[Questo sabato, in vece della playlist settimanale, presentiamo un omaggio a Carlo Bordini, con una breve antologia dell’opera e il video di una lettura recente: tre poesie tratte da I costruttori di vulcani (Sossella 2010), una poesia tratta dalla plaquette Assenza (Carteggi Letterari 2016), un brano tratto dal romanzo Gustavo (Avagliano 2006) e dal romanzo Memorie di un rivoluzionario tiimido (Sossella 2016), seguite dal video della lettura dell’incipit di “Polvere”, tenuta a Maggio di quest’anno in occasione dell’iniziativa di lettura per Umbrò Cultura].
Da I costruttori di vulcani (Sossella 2010)
Poema a Trotsky
E cosa avrai mai pensato
ucciso dai tuoi stessi fratelli
braccato dai mitra proletari
un sapore di dolce e d’amaro
un sapore di sangue in bocca
che cosa mai avrai pensato degli uomini
se pure hai pensato
Leone Trotsky
Nel 1918 Trotsky era a capo
dell’esercito rosso. Aveva dovuto organizzare,
come è noto, un esercito dal nulla.
Aveva organizzato una cavalleria fatta da
operai,
utilizzato lo spirito patriottico di molti ufficiali
zaristi,
organizzato l’azione di bande che agivano isolatamente,
ecc. Aveva dovuto
essere furbo, astuto, spietato, e
lungimirante.
Seppe che Aleckin, campione del mondo di scacchi,
e uno dei più grandi genii, del mondo degli scacchi,
grande maestro internazionale,
era in prigione a Mosca.
L’andò a trovare e lo sfidò
a una partita.
Aleckin, timoroso, cominciò
a giocar male.
Trotsky gli disse: se perdi,
ti faccio fucilare.
Fu l’arroganza di satrapo
o l’esaltazione della lotta
a suggerirgli questa frase indubbiamente ironica?
Aleckin voleva perdere?
Trotsky voleva forse perdere?
Entrambi volevano forse perdere?
Mi ha sempre colpito questo incontro
tra lo stratega e lo scacchista
come la partita a scacchi tra il cavaliere
e la morte
(c’è un bellissima fotografia di Tito
che gioca a scacchi).
Trotsky voleva perdere?
La sua anima ebrea concepiva già
il terribile esodo?
Aleckin vinse. Poco più tardi
fu liberato ed emigrò a Parigi.
Fu campione del mondo
dal 1927 fino a poco prima
della morte. Si suicidò nel
’46, accusato
di collaborazionismo coi tedeschi.
Nella mia gioventù sono stato
trotskista per molti anni. (gli anni migliori). Soggiacqui
al fascino di Trotsky,
uomo sconfitto.
Soggiacqui a questa angoscia della sconfitta
a questo fascino dell’angoscia della sconfitta,
quest’uomo sconfitto,
doppiamente sconfitto,
Io studente soggiacqui.
Quest’uomo nobile e dolente,
e insieme forte,
io che ho avuto un padre
generale, e fascista, e non molto affascinante,
Soggiacqui.
Ora ti rivisito
e vedo me stesso.
La tua ferocia purificata dalla morte,
Fosti un padre
pulito,
un esempio,
una figura nobile,
Un guerriero
che sa morire.
Io che non sapevo assolutamente che fare della mia vita,
scelsi la tua morte
permeata di intelligenza.
Tu, intellettuale ebreo radicale,
pedante,
cristallizzato e andato in briciole,
padre dolente
nuovo Gesù e Cristo.
Il fascino del martirio
m’ipnotizzò studente.
Mi affascinò l’uomo tagliente,
quasi pirandelliano,
capace di esprimersi
in frasi lapidarie,
“Né pace né guerra”
“Proletari a cavallo”.
Come tanti anche tu morivi per gli altri
nobile cavaliere
anch’io ho mangiato un pezzetto di te.
Troppo velenoso è il tuo nutrimento.
Uomo dall’equilibrio
sempre spostato in avanti
in moto incessante
forse volevi cadere (in avanti).
E il bello era che avevi ragione
o almeno avevi in gran parte ragione.
Mi rannicchiai nella tua ragione, perché avevi ragione,
ma tanto, era ormai una ragione sconfitta, e così,
vivevo nella parte di dietro della storia, e stavo comodo.
