero la prospettiva di leggere qualcosa senza pensare immediatamente: adesso vediamo che dice Tizio o Caio, è impossibile o priva del tutto di attrattiva? Perché non provare? Perché il fatto che tu stia continuando a leggere non dovrebbe essere effetto di quello che dico, piuttosto che un prodotto del mio nascondimento?
Terza obiezione: ma tutta questa fatica per mondare dalla spazzatura il regno del chiacchiericcio? In fondo, le distorsioni più rilevanti e fastidiose, le rendite di posizione e lo scandalismo sensazionalista sono tipiche della Rete, o meglio del sistema integrato social + blog. Ma mica è qui che si fa la discussione pubblica vera, quella che ha valore. Ci sono i giornali, quelli veri – cioè cartacei. Ci sono i libri – quelli seri, cioè quelli cartacei delle quattro-cinque case editrici di tradizione. Ci sono i convegni. Di nuovo: lo fai perché vuoi alla fin fine emergere come autore, perché vuoi fare la crociata contro i soliti noti. Sei un tardivo epigono di Mamurio Lancillotto, in fondo. Vuoi nuove voci, non nessuna voce.
Ora, questa posizione è sia snob sia falsa (e l’attacco personale non coglie nel segno: nel mio piccolo, sono già un autore, non ho bisogno di questo giochetto). È snob perché la discussione pubblica avviene ovunque ci siano cittadini che parlano – quindi anche al bar, anche ai giardinetti, anche nelle sentine più impresentabili di FB. E se vi preme lo stato delle opinioni della vostra democrazia, e dovrebbe premervi, dato che prima o poi diventa lo stato della politica democratica, fareste bene a occuparvi di tutti gli spazi di discussione pubblica, e non solo di alcuni. Ma la posizione è falsa, anche, perché tutte le distorsioni derivanti dagli effetti d’identità sono presenti sui giornali, nelle linee editoriali delle case editrici maggiori, ai convegni. Sappiamo bene che il contenuto di certe articolesse viene recepito in un modo o nell’altro a seconda di chi lo scrive – ovvietà sesquipedali vengono lodate più maschio e più vecchio è l’autore, per esempio, e prove veramente scarse di scrittura vengono pubblicate se provengono da chiunque si affacci sul piccolo schermo. E vogliamo parlare del meccanismo che ormai, ovunque, regola le recensioni, di tutti i libri? Debbo dirvelo io che basta leggersi uno qualsiasi dei supplementi culturali italiani per ricostruire la ragnatela di amicizie, parentele, cordate che spiegano le recensioni? Gli uffici stampa, in confronto alle amicizie, sono sedi di equanimità salomonica. E negli altri paesi il fenomeno è meno visibile solo perché certe lingue sono parlate da troppe persone per permettere certi provincialismi. Ma ci sono probabilmente provincialismi eguali, su scala più grande. Mamurio Lancillotto era da solo, ce ne volevano forse di più.
E quindi, francamente, credo che la mia proposta farebbe bene anche a quel mondo. Perché non ritornare agli articoli non firmati? Siamo sicuri che certi saggi, con tante ambizioni di essere pamphlet provocatori e radicalmente innovativi, non sarebbe meglio pubblicarli senza il nome dell’autore, e vedere veramente che effetto avranno sulla pubblica opinione? Quindi, anche se la mia proposta riguarda quest’ambiente dove ci troviamo, e prende ovviamente di mira fenomeni molto visibili qui, ciò non toglie che essa possa, e forse debba, essere esportata. E che possa essere anche il modo di fare approdare qui uno stile nuovo di fare queste cose – saggi, articoli, recensioni –, uno stile dove appunto sia il contenuto e non l’autore e quel che rappresenta a contare.
Quarta obiezione: sei un qualunquista, alla fin fine. Stai proponendo un ‘uno vale uno’ della discussione culturale, un grillismo della cultura, simile a certe proposte – la filosofia nelle strade, i reportage in prima persona di giornalisti improvvisati, e giù giù sino al complottismo e a mel’hadettomiocugino. E che fine fanno l’autorevolezza e la competenza? Se certe cose le dice uno scienziato hanno un senso. Se una posizione etico-politica viene da un filosofo che ha studiato le argomentazioni migliori e la storia del pensiero è una cosa. Se di certe cose parla un non scienziato o un dilettante improvvisato, quelle sono opinioni non sempre degne d’ascolto. E ci sono gli esperti anche nell’etica e nella politica. Risposta: vero. Le discussioni più recenti, prendiamo ad esempio quelle sui vaccini, quelle sul cambiamento climatico, e adesso sulla pandemia, proprio sull’onda di certo qualunquismo anti-intellettuale hanno fatto passare l’idea che chiunque possa parlare di tutto, e le sue opinioni abbiano lo stesso peso di chi per anni e con rigore ha studiato. La tua proposta, continua l’obiezione, equivarrebbe ad abbattere le ultime separazioni fra cattiva divulgazione e cultura seria.
