di Pietro De Marchi
[E’ appena uscito per le Edizioni Casagrande di Bellinzona Con il foglio sulle ginocchia, un libro in cui Pietro De Marchi raccoglie testi che proseguono il lavoro di rievocazione, memoria e reinvenzione già iniziato da Ritratti levati dall’ombra (Casagrande, 2013). Dalla seconda parte del libro, intitolata Altri ritratti, pubblichiamo Giubiasco andata e ritorno, uno dei testi più narrativi del libro in cui appaiono diverse volte il nome e l’opera di Giorgio Orelli].
Giubiasco andata e ritorno
Andata
19 giugno 2014
Mai stato a Giubiasco? Mai stato.
A vedere la piazza?
Mai stato.
È strano, ma capita, la vita è fatta così. Uno può andare anche a Londra, a un convegno su «Italian Poetry in the Sixties and Seventies», a parlare di Foratura a Giubiasco di Giorgio Orelli, ma a Giubiasco, proprio a Giubiasco, non esserci mai stato, né prima né dopo, e non certo per paura di forare.
Fino a stamattina Giubiasco non era per me un posto dove si va; era un luogo di cui si parlava in una celebre poesia di Sinopie, lo spazio circoscritto nel quale si svolgeva un teatro di strada in cinque brevi atti, con una scenografia e dei personaggi che non si faticava molto a immaginare, e soprattutto con il protagonista, il poeta, che aveva occhi e ricordi quanto basta per irritarsi dello strazio patito da una piazza una volta bellissima, e per scandalizzarsi di quello che gli uomini erano stati capaci di fare ad altri uomini: non solo lì, su quel suolo manzonianamente «tra i più intrisi di sangue» per le tante battaglie medievali, ma anche altrove, anche molto lontano, ad esempio a Xuan Loc, nel Vietnam, dove una ragazzina che non sapeva dove scappare, con il fratellino in braccio, gli era parsa, quando l’aveva vista in televisione, «una lucertola impazzita sull’asfalto / caldo ancora d’estate».
A dire il vero, da Giubiasco c’ero pur passato alcune volte, se prima mi ero fermato a Ravecchia a salutare Giorgio e Mimma, e quindi si trattava di riprendere l’autostrada verso sud. Spesso c’era coda, entrando in paese, in vista della rotatoria, e non mi sarebbe davvero costato molto fare una breve sosta, se non altro per lasciar scorrere il traffico dell’ora di punta. Ma non sentivo il bisogno di procedere a un sopralluogo, di fare degli accertamenti, di confrontare la realtà della pagina scritta con quella delle cose che si vedono e si toccano con mano. E poi a Giubiasco non conoscevo nessuno.
Adesso però, che sono trent’anni e più che vado avanti e indietro, in treno sulla linea del Gottardo, o in auto lungo la via delle Genti, sono contento di avere questa opportunità di vedere finalmente Giubiasco. È un giovedì di giugno, e qui nel Canton Ticino si festeggia ancora il Corpus Domini, e per questo non ci sono gli esami, oggi, a Lugano, e ho tutta la giornata libera. A Giubiasco, in ogni caso, voglio arrivarci partendo da Bellinzona, come mi pare sia giusto, tanto più che ho detto a degli amici che sarei passato a salutarli in mattinata, e così prendo l’Intercity delle 9 e 12 e in venti minuti sono a Bellinzona.
Da Peverelli, in piazza Collegiata, compro dei biscotti friabili per Lucia e Nicola, e vado subito da Barbara e Matteo, nella loro bella casa di via Nizzola, vigilata da un gigantesco albero di cachi. La stagione dei cachi certo è ancora lontana, ma Matteo mi rassicura, il «catacachi» è sempre lì, appoggiato al muro. Barbara deve finire una traduzione prima di partire per la montagna, i bambini giocano nella loro stanza, con Matteo si beve un caffè e nel frattempo si parla di tante cose, tristi e liete. Poi usciamo a fare un giro per Bellinzona. Vediamo passare la processione e Matteo mi indica una persona che è rimasta un po’ indietro e che ora si appoggia a una colonna dei portici per prendere fiato. È una macchietta locale, mi dice, un signore con un cognome svizzero-tedesco, che se ti fermi a parlare con lui ti attacca un bottone che non finisce più. Saluto Matteo, alla fermata dell’autopostale per Giubiasco, in piazza Indipendenza, di fronte all’obelisco, e ci diciamo arrivederci a dopo l’estate.