Nessuno poteva disturbarmi. Tanto ormai tu eri morto.
Io avrei dovuto aspettare ancora qualche diecina d’anni per morire
e intanto mi tenevo la ragione. Studente, decisi così.
Eppure la tua razionalità radicale era eroica
comodo vivere dell’eroismo altrui. Così morii vivendo.
Poi rinacqui. (Non potevo rinascere se prima non morivo). dalla tua morte
cosa rinasce? Nulla. Una sola frase, una sola
parola,
“O socialismo o barbarie”. La ragione sconfitta ha la sua rivincita.
[Rivincita orribile, tragica rivincita, tragica consapevolezza, ]annichilante
profezia. Vissi grondante di morte, sapendo quello che sarebbe
venuto, ed ora che la barbarie
dilaga, e il tuo ottimismo cade,
non cade la tua intelligenza. Intelligenza sterile. E’ vero: o socialismo
o barbarie. La barbarie dilaga,
o socialismo o barbarie. Io lo sapevo e fingendo
ottimismo rivoluzionario
contemplavo la catastrofe della Storia.
Forse volevo perdere anch’io, come la storia che ho raccontato,
che non so se è vera,
ma mi ha affascinato
Trotsky, capo dell’esercito rosso, sfida il
campione del mondo di scacchi, entrambi
vogliono perdere, entrambi perdono, finiscono
tragicamente, ma che bello,
che bello scegliere la parte perdente, morire per procura
attraverso
gli altri,
suicidarsi in effige
(in quel periodo avevo pensato al suicidio come possibile
strategia
del mio senso di inutilità)
e poi incontrai l’articolo di giornale che parlava di questa
partita a scacchi
e ne fui
affascinato
adesso sono molto diverso da quando ho cominciato questa
poesia
so molte cose
e tante altre poi che non sono scritte qui
in quel periodo c’era anche una ragazza bionda un amore sfortunato
ho giocato troppo coi sentimenti degli altri
Non è vero: vissi una situazione di millenarismo,
per questo vi rimasi tanto tempo.
in questo mondo che scade verso la barbarie
Microfratture
L’idea della catastrofe, una catastrofe silenziosa,
appena avvertita, ma inevitabile.
Oppure le microfratture psichiche,
le microfratture di un’anima.
La mia anima è piena di
microfratture. Sono i piccoli traumi nascosti,
dimenticati, che tornano ogni tanto, quando l’anima è sotto sforzo,
quando non te ne accorgi. Dentro sono franato tutto. Non me ne accorgo,
ma lo sono. Magari quando attraversi una strada e un rumore ti fa rabbrividire,
quando tremi alla pronuncia di un nome, quando
hai un improvviso soprassalto di insicurezza. Le microfratture
sono le telefonate e gli appuntamenti che ti snervano,
improvvisamente,
l’andare in una stanza e chiedersi: che ci sto a fare,
ecc. ecc.
tutto un elenco dei nervosismi, dei soprassalti, delle cose che ti feriscono,
e le minuzie che ti snervano, ecc ecc
il cervello che funziona troppo,
Corteo
Se ne tornano a casa, mesti,
con una leggera zoppìa,
il corteo zoppo,
e invero molto stanchi,
quando il corteo è già terminato,
con il loro incedere regale, mesto,
con grande dignità perché
anche se il corteo è
già morto, l’incedere è ancora magico.
Nel silenzio e
nella solitudine,
piangendo,
con una lieve zoppìa, nel buio già della sera,
perché la dignità si vede
quando non ci sono spettatori
Da Poesie inedite
Roma
Una caratteristica di Roma è la sua indecifrabilità. E’ come se Roma fosse ricoperta da una guaina morbida, elastica, che impedisce di vedere con precisione i lineamenti, nasconde allo sguardo gli angoli acuti, rende tutto uniformemente morbido, rotondo, mucillaginoso. Tutto vi diviene inespressivo, ipnoticamente inespresso, come un corpo ricoperto da uno strato di grasso che celi le sue forme.