Eppure, la mia proposta non è affatto qualunquista, ed è anzi un antidoto alla deriva semplificatrice. Perché l’effetto d’identità in realtà innerva anche il qualunquismo populista. Dietro all’idea che tutti possano parlare di tutto c’è, di nuovo, un’attenzione esasperata all’identità di chi emette il messaggio. Si passa di nuovo dal messaggio all’emittente. Dire: perché io, che non ho studiato epistemologia, o epidemiologia, non posso avanzare un’ipotesi, un’idea, sui vaccini? è simmetrico, ed analogo a dire: solo io, perché ho studiato epistemologia, o epidemiologia, posso parlare dei vaccini! La prima rivendicazione, in realtà, non è altro che una reazione. Perché dobbiamo ascoltare e prendere come oro colato quello che dicono i professoroni? Perché non possiamo salire in cattedra anche noi? E a questo si risponde con l’altra reazione: Taci tu, che non hai mai studiato in vita tua! Ma è sempre chi parla ad avere peso, non quel che dice. Ma che importa chi parla?
Ma, come ho detto prima, nella cultura autentica, per esempio nella migliore cultura scientifica, il principio che vige è quello del blind referee: non conta quanto hai studiato, o che titolo hai. Conta quello che scrivi. Sì, c’è la possibilità che arrivino un sacco di articoli assurdi, inutili, neanche falsi, ma solo strampalati. Ma in mezzo a loro ci potrebbe essere l’idea rivoluzionaria. Ricordarsi di quel tale che lavorava all’ufficio brevetti. E naturalmente, nella maggior parte dei casi, se hai studiato tanto, ci sono probabilità maggiori che dirai qualcosa di nuovo. Lasciamo scoprire l’acqua calda a tutti, senza che possano rivendicare di essere degli irregolari geniali. Tanto già accade. Ma evitiamo che chi scopre l’acqua calda, ma ha un nome illustre – magari semplicemente perché ha visibilità mediatica, qui e altrove – possa farlo in pompa magna. Ben venga chi spiega che cos’è la crescita esponenziale o il giusnaturalismo sulla scorta di studi amatoriali. Evitiamo che chi ha fatto studi amatoriali mentre scalava le vette del potere venga poi a imporre le sue dotte riflessioni filosofiche, o, peggio, le sue poesie.
Una seconda versione di quest’obiezione è: ma così tutti possono attaccare tutti. Sarebbe un trionfo dell’hate speech e della diffamazione. Risposta: forse. Ma da un lato forse sarebbe un prezzo da pagare. Dall’altro, non è detto che il venir meno degli effetti d’identità non contribuisca anche ad attenuare, se non ad annullare, gli effetti d’odio. Pensateci: un discorso razzista ferisce sempre; ma forse ferisce di più se sappiamo chi lo fa, se sappiamo che è un bianco. E lo stesso vale per un discorso contro le donne fatto da un maschio, e così via. Inoltre, sto proponendo che ci sia uno spazio per autori anonimi. Non so proponendo uno spazio senza moderazione. Proprio per questo lo propongo qui, all’interno di uno spazio dove, ormai storicamente, c’è una redazione attiva, che media e modera, senza censura alcuna. E l’anonimità che mi interessa, naturalmente, è sostanziale, non legale. Non c’è spazio qui per chi vuole attaccare standosene al riparo dal codice penale. La redazione sa chi sono, naturalmente. E può tranquillamente dirlo agli avvocati che avessero a che pretendere. Ma la mia scommessa è che proprio questo tipo di anonimità non è interessante per l’attaccabrighe o il malizioso. Interessa invece molto di più a chi tiene alla cosa che dice più che più che all’effetto di essere lui a dirla.
Quinta e ultima obiezione: quelli che chiami effetti d’identità sono le distorsioni tipiche della logica neoliberista che permea ormai tutte le istituzioni culturali come quelle politiche, e i mezzi di comunicazione sono il mezzo principale che la governamentalità neoliberista impiega per ottenere certi fini. Bisogna cambiare le istituzioni, non gli individui. La tua flebile etica dell’intellettuale diffuso e comune non serve a niente. È una cosa da Partito d’azione, da piccoli maestri, che poi emigrano perché per loro non hanno votato neanche le loro fidanzate. Risposta: ma come si cambiano le istituzioni, se non iniziando dai comportamenti individuali? Ma veramente credete che ci siano cose come le istituzioni, che hanno un’esistenza ulteriore rispetto a individui e loro azioni? I piccoli maestri, prima di perdere le elezioni, hanno contribuito alla Resistenza. E non è detto che il loro piccolo contributo non sia stato essenziale. Iniziamo da qui. Iniziate anche voi a lottare contro il Leviatano neoliberista rinunciando alla vostra identità. Piantatela di scrivere articoli contro lo stato d’eccezione dai siti di paludate case editrici! D’altra parte, Anonymous e V non facevano forse qualcosa di simile? Mettiamoci tutti la maschera di Guy Fawkes, quando ci sediamo alla tastiera. Ci libererà.
