di Marco Nicastro

 

In questi giorni, e ormai purtroppo da mesi, è impossibile, leggendo giornali e soprattutto guardando la tv o i siti internet di molti quotidiani, evitare di essere inondati da notizie sull’emergenza coronavirus. I siti, i post, i brevi comunicati dei giornalisti fanno a gara per aggiornare le statistiche del numero dei morti causati ogni giorno dall’epidemia o del riempimento delle terapie intensive. È una forma di comunicazione che induce a mio avviso a riflettere sullo stato dei nostri media e sui motivi più profondi che li muovono nella loro attività al di là degli specifici fatti di cui si occupano che a volte possono essere realmente preoccupanti, come quello di queste settimane.

 

I media hanno una capacità di influenzamento della opinione pubblica, e questo è un dato acclarato da molti studi condotti nel corso della seconda metà del Novecento. Non si spiegherebbero altrimenti i grandi investimenti che i politici fanno da sempre sulle campagne elettorali o per garantirsi una presenza massiccia sugli organi di stampa e le trasmissioni televisive. Questa capacità di influenzamento però non consiste nella capacità di far cambiare di sana pianta opinione a chi recepisce le informazioni trasmesse, per il semplice fatto di essere esposto costantemente a determinate informazioni, secondo la vecchia e ormai obsoleta “teoria ipodermica”. È più difficile far cambiare opinione su un certo argomento a un pubblico che mediamente ha una sua convinzione o i suoi pregiudizi radicati. Se c’è una possibilità però che tale influenzamento colga nel segno è verso persone indecise su cosa sia giusto pensare (incerte per varie ragioni), il che non è un dato secondario dato che a seconda delle circostanze e delle tematiche oggetto di informazione gli indecisi possono essere molti. Quindi le campagne informative martellanti non sono inutili e possono spostare gli equilibri dell’opinione pubblica in certi momenti per il semplice fatto di essere ripetute costantemente. C’è anche da dire che un altro effetto evidenziato dalle ricerche, centrale per ciò che vorrei dire, è che i media creano nella mente delle persone uno schema interpretativo preferenziale della realtà: forniscono alcune coordinate di fondo e stabiliscono una priorità relativamente a ciò che è rilevante nella realtà che viviamo, un effetto questo che gli studi sulla comunicazione chiamano agenda setting. Col fatto di concentrarsi su determinati argomenti invece che su altri e ripeterli sistematicamente nel tempo, i media riescono a creare una mappa cognitiva nella mente di molte persone, un’agenda di priorità da tenere in considerazione per orientarsi nella realtà e capire verso dove dirigere la propria attenzione. È facilmente comprensibile quanto questo effetto possa influenzare l’atteggiamento abituale delle persone o le loro reazioni comportamentali.

 

Ebbene, cosa può creare un tam-tam mediatico come quello a cui stiamo assistendo a tutte le ore del giorno da quando, alcuni mesi fa, è iniziata l’emergenza coronavirus? A mio avviso, che si è tutti in pericolo di vita, dato che la prima informazione che viene data è il bollettino sul numero dei morti che di giorno in giorno, come in tutte le epidemie che si diffondono, continuano a crescere. A poco vale poi cercare di rimediare, di definire meglio l’informazione se contemporaneamente il martellamento sull’idea della malattia e della morte non si ferma. La notizia della morte infatti rimane comunque più impressa nella mente di ognuno di noi, e questo essenzialmente per ragioni evolutive: per il nostro sistema cognitivo infatti la notizia di un pericolo è sempre più “interessante”, in quanto potenzialmente più rilevante, ai fini della sopravvivenza.

 