Tutte le manifestazioni di una città – la stupidità della gente o la sua intelligenza, la violenza, il pericolo, ecc. ecc. – sono a Roma attutite, quasi cancellate o comunque ricoperte da questa melina appiccicosa. I romani non sono gentili, ma non sono esenti da una loro cordialità. Non sono brutali. Alcuni di essi – uomini, settori – lo sono, certamente, ma tale brutalità è nascosta dall’indifferenza della città. La città come copertura. Caratteristica precipua e comune del romano è infatti la sua indifferenza, che si sposa a uno scetticismo ormai atavico. Un romano non crede nella realtà, non prova forti sentimenti o forti emozioni o forti desideri; è generalmente simpatico, caratterizzato da uno humor menefreghista che è l’emblema di tutta la città. Diceva una battuta della Dolce vita: Roma è un ottimo posto per nascondersi. Questa è una caratteristica di ogni grande città, ma in Roma il nascondersi è particolarmente dolce, tra l’indifferenza della gente, e la vita facile delle sue trattorie. Il pericolo a Roma non viene mai avvertito, così come la morte; a Roma si può essere aggrediti senza accorgersene, perché tutto rimbalza nella consistenza gommosa di questa città. Si muore senza accorgersene, e senza che gli altri ci facciano caso, non per cinismo (il cinismo presuppone delle passioni, odio, ambizione, che a Roma mancano) ma per indifferenza. Il romano non è certo fanaticamente dinamico, ma non ha nemmeno l’indolenza felina dei napoletani. Roma è il posto ideale per vivere soli e per morire soli, senza che questa solitudine acquisti nulla di drammatico; al massimo può essere noiosa (Roma, pur non essendo stimolante, non è neanche una città veramente noiosa, come può esserlo una città di provincia). A Roma, piuttosto, i sensi si ottundono. A Roma manca anche la paura, che dura un secondo, dopo di che si ritorna ad una allegra carnale indifferenza. Lungi dal terrore, Roma può essere la città della depressione – delle croniche, morbide crisi depressive…
Ma nello stesso tempo Roma ha un pregio: essendo una città fantasma, una città immaginaria, sonnambula, può favorire grandi e pacate allucinazioni. Una persona a Roma potrebbe fingersi idiota e vivere una vita nascosta, marginale, e soccombere sotto il peso di ancestrali e antichissime colpe.
Da Gustavo (Avagliano 2006)
Gustavo si accorge che fare qualsiasi cosa gli procura fatica. Fatica ricordare gli atti della vita quotidiana: comprare il pane, comprare una medicina. E’ come se la materia del suo cervello fosse diventata molle. Ora ricorda tutto; il periodo di amnesia è durato un paio di giorni, e tutto sommato è stato piuttosto piacevole: ma lo ha lasciato spossato. Gustavo dorme molto, e sogna anche molto, e questo, qualche volta, lo spaventa. Prova continuamente una sensazione di vuoto. E’ come se dentro di lui ci fosse un enorme buco, che egli sente il bisogno di riempire a qualsiasi costo e con qualsiasi materiale. Gustavo prova un senso di immensa stanchezza; ma non sa se è stanco di vivere o stanco di immaginare. Spesso gli capitano in sogno le teste, e lo ossessionano coi loro discorsi. Stranamente, le teste degli amici, con cui egli aveva un rapporto così sfilacciato quando erano a casa sua, ora sono una presenza costante, ossessiva. Gli parlano nel sonno e gli danno dei consigli.