Mi sembra che l’egocentrismo domini in questo anonimo! Confessa di essere un autore, quindi già facente parte del cerchio magico e quindi può permettersi di giocare alla rinuncia di privilegi acquisiti. Difficile uscirne mi sembra. Saluti
“I would venture to guess that Anon, who wrote so many poems without signing them, was often a woman”, Virginia Woolf
L’anonimo di questo testo, anche se ci ci/si chiede se è un maschio o una femmina, parla di sé al maschile e questo in qualche modo falsa la mia ricezione del testo: non so chi tu sia, ma parli/scrivi come uno che si connota linguisticamente da una parte, o che rientra comunque in una visione binaria della sessualità.
@Geremia: e perché no? Perché non dovrebbe essere egocentrico, un anonimo? E’ un manifesto per l’anonimato, non per l’umiltà o l’auto-mortificazione. E, comunque, se rinuncia a privilegi acquisiti, rimane alla fine senza privilegi. Parte egocentrico, ma magari arriva altrove. Egocentrico è l’atto di rinuncia, forse, ma dopo? E perché tu non partecipi al gioco, e non mostri come si fa ad essere anonimi e non egocentrici? Sarebbe veramente così difficile uscirne?
@Leonardi: e se fossi un non binario che parla al maschile per confondere le acque, e le ricezioni del testo? E quale identità è più ovvia e scontata, più confortevole, insomma più anonima del maschile? Certo che Anon era una donna. Ma diventava un uomo, suo malgrado, proprio essendo anonima. Più interessante, o più liberatorio, sarebbe stato se avesse potuto essere la donna che era senza che si notasse che era donna. O no?
Se un testo diffonde informazioni false, l’autore è legalmente perseguibile (diffamazione, procurato allarme, ecc.).
Chi si assume la responsabilità di ciò che è pubblicato? L’amministratore del blog?
@Anonimo di LPLC risposta un po’ furbetta. Un non-binario forse cercherebbe nuovi pronomi, nuove desinenze, nuovi scenari e nuove prospettive al di là del maschile e del femminile (santa Monique Wittig ci leggi?). Anon, Woolf insegna, era donna ma ha dovuto fingere di essere altro (passing), oppure avrebbe potuto finire sottoterra nei pressi di Elephant and Castle. Forse più “liberatorio” sarebbe essere l’uno e l’altro, un io ipertrofico che non si cela nell’anonimato, ma che fa esplodere le inconsistenze del binarismo. Ma qui, forse, di nuovo ritorna la questione dei pronomi, in Italia non c’è una forma come il they singolare anglofono e questo complica un po’ le cose.
Anonimi o no, si spera che i testi siano meno lunghi e pedanti di questo.
“ 13 dicembre 1987 – Nell’antico graffito anonimo: « Fesso chi legge », tutta la verità su chi scrive? “.
Sto provando a leggere questo post da questa mattina (dalle 07:35) e, no, non ci sono ancora riuscita. Non sono riuscita a leggerlo tutto. Ho letto i primi due paragrafi e poi sono scesa un poco più giù, pensando che nulla di quello che leggevo aveva senso, e soprattutto non era interessante. Volevo scriverlo subito in un commento, ma mi sono detta – come faccio sempre quando leggo un libro che non mi piace – che per parlarne “male” devo sapere davvero di che cosa parla per cui dovevo leggere tutto. Ma proprio tutto. Così ho lasciato passare un paio d’ore e ci ho riprovato. Al disinteresse iniziale, si è aggiunto un fastidio: la voce è abbastanza irritante e noiosa. Soprattutto perché è supponente, tipo quando ipotizza che se uno è arrivato in un certo punto del testo sia ovviamente perché si è esaltato (“Se sei arrivato sin qui, hai trascorso quei secondi che ti serviva impiegare, hai ricevuto quella zaffata di serotonina da blanda stimolazione che cercavi”: per niente!), mentre io ci sono finita, in quel punto, solo perché saltellando, durante il secondo tentativo di lettura, da un paragrafo all’altro, mi ci sono ritrovata, e l’ho fatto costringendomi. Il terzo tentativo di lettura, poi, mi è pesato ancora di più: sono le 17:12!, in pratica mi sono data la pena di leggere circa una riga per paragrafo intuendo, mi pare, che tutto il cosiddetto manifesto non badi “mai” all'”esigenza autoriale” ma “sempre e solo” alla percezione degli altri. Cioè, sembra dire: siccome nessuno vi considera, cari autori, facendovi sentire degli emeriti “nessuno” (visto che non avete un nome), allora freghiamoli tutti e cancellate davvero il vostro nome, così nessuno vi considererà comunque, ma almeno è stata una vostra scelta. Mentre la sfida, insomma, mi pare che dovrebbe essere esattamente il contrario. Per spiegarmi: se gli “altri” sbagliano a “punire”, andrebbero corretti gli “altri” e non si dovrebbe invece chiedere di autopunirsi a chi già subisce la punizione dell'”anonimato”. Faccio una controproposta: invece di formare un esercito di anonimi, provate a prendere nuove voci critiche che generino discussioni sui lavori di chi è meno in vista, create un movimento serio, e certamente più faticoso da mettere in piedi. Arruolate penne di lettori esperti che facciano recensioni autentiche a testi ben firmati. Provate a rendere il merito a chi spetta. Senza, mi pare parecchio inutile come progetto. Ma è ovviamente solo una mia opinione.