Il problema non è poi solo nella modalità, ma anche nella qualità delle informazioni diffuse. Se si decide di citare il numero dei morti bisognerebbe anche ogni volta meglio definirli: precisare quanti anni avevano, se erano o no in buona salute, per quanti di questi il virus è stata la causa principale del decesso ecc., altrimenti la collettività è indotta a pensare genericamente di essere tutta in pericolo o, nel migliore dei casi, a non sapere cosa esattamente pensare. Si potrebbe pensare che, in un frangente così delicato, sia un dovere civico diffondere queste notizie. Ma lo scopo più che informare sembra attivare uno stato di angoscia, perché in aggiunta alle notizie tragiche sulla pandemia i media tendono a calcare la mano anche sulle conseguenze economiche attuali e future della stessa, disegnando scenari sociali preoccupanti. In entrambe le situazioni la reazione più logica è lo scatenarsi di angoscia, rabbia reattiva, comportamenti irrazionali, confusione mentale (con gli esperti che non sempre dicono cose sovrapponibili) o al contrario di negazione del pericolo, un po’ come avviene coi fumatori che non guardano più le immagini terrorizzanti sui pacchetti di sigarette, oppure ci scherzano su, per esorcizzare il pericolo costantemente posto sotto i loro occhi. Si tratta di pratiche comunicative che contrastano lo scopo dichiarato di indirizzare le persone verso atteggiamenti più utili e adeguati per fronteggiare una situazione di rischio, e di cui le ricerche sulla psicologia della prevenzione hanno da tempo rilevato la non efficacia o addirittura la possibilità di produrre effetti contrari. L’angoscia della morte infatti è la più potente, la nostra mente si è evoluta per rimuoverla dalla coscienza per la maggior parte del nostro tempo attivo; portarla continuamente a galla è un processo che può scatenare disagio dei singoli e collettivo dagli esiti imprevedibili.

 

Eppure, nonostante ciò, tali strategie comunicative continuano ad essere messe in pratica.

C’è poi un altro effetto da considerare che gli studi sembrano confermare: oltre agli indecisi, i più suscettibili a certe informazioni allarmistiche ampiamente diffuse e ripetute sono i soggetti che si trovano, da un punto di vista emotivo, in una condizione borderline. In pratica le persone più fragili e sofferenti, che possono crollare da un punto di vista psichico e attuare comportamenti imprevedibili e potenzialmente pericolosi per sé o gli altri. È quanto avviene ad esempio nel fenomeno dell’imitazione del suicidio, che si verifica in modo crescente quando vengono diffuse notizie di suicidi in un certo territorio (ovviamente tra i soggetti già a rischio). Purtroppo i soggetti in condizione di fragilità psichica sono molto più numerosi di quanto possano dirci i dati sull’utenza dei servizi per la salute mentale. Un numero non irrilevante di individui, infatti, pur apparentemente ben adattati, presenta importanti deficit nella capacità di controllare i propri impulsi o di esercitare la propria capacità di giudizio e di valutare le conseguenze delle proprie azioni, specie in condizioni di stress emotivo. Per tutto ciò è quindi assolutamente controproducente, oltre che antiscientifico, centrare l’informazione sulle emozioni, specie se le informazioni sono capaci di suscitare paura. Si tratta di effetti noti che tutti i giornalisti e i responsabili dei principali media di un paese dovrebbero conoscere, traendone le dovute conseguenze deontologiche; ciò che si rileva però nel nostro paese – in altri infatti non è così – è una scarsa conoscenza o rispetto di tali acquisizioni, cosa che del resto non stupisce più di tanto considerato che l’attività dei nostri mezzi di informazione occupa posizioni medio-basse nelle classifiche internazionali sulla cosiddetta libertà di stampa (che include diversi indici tra cui autocensura, regolamentazione interna, indipendenza, pluralismo ecc).

 

Ora, sarebbe potenzialmente interessante soffermarsi sulle ragione di questo modo di intendere l’informazione da parte dei nostri media, ma la cosa più importante è un’altra: cercare di porvi un argine. Dobbiamo infatti ricordarci che il codice deontologico dei giornalisti – vedi Testo unico dei doveri del giornalista del 27 gennaio 2016 – prevede che il diritto di informazione, sancito costituzionalmente, debba: 1) rispondere a motivi di pubblico interesse (art. 2, comma a); 2) rispettare i diritti fondamentali delle persone, compreso quello alla privacy (comma b); 3) porre particolare attenzione alla tutela dei minori come previsto dalla cosiddetta “Carta di Treviso” (allegata al Testo unico citato), al fine di difendere la loro integrità psico-fisica dagli effetti di comunicazioni multimediali potenzialmente lesive.

 