Il senso della sua debolezza crea in Gustavo un senso di terrore; gli sembra di allontanarsi, di rotolare via, nel vuoto, come un neonato senza latte. E’ una sensazione molto vicina a quella della morte. Gustavo preferirebbe essere ferito, per poter lottare in modo selvaggio per la sua sopravvivenza; il senso di smarrimento che prova, invece, accentuato dalle menomazioni pratiche, dalla mancanza di memoria per le piccole cose, è qualcosa contro cui è difficile lottare direttamente. Per non lasciarsi prendere dal panico, per mantenere il controllo dei propri nervi, Gustavo applica una complicata strategia. Egli assume in ufficio un atteggiamento distaccato, quasi di trance; e appena esce dall’ufficio entra dritto in un cinema, e poi in un altro, e la sera guarda la televisione fino alle ore piccole, finché piomba in un sonno senza forze e senza sogni. Dorme pochissimo, e così riesce a non incontrare le teste. La stanchezza artificiale che si procura in questo modo lo aiuta a ritrovare un equilibrio: e, in un certo senso, lo riempie. Le immagini danzano dentro di lui. Lo sforzo che fa in ufficio per compiere le cose più semplici dà un senso a quelle ore, altrimenti vuote. Egli desidererebbe scrivere a Marina, e l’idea di farlo, procrastinata continuamente, lo aiuta. Piano piano egli smette di pensare, e anche le sue immaginazioni divengono nebulose: sono le immagini altrui che si incaricano di danzare davanti ai suoi occhi, diventando sempre più inintellegibili e rassicuranti. Finalmente Gustavo si ammala veramente, di stanchezza, e riesce a farsi ricoverare per un breve periodo in una clinica. Quando ne esce è vuoto, leggero; la sua testa è sgombra e tutto gli sembra nuovo e banale, senza peso,
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Gustavo continuò a vivere in questo stato per un po’ di tempo; era assistito da qualche amico e da alcuni parenti. Egli conosceva molto poco, superficialmente, sia quegli amici che quei parenti. In clinica gli avevano fatto delle complicate cure psichiche, e l’angoscia era passata; egli si accorse che durante questa malattia era trascorso molto tempo, ed era già inverno. Gli amici e i parenti venivano a trovarlo spesso. Egli ricominciò lentamente ad andare al lavoro, dapprima quasi pro forma, facendo piccolissime cose, poi impegnandosi nuovamente nelle sue pratiche con un impegno che era sproporzionato rispetto ad esse, data la sua debolezza, e che lo assorbiva per ore e ore. In quel periodo un giorno scrisse a Marina, che però non rispose
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Gli amici e i parenti venivano e si trattenevano magari per molto tempo senza dire nulla, se non delle battute rassicuranti; il che dava fastidio a Gustavo, che desiderava guardare la televisione. Egli pensò: “Sembrano proprio le visite a un malato”. I parenti e gli amici tenevano pulita la casa, lavavano i piatti, e parlavano spesso, con aria ragionevole, della convenienza di cambiare casa, e di trasferirsi in una casa più moderna e più piccola. Gli presentarono anche delle donne anziane, con l’idea che egli avrebbe potuto iniziare una relazione con loro, e “ricominciare una vita”; al che Gustavo si mise a ridere, visto il campionario che gli presentavano volta per volta. I parenti e gli amici che lo assistevano gli sembravano dei fantasmi, così fermi e compassati, così pieni di notizie di altri parenti lontani che egli non aveva mai visto, “Zia Paola”, “Zia Matilde”. Egli ricordò che si era ripromesso di non fare entrare mai più nessuno in quella casa, e che ora amici e parenti entravano liberamente quando volevano, senza nemmeno bussare, perché ora avevano la chiave; ma egli pensò che tanto non importava, perché ormai egli era morto. Un giorno cominciò a venire in casa insieme ai parenti e agli amici una ragazza giovanissima, che assomigliava straordinariamente a Marina, e che stava in piedi accanto a loro senza parlare. Essa veniva quasi tutti i giorni, e Gustavo cominciò a pensare al modo di poterla conquistare superando l’ostacolo rappresentato dai suoi visitatori, che non lo lasciavano mai solo. Ma egli pensò: “Se questa ragazza viene, vuol dire che è destinata a me, altrimenti non verrebbe. Non è anziana come le altre persone, e non ha quell’aria convenzionale; evidentemente essi vogliono che io la sposi, perché sarebbe l’unica maniera in cui io la potrei avere”. Allora chiese a un suo cugino, che veniva sempre a trovarlo, un tipo grasso, giovane, e con i capelli unti, se poteva sposare quella ragazza; il cugino non rispose, anzi ghignò con un senso di complicità; e da quel giorno la ragazza non venne più
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Egli sapeva che per impedire che amici e parenti tornassero continuamente a trovarlo doveva giocare d’astuzia; infatti evidentemente il fatto che egli fosse stato malato dava loro un certo potere su di lui, ed egli non poteva cacciarli semplicemente o cambiare le serrature, perché sarebbe sembrato un atto sconsiderato che avrebbe aumentato, anziché diminuire, il potere che loro avevano su di lui. D’altronde egli aveva la netta coscienza di essere ormai morto, “come un topo morto”, pensava tra sé, e doveva dimostrare invece di essere vivo e di star bene, e di vivere in un modo assolutamente regolare.