Macché anonimo, l’autore è un quasi-quarantenne ricercatore di filosofia di qualche università. Io da Filosofia sono uscito 35 anni fa quando ancora non era chiaro che le cose potessero finire in questo modo, ma insomma qualcosa si poteva già capire. I semi-deliri di certi heideggeriani della mia generazione erano niente rispetto ai mega-deliri deleuziani-foucaultiani di certi aspiranti accademici di oggi, e quando poi sono conditi da un terribile birignao pseudo-letterario da secondo-Calvino come questo riesco appena a intenerirmi per la palese ingenuità dell’autore, evidentemente giovane (beato lui e la sua gioventù). Spero tuttavia che tra le nuove leve ci sia ancora qualcuno che procede seriamente in altre direzioni. Saluti anonimi, come da richiesta.
@Marco: promesso. Più brevi. Non pedanti. “Scrivete, ma non lo dite”. “Scrivete (quasi) quel che volete. Senza dire chi siete. Vediamo l’effetto che fa”.
@Manuela Mazzi: e vabbe’, irritante, noioso e supponente. Ma meglio che indifferente, di certo. Esaltazione proprio no. La zaffata di adrenalina è proprio il contrario di una seria esaltazione. Ma anche questo non conta. Conta questo, invece: si certo, il manifesto non bada all’esigenza autoriale. E forse c’è quell’aspetto che cogli – diciamolo semplice: non ci prendono sul serio come autori, allora smettiamola di essere autori! Ma c’è di più, c’è un altro aspetto. Perché dobbiamo essere autori? Perché i testi debbono essere ‘ben firmati’? Perché dobbiamo rendere ‘il merito’? Ma ci teniamo davvero al merito? E che è? Matteo Renzi dei bei tempi? La meritocrazia letteraria? Ma è davvero così importante avere un autore/trice? Non riesco proprio a capire. Sarà perché sono un Anonimo. Io voglio dimenticarmi di chi scrive, credimi. Anche quando a scrivere sono io. Non ho tutta questa smania dell’ “esercito”, o “delle nuove leve” (ma questo lo dice l’Anonimo Commentatore, più giù). No, niente eserciti, niente movimenti. Sì, è un manifesto, ma non vuole formare eserciti. Gli eserciti schierano anonimi soldati, ma il nome ce l’hanno stampato sulla divisa, generalmente. E anche i lettori “esperti” hanno la divisa, talvolta. Ma grazie per il commento, che coglie un elemento della proposta.
@ Anonimo: da Anonimo ad Anonimo: grazie per la tenerezza, grazie per pensare beata la gioventù. Anch’io la invidio tanto, anch’io vorrei essere quasi-qualcosa, invece che già- qualcosa. La proposta, però, non era di avere commenti anonimi. O non tanto. Era di avere testi anonimi. Io rimango anonimo per motivi ovvi. E da Filosofia siamo usciti tutti, più o meno trentacinque anni fa. E il birignao è tanto bello, talvolta.
Concordo con le perplessità già espresse da altri lettori. Anch’io non sono convinta. Ma trovo la questione interessante, ragion per cui ho letto il contributo (ammetto con fatica e a pezzi) e ora lascio alcuni pensieri.