Quindi il diritto di informazione, già secondo lo stesso codice deontologico dei giornalisti, dovrebbe fermarsi dinnanzi al rispetto della personalità e del benessere psico-fisico collettivo o dei singoli (specie, si può capire, se minorenni). Tuttavia lo stillicidio quasi quotidiano di questo tipo di notizie (notizie di morte, ma anche, in altri periodi, notizie di violenze di vario genere), e le modalità in cui solitamente vengono date (tutti i giorni, in tutti i programmi e per buona parte della loro durata), dimostrano che questa norma deontologica non viene rispettata e bisogna chiedersi il perché e soprattutto protestare e intervenire. Le notizie ripetute sulla morte degli esseri umani non sono necessarie per leggere correttamente la realtà, anzi, come evidenziano ampiamente i dati, favoriscono nelle persone, specie le più fragili, emozioni negative, desensibilizzazione e minimizzazione, negazione e alterazione della capacità di giudizio. In quest’epoca di comunicazione esasperata e di saturazione mediatica della vita collettiva, la responsabilità dei media nella diffusione del panico (e della violenza tra le persone), alimentando una distorta percezione di pericolosità nella nostra vita non può più essere considerata solo un’ipotesi tra le altre ma piuttosto una vergognosa certezza. Penso che chi di dovere (veri esperti di comunicazione, persone di buon senso che occupano posti di rilievo nelle istituzioni) debba prendere una posizione chiara in merito e, approfittando di quanto si sta verificando durante questa pandemia, avviare urgentemente un confronto serio con l’Ordine dei giornalisti e con le istituzioni pubbliche e private deputate all’informazione, affinché quanto prima e per il futuro si possa attuare un’informazione di tipo diverso, anche in tempi normali; un’informazione più precisa, più corretta scientificamente, più responsabile delle sue ricadute sulla condizione emotiva degli individui. Se proprio bisogna diffondere strenuamente e costantemente determinate informazioni, che queste siano soprattutto educative per gli ascoltatori, ossia che indichino atteggiamenti e comportamenti da tenere in quanto socialmente corretti, responsabili, utili al loro e all’altrui benessere.

 

Il diritto di informazione è un diritto fondamentale in una democrazia, in quanto consente ad ognuno di accedere a dati che si suppongono possano ampliare la capacità di agire, di pensare, di leggere la realtà, quindi in sostanza la libertà individuale. Che vantaggio ne abbiamo però dal confrontarci ogni giorno con un bollettino di morte che rischia di saturare l’immaginario collettivo e dinnanzi al quale si può che provare angoscia e sentirsi impotenti?

Io credo nessuno, né tanto meno potranno averlo le persone più fragili, i nostri ragazzi, i nostri bambini.

6 thoughts on “Angoscia sociale e responsabilità morale dei media durante la pandemia

  1. Sono completamente d’accordo con quanto scritto nell’articolo, anche se , a proposito della pandemia, la chiarezza sui dati prima che i giornalisti dovrebbero averla le istituzioni preposte , e mi sembra che da questo punto di vista la realtà non fa che creare ulteriore angoscia. Per quanto riguarda poi il ruolo della stampa ed il suo ruolo super partes nella esposizione dei problemi quotidiani io non riesco a mandar giu’ tutti i giornalisti( e i magistrati) che si riciclano in politica. Nessuno è indenne a destra e a sinistra . Vederli argomentare dai banchi del Parlamento Italiano e Europeo con esposizioni chiaramente di parte mi spinge sempre di più a credere sempre meno ad un ruolo veramente equilibrato della stampa e tutto cio’ non è che una ulteriore spinta alla cancellazione di ogni tipo di intermediazione che sappiamo a quali rischi può portare

  2. Sono pienamente d’accordo
    Ma come protestare come influire su questo modo intossicante di fare informazione
    A me il più delle volte salvo rarissime eccezioni crea un senso disgustoso di rigetto

  3. Quadro chiaro , preciso e completamente condivisibile.
    La disinformazione equivale alla scorretta informazione. Troppo spesso il giornalismo non si limita a condividere le informazioni lasciando il diritto di elaborarle con cognizione propria, ma viene impropriamente usato per il proprio tornaconto personale. Una riflessione collettiva e seria come questa sarebbe già un buon punto di partenza.

  4. Articolo scritto molto bene e che lascia un importantissimo spunto di riflessione per tutti quelli che si occupano di informazione.
    Sono pienamente d’accordo.

  5. Mi chiedo sempre se, nei media di informazione, si seguissero le 5W e se si declinasse l’informazione in modo da mettere in condizione il lettore di ragionare di testa e non di pancia, che rivoluzione si attuerebbe, nel modello di business intendo. Vera informazione , pagabile, che potrebbe spazzare via la fuffa attuale. Se la “gente” si abitua al meglio, il peggio potrebbe rigettarlo. Utopia?

  6. Assito ad un peggioramento costante del giornalismo televisivo e dei giornali. una regressione che sembra pilotata da interessi dei gruppi di di potere di riferimento dei vari media. e pensare che la rai fa servizio pubblico pagato da noi. la presenza costante di certi personaggi presentati come intellettuali importanti e che invece sono mediocri. penso sia tutto voluto… la ricerca di particolari morbosi e truculenti durante un tg è inaccettabile.

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