Da Memorie di un rivoluzionario timido (Sossella 2016)
Al lettore
Questo romanzo totalmente legato all’autobiografia è una sorta di bilancio di circa vent’anni della mia vita. Poiché sono stati anni pieni di traumi, la stesura di questo libro è stata una lotta con me stesso. Per questo ci ho messo un tempo lunghissimo a finirlo. Un bilancio, un esame di coscienza su due temi fondamentali: il rapporto con la politica (sono stato a lungo militante di un gruppo trotskista) e i grovigli affettivi che hanno caratterizzato i miei rapporti col mondo femminile. Il tutto preceduto da un’adolescenza vissuta tra depressioni, cambi di facoltà, fughe e sedute dallo psicanalista. Una normale figura di disadattato, quindi, alla ricerca di un equilibrio. Scritto in periodi diversi e con stili diversi, abbandonato e ripreso, questo libro non poteva che assumere una struttura disordinata e barocca, che accettava, come inevitabile, un fluire profondamente disomogeneo. Tutte le irregolarità grafiche, grammaticali, ortografiche e sintattiche sono quindi volute. Mi riferisco ai capitoli che terminano senza punto, all’uso arbitrario delle maiuscole e delle minuscole, alle irregolarità nella punteggiatura, alle parentesi quadre, alle parole deformate; tutti accorgimenti volti al perseguimento di un impasto musicale fatto da dissonanze. Non si tratta infatti di refusi ma dell’uso di un linguaggio deformato, di cui ho creduto necessario servirmi per cercare di superare la piattezza dell’italiano televisivo su cui si basa il linguaggio letterario contemporaneo e per creare un impasto tra il sogno e la realtà. Consiglio, in questo senso, a coloro che trovano strana la mia scrittura, per valutare l’enorme distanza che esiste tra linguaggio letterario e altre forme d’arte, di ascoltare il Quartetto d’Archi n. 5 di Šostakovič, Cosmik Debris di Frank Zappa e Cronache Animali di Nicola Campogrande.
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Poiché negli ultimi decenni i cambiamenti della vita sono stati uguali a quelli che una volta avvenivano in due secoli, voglio dare qui una serie di piccole spiegazioni, quasi un glossario, o meno di un glossario, per permettere di orientarsi nelle pagine di questo libro a chi si trova in un mondo completamente diverso da quello narrato. Il Parco Lambro era un raduno annuale, a Milano, di ribelli, freak, drogati, rivoluzionari più o meno convinti e giovani in cerca di una qualsiasi identità. La psicanalisi fu considerata per un periodo un metodo per risolvere i propri problemi psicologici di adattamento alla realtà. Luglio ’60 è stato un episodio, oggi volutamente dimenticato, in cui una grande rivolta, che ebbe inizio tra i portuali di Genova, impedì all’Italia di ritornare, sotto forme diverse, al fascismo. Il PCI era un vecchio partito politico il cui nome completo era Partito Comunista Italiano, dal quale sono stato espulso; la FGCI era la federazione giovanile di quel partito. Trotsky lottò contro la burocratizzazione staliniana dell’Unione Sovietica, fondò la IV Internazionale, che come molte organizzazioni minoritarie si divise in tanti pezzettini, e fu ucciso da un sicario di Stalin. Il 68 fu l’anno delle rivolte studentesche in tutto il mondo; gli anni settanta sono stati gli anni delle rivolte giovanili; i reichiani erano seguaci di Reich, psicanalista allievo di Freud, che faceva della rivoluzione sessuale il cardine del suo pensiero. I cinque di Burgos erano dei militanti antifranchisti che furono garrottati (ossia strangolati) proprio nel periodo in cui il dittatore della Spagna, Francisco Franco, stava tirando le cuoia. Il mondo, nel periodo narrato, non stava per esplodere, o almeno c’era qualche ragione per sperare che non esplodesse, e c’era qualcuno che credeva che si potesse creare un mondo un poco meno merdoso di quello che c’è adesso. Ho narrato la storia di un uomo che cercava l’amore ed era in sostanza incapace, anche se in apparenza era ben capace, di amare qualsiasi persona. Ho cercato di parlare quindi infine il più possibile male di me stesso.
Lettura dell’incipit di “Polvere”, Maggio 2020, In occasione di Umbrò Cultura
[Immagine: Dino Ignani, Carlo Bordini]