Problematizzare il rapporto fra contenuto di un’opera e “notorietà” (riconosciuta o pretesa – entrambi le varianti) dell’autore forse aiuta ad affrontare due meccanismi che soffocano in qualche modo la spinta utile, costruttiva di un testo (e in generale di un messaggio che pretende di essere fruito e discusso a beneficio – si spera – comune): 1) l’impermeabile autoreferenzialità/egocentrismo di chi scrive 2) la ricerca di distrazione/rassicurazione in chi legge. Entrambi i fattori (dialogici) ci sono sempre stati, chiaro, ma mai come al momento attuale – mi sembra – hanno fatto “sistema”, sono diventati un’industria di consumo e intrattenimento di massa. E una letteratura o un’arte ridotta a intrattenimento non serve a nulla. Se non a cristallizzare rapporti di forza/potere anche solo simbolici. Giustamente per me se ne fa riferimento anche nel manifesto qui sopra. Sarebbe utile però prendere coscienza dei trucchi e mascheramenti infiniti tramite cui questi due fattori si presentano come il loro esatto contrario, a soddisfare le inconfessate ragioni di chi scrive e di chi legge. (e i parallelismi col mondo accademico cui qua e là si fa cenno dovrebbero dare più che sufficienti strumenti di lettura su questo, per chi lo conosce un po’…). Sennò non se ne esce.
Ora, per stare alla radice del problema che sembra dover essere risolto, che un testo scritto dall'”autore famoso” attiri mediamente (mediamente, ripeto) più attenzione di quello scritto dall'”autore sconosciuto” non è una gran scoperta. Ma i lettori non sono tutti uguali, scusate. La quantità di lettori non dice della qualità del dialogo che si innesca. Allora, a te che scrivi, cosa interessa? Creare un dibattito ampio (che può scadere in chiacchiericcio) o un confronto limitato, ma vero, cioè che prevede un investimento esistenziale alla pari fra chi scrive e chi legge/commenta? Questo non l’ho mai capito. Non è che partiamo da un falso problema in tutta questa riflessione? Non è che si immagina di poter – per giunta tramite l’anonimato – innescare un dibattito basato solo sulla qualità del contenuto ad ampio raggio tramite il web? Perché se si immagina questo non so – da lettrice di solito silenziosa – se si pecchi più di hybris o di ingenuità…
Comunque sia, togliere il nome dell’autore tout-court non risolve il problema. Uno può rimanere anonimo e al contempo tremendamente ego-referito, cioè produrre un testo in cui “strucca-strucca” resta poco contenuto da condividere, tanto invece di autorappresentativo, a cui specchia per mimesi di bassa lega il movimento del lettore. Perché l’autoreferenzialità non è nella forma, è nella pretesa di validità (in senso lato – quindi anche come pretesa di essere letti e riconosciuti come autori di una idea rivoluzionaria) che la sostiene. Con l’aggiunta che nel caso di un testo anonimo si cade quasi in una contraddizione performativa tra quello che si dice di voler fare (cancellare l’autore per lasciare solo il contenuto) e quello che si fa (usare il contenuto per rappresentare se stessi come attori che suscitano una reazione da un pubblico – sul web – di sconosciuti e quindi comunque parimenti anonimi). Non voglio dire che l’autore del manifesto sia snob o falso. Non mi interessa, che metta o meno il nome. Certo la risposta all’ipotetica accusa di voler emergere con un “nel mio piccolo, sono già un autore, non ho bisogno di questo giochetto” è magra. Per qualsiasi persona abbia un minimo di sensibilità umana. Il punto è che davvero la proposta mi sembra fragile, poco strutturata. Il contenuto non regge secondo me il peso di una esposizione tra il colloquiale-invadente e il saggismo accademico.
In questo senso, anch’io, come Marco, mi chiedo: ma non si potevano dire le stesse cose in maniera più diretta e concisa? A chi scrive – anonimo e non – sarebbe forse utile tenere a mente che sta implicitamente chiedendo di essere letto/ascoltato, quindi presuppone almeno che qualcuno impegni tempo e attenzione proporzionata. Ecco, in quella proporzione pretesa c’è già una buona chiave di bilanciamento alla propria autoreferenzialità.
Trovo poi la proposta non stringente con le premesse sopra indicate (rapporto fra autore e opera). Nel senso che nella seconda parte si affastellano argomenti e tesi che percepisco eterogenee. Non capisco ad esempio il nesso logico cogente fra premessa normativa strumentale/espressiva e conclusione “quello che ci dovrebbe premere è che sia il nostro punto di vista, che sia un punto di vista, non che si sappia di chi è, e chi siamo noi”. Certo, nella discussione pubblica dovrebbe interessarmi più di esprimere il mio punto di vista che di imporre il fatto che sono io ad esprimerlo (detto in parole semplici), d’accordo. Ma perché dovrei sostenere questo “buon proposito” con l’anonimato? Non ne vedo la necessità. E anzi mi sembra una proposta anti-pedagogica. Perché non educare le persone a autoregolarsi, a mettere a freno il proprio ego senza (fare finta di) sopprimerlo? Non posso dire “io” restando aperto al “tu”? Non posso (non devo?) educare il lettore a guardare a quello che dico pur mettendoci la faccia? Il mondo è soprattutto il web già pullula di anonimi che esprimono le loro idee…non mi sembra i risultati siano brillanti e confortanti. Ma anche queste forse sono sensibilità personali,
Ancora. Che la seconda premessa normativa abbia appunto valore normativo (“non può che essere interessato”) è da dimostrare. Perché le variabili sulla premessa sono molteplici, a meno che non si ipotizzi una condizione ideale di discussione pubblica completamente disinteressata (ma se è veramente disinteressata, sarà anche capace di focalizzarsi sui contenuti, non sugli autori; se non è disinteressata si trascurano elementi socio-relazionali che l’anonimato non seda). E anche in questo caso, comunque, perché la conclusione dovrebbe essere l’anonimato, non mi è chiaro. Foucault parla di “Indifferenza” non di “scomparsa” e “nascondimento” dell’autore. Seguono riferimenti all’anonimato per proteggere l’autore da minacce e pericoli, la lotta al qualunquismo, il dovere etico-morale. Troppo e troppo sconnesso, almeno per la mia percezione.
Insomma, la questione a me pare interessante, la proposta del manifesto non mi convince pienamente. De facto però mi ha riportato a lavorare su questione che – ripeto – trovo centrale oggi. Segno forse che sì, c’è da scavare su questo punto.
Recentemente ho riflettuto molto su questi temi e condivido molto di questo testo, per cui mi sento innanzitutto di ringraziare chi lo ha scritto.
Fatto questo, chiedo confidenzialmente: non ti sembra che “Anonimo di LPLC” sia già un’identità autoriale, un po’ come “Maestro della Pala di San Tizio di Vattelapesca”?
Nella lunga premessa (che sembra quasi fatta apposta per selezionare solo un certo tipo di ostinatissimi lettori) e ancor di più nel finale di auto-obiezioni, intravedo già un limite a questa proposta e forse una paura di chi l’ha redatta: non poter difendere efficacemente la propria tesi, avendo volontariamente rinunciato a un’identità, o al contrario trovarsi nella costrizione di recuperarne una (almeno temporanea) per poter rispondere alle obiezioni, che vanno ovviamente oltre alle cinque ipotizzate in un primo momento.
Il dialogo tra anonimi è piuttosto confuso, come quello tra persone rinchiuse in una stanza tonda e buia: per rispondersi e distinguere le voci chiaramente diverse, ma tutte anonime, si conieranno una serie di identità provvisorie e si complicheranno i meccanismi di tag che rendono sopportabile lo scambio di commenti online. Oppure si genereranno stimoli che verranno abbandonati a loro stessi, tesi non difese, che susciteranno risposte, ma non contro-risposte, come uno spettacolo seguito da fischi e applausi e qualche chiacchiera nel foyer, ma non da una vera discussione, che potrebbe avvenire solo se l’attore, toltosi il cerone, uscisse dal camerino e si consegnasse al suo pubblico, per esserne sbranato.
Sento comunque una forte vicinanza a questa proposta, servisse anche solo da provocazione.
Di sicuro c’è bisogno che chi produce e distribuisce idee si interroghi su questi temi. Non solo gli autori, ma anche gli editori o i loro corrispettivi negli altri media. E i lettori, chiaramente, soprattutto oggi che i confini tra una categoria e l’altra saltano continuamente.
Si tratta, mi sembra, di rinunciare alla paternità delle idee e accontentarsi di generarle, sapendo che avranno poi in qualche modo vita propria.
Nel 1977 avevo posto questioni simili, all’interno di un saggio collettivo su L. Carroll. Da un lato avevo rilevato un rapporto di “penetrazione sessuale” nella scrittura, nella scelta dei libri, fino al piacere del testo e allo svelamento finale (nei gialli-thriller-noir etc.). Dall’altro, avevo messo in dubbio il ruolo del lettore, “femminilizzato” in quanto reso passivo. Poi avevo notato che in molti autori non classici e autoriali c’è la tentazione di dare al lettore delle vie di fuga dalla quotidianità: ne scrive Cervantes, lo fanno Fourier (utopia), Kafka, Carroll… Citavo un libro di Deleuze e Guattari (citati nei commenti) in cui si indicava la strada della letteratura “minore”, perché in ciò che è nascosto (anche nei personaggi, come il personale di servizio in Proust) c’è molta verità, più che nei protagonisti. Idem per i libri “rivoluzionari”. Indicano una strada, e stop. Dicevo: “Uno degli aspetti dell’umanità unidimensionale è che nessuno può sostenere contemporaneamente due tesi opposte”, “così come l’ordine delle lettere e delle parole procede solo in una direzione, nelle pagine”. Proponevo infine, ingenuamente, di usare la “scrittura collettiva in cui nel medesimo testo coabitino diverse tesi o tendenze”. Ma c’era un rischio: quello di creare un gruppo chiuso che espropri nuovamente gli altri, riducendoli a lettori passivi, e quello di fare dell’avanguardia… Infine concludevo che una scrittura collettiva può essere solo per breve tempo prerogativa di uno o più gruppi, ma dovrebbe “essere un gioco praticato da tutti, uno scrivere romanzi in milioni di persone”. Chiudevo col lessico del tempo: “Leggere è contro lo scrivere… si legge perché si è espropriati dalla comunicazione” etc. etc.
In una sua recensione su Rep. Alfredo Giuliani bollò quest’ultima parte come “balle cinesi”, Aveva ragione. Però il resto del discorso resta, e riguarda -se non altro- la ricerca di una neolingua aperta, di forme e canali altri in grado di mettere in discussione il sistema attuale di comunicazione, alquanto chiuso e soffocante, direi, anche se restano aperti degli spazi sottotraccia, “minori” (appunto). Pertanto io non avrei messo l’accento sui limiti del post di cui sopra, quanto la voglia di riaprire un discorso sulla forma del comunicare. Dire no non basta.
Anche gli anonimi, e gli Anonimi di LPLC si prendono delle pause. E così ho fatto io. Ma ora rispondo, e vedo che arrivano anche dei benevoli commentatori che non sono del tutto contrari alla proposta. O meglio che stanno, almeno parzialmente, al gioco, che era quello di passare dall’autore alle parole, e dalle parole alle cose. Mentre i primi commentatori erano ancora tutti sull’autore – parzialmente l’attrazione dell’autore permea anche gli ultimi commenti, naturalmente –, dopo le non inaspettate critiche allo stile del testo, alla supponenza dell’autore (alla difficoltà di leggere un testo lungo: ohibò, se è brutto capisco; ma il problema può essere solo la lunghezza? Ma dobbiamo necessariamente essere prigionieri del formato breve?), arrivano anche dei pensieri sulle sue parole. Tutti insistono sull’autore che si palesa come Anonimo di LPLC, e quindi è ancora autore. E come fare? E siamo sicuri che questo sia quello che non si doveva fare? Se potete, concentratevi sugli effetti d’identità. Alcuni sono inevitabili. Li teniamo al minimo. Questo, non di più, era quello che si voleva fare.
@Stefania: a me (a noi?) interessa una discussione pubblica migliore. Una discussione pubblica migliore non può essere una discussione pubblica fra pochi eletti. E, peraltro, quelli che chiamo effetti d’identità, secondo me, influenzano anche il miglior critico, il miglior scafato lettore. Credimi. In queste ore stanno avvenendo delle divertentissime distorsioni. Questo testo sta avendo effetti che altri testi dello stesso autore non hanno mai avuto (nel bene e, più spesso, nel male), perché l’autore era, semplicemente noto. La tesi principale è che, come dici tu, certi meccanismi rendono difficile e falsano la discussione pubblica. E questa, concordo, non è una novità. Ma questi meccanismi hanno principalmente a che fare con la presenza dell’autore, noto o ignoto. E per questo io penserei di toglierlo di mezzo, di ucciderlo finalmente. E, come si dice, la proposta nasce dal non rassegnarsi all’infima qualità del chiacchiericcio. L’idea che il chiacchiericcio sia irredimibile e noi ce ne stiamo fra noi, fra lettori qualificati, no, mi spiace, non è parte dell’orizzonte ideologico di questa proposta.
C’è poi un altro punto interessante del tuo commento, che è l’accenno all’autoreferenzialità, ai riferimenti all’ego. Ma qui vai troppo oltre. Non voglio, non vogliamo togliere l’auto-referenzialità di mezzo, se con questo si intende parlare di sè, partire da sè, essere magari interessati a sè, alle proprie idee, e a quel delizioso solletico che deriva dall’attenzione degli altri alle nostre parole. Semmai, vogliamo riscattare questa cosa, rendendola non automatica, non pre-data. Non può derivare dal nome, o dal ruolo. Deve derivare dall’abilità delle parole – in qualsiasi senso. Anche queste parole che avete ritenuto brutte, ingenue, e che però vi hanno fatto dire la vostra. Quindi uno può rimanere anomimo ed ego-riferito, certo. Ma può rimanerci per la sua forza, non perché ce lo costringono, o lo aiutano, i lettori. Deve conquistarsela, per così dire, la sua nevrosi narcisistica. E l’obiettivo, ripeto, non era l’auto-fustigazione degli ego. Ma la liberazione dell’ego che pensa dalle sue vesti sociali. Quindi, non c’è contraddizione: io uso questo contenuto per rappresentare me stesso, ma rappresento un me stesso qualunque, chiunque io sia. Il fatto di non dire chi sono, e di non consentirvi di saperlo, rende questa rappresentazione, converrai, molto meno automatica, stereotipata, inautentica, che sei io avessi firmato col mio nome, e tu avessi googlato, prima, durante o dopo la lettura.
Dici poi, e passi di nuovo qui allo stile, che la proposta è fragile, e sembra che lo sia per l’esposizione a metà fra colloquiale e saggistica. E cerchi di nuovo concisione. E vabbe’, la concisione è una virtù, di certo. Ma che una proposta sia fragile può solo derivare dallo stile? Mah. E la contraddizione tua non sta forse nel fatto che prima discuti la proposta nella sostanza, e poi la ritieni fragile per ragioni stilistiche. Ma certo: lo stile è importante. E forse anche più importante se l’autore è anonimo. Eppure mi chiedo se quest’attenzione così pronunciata allo stile – c’è in altri commenti ad altri post qui? – non sia poi proprio un effetto dell’assenza dell’autore. E allora, forse, la proposta funziona proprio perché non funziona, o è scritta male?
C’è un altro punto interessante, nel tuo commento. Dici che meglio sarebbe, invece che ricorrere all’anonimato, educare le persone ad auto-regolarsi, mettendo un freno al proprio ego. Di nuovo: questo non è un mio/nostro problema. Il problema non è l’ego dell’autore, o non solo quello. Il problema è quanto l’ego dell’autore, e gli effetti di tale ego, offusca la ricezione e la discussione quando l’autore è noto. E l’attenzione a questo testo, mi pare, dimostra che un po’ di questi effetti vengono meno. Educare il lettore a guardare quello che dico mettendoci la faccia, dici. Temo sia impossibile in questo ecosistema. E poi: perché metterci la faccia significa firmarsi? Secondo me siete tutti presi dall’idea, o dal timore, che l’anonimo spari a zero, dica cose sgradevoli. Eppure, in questa prima sortita non è accaduto nulla di tutto questo. Perché non avrei messo la faccia in quello che ho scritto? La faccia non è quello che sto facendo? Rispondere, discutere, mettere a nudo quello che penso? Davvero un nome, un’identità, un ruolo avrebbero reso quel che dico più sincero, autentico, meditato? Se il problema è la responsabilità penale, se siete tutti avvocati: ma è ovvio che la redazione sa chi sono/chi siamo, di volta in volta. E se qualcuno si è offeso (ma chi: Italo Calvino?) potrà avere ciò che gli spetta. C’era scritto nel testo. Ma davvero vi pare che uno monta questo tipo di proposta per levarsi i sassolini dalle scarpe o dare le picconate, come un Kossiga qualunque? Appunto, come dici tu, di questo tipo di anonimi pullulano i social. Ma è evidente che LPLC non ospita questo genere di cose.
Ti concentri (e grazie per questo) sull’argomentazione, e sulle premesse che uso. Sul nesso fra prima premessa normativa e conclusione ho già detto. Contesti che chi scrive sia interessato alla pulizia del messaggio, che è la seconda premessa normativa. Naturalmente, cosa che tu cogli, intendo dire che chi scrive, e vuole una discussione pura e disinteressata, ha quest’interesse. Poi dici che se la discussione pubblica tutta è disinteressata non c’è bisogno dell’anonimato, perché i lettori sapranno focalizzarsi sui contenuti. Mi permetto di essere più pessimista, per tutte le cose che ti ho detto sin qui. Secondo me gli effetti d’identità permeano la nostra discussione, qualsiasi discussione, da sempre (con eccezioni: Omero…), mettendo nel sacco tutti, autori e lettori, scafati o puri. E l’anonimato, a questo punto, e come secondo me dimostra in parte questa discussione, è la soluzione più stringente. Sono contento che la proposta ti abbia portato a rilavorare su tutto questo.
@Anomonimo: sull’identità autoriale dell’Anonimo di LPLC ti rispondo già sopra. Dici che ho paura di non poter difendere la mia proposta, perché non ho un’identità, Credimi. L’avrei potuta difendere molto peggio se avessi scritto col mio vero nome, ammesso che ne abbia (solo) uno. Le obiezioni me le sono poste perché credo che ci siano, e perché ho una qualche inclinazione a dubitare e ad argomentare. Saranno gli anni trascorsi a Filosofia, insieme all’altro Anonimo, fino a trentacinque anni fa. E quello che sto facendo ora, rispondendoti, secondo me prova che non c’è bisogno di essere identificabile per rispondere alle obiezioni, per prendere sul serio i commenti. Certi attori, secondo me, sono meglio sul palcoscenico, e sono più loro stessi lì, e discutono meglio lì. Non vorrei proprio vederli senza cerone.
@Paolo Della Sala: grazie per averlo ricordato. Non è mai troppo tardi. Forse possiamo riprovarci. Adesso poi la Cina è all’avanguardia, e forse certe balle cinesi non sembrano più tali. E grazie per lo spirito di adesione.