A Giubiasco non scendo alla prima fermata di piazza Grande, ma a quella successiva, quando si è già imboccata la strada che sale verso la valle Morobbia. Così posso immaginare di entrare in città venendo a piedi dalla montagna, come i contrabbandieri che scendevano dal passo San Jorio o i mandriani che conducevano le vacche al mercato nei giorni di fiera, e per loro la piazza in lieve pendio si trasformava in un foro boario. Una volta arrivato a Giubiasco, mi ero detto, dovrai tener d’occhio le insegne, le lapidi, i cartelloni pubblicitari. Ed ecco allora, appena sceso dalla corriera: ARTICOLI PER TOMBOLE E LOTTERIE / DOLCIARI IN GENERE; e più avanti: TENDE DA SOLE, LAMELLE, ROLLADEN. Quest’ultimo è un endecasillabo già bell’e pronto, e immagino che a Giorgio non sarebbe dispiaciuto, per via di tutte quelle liquide e del germanismo Rolladen, cioè avvolgibili, tapparelle.
In piazza Grande mi aggiro cauto tra le sculture e ne fotografo alcune. Quella che mi attira di più è la grande terracotta di Christina Wendt, quell’uomo nudo, seduto a gambe larghe su una sedia altissima, che ha la testa inclinata in avanti e fa un gesto interrogativo con la mano destra come se chiedesse: «Ma che cosa cerchi qui, non lo vedi che sono fragile e ricoperto di ragnatele?». Cerco la casa del Berta, Berta Edoardo, il pittore. Ma la frase latina che Orelli cita all’inizio del suo testo, prima che nell’affresco stinto della facciata di casa Berta, la leggo sul muro di una casa del Borgo, sopra un negozio di macelleria (IL MEGLIO IN FATTO DI CARNE) e forse solo adesso capisco davvero che cosa vogliono dire le parole della poesia che precedono l’iscrizione: «Da un muro all’altro IN GREMIO MATRIS SEDET / SAPIENTIA PATRIS». Continuo per via Rompeda, la via da cui credo arrivasse il poeta in bicicletta, provenendo da Ravecchia, e vedo il Ristorante Popolare con alloggio, l’oratorio con il campetto di calcio, il Grotto della Salute, e infine un cortile da cui escono una madre e una figlia, nera in volto la madre, con il muso lungo la figlia che voleva continuare a giocare con un’amichetta e non era rientrata a casa all’ora concordata.
Torno in piazza Grande e mi siedo al Ristorante del Moro. Fa caldo e c’è un’aria come di un paese del sud in estate. Passano poche auto, centauri in tuta nera su moto di grossa cilindrata posteggiano qui davanti ai tavolini all’aperto e si levano il casco. Ogni tanto cerca ristoro alla fontana anche qualche ciclista della domenica, che a giudicare dalla tuta fiammante e dalla bicicletta superleggera potrebbe fare i tre Passi quasi senza pedalare. Io me ne resto all’ombra. Per il dessert mi sposto solo di pochi metri, la pasticceria qui accanto mi ispirava fiducia, e alla prova gelato ho la conferma che la fiducia era ben riposta. Al momento di pagare chiedo alla cameriera qual è la strada più breve per la stazione. Lei mi guarda come se fossi un forestiero un po’ tonto, ma poi me la indica senza troppe cerimonie.
La stazione è deserta, tutto è chiuso oggi e c’è un senso di desolazione domenicale. Solo due o tre persone aspettano i treni. Se dovessi tornare subito a Lugano, alle 15.06 ci sarebbe l’S10 diretto a Milano Centrale. Ma ho promesso a Mimma che sarei andato a salutarla nel pomeriggio, e allora prenderò il primo TILO per Bellinzona. Ce n’è uno alle 14.54. In pochi minuti sono di nuovo nella piccola capitale del Cantone. Sotto la cerniera dei merli del castello la piazza sembra un porto, e quella struttura là in fondo, di cemento armato, è simile a una nave pronta a salpare. Sulla fiancata della nave si legge l’invito a una mostra, a Castelgrande: «Il ritorno dei Visconti». Oggi non ho abbastanza tempo per loro, sarà per un’altra volta.
Sono un po’ in anticipo e allora non prendo la salita da cui una volta vidi Giorgio venirmi incontro in bicicletta, frenando, mentre il conducente dell’autobus alle sue spalle rallentava anche lui perché non voleva sorpassarlo in curva. Così faccio un giro più lungo e rivedo Villa dei Cedri e la chiesa di San Biagio e il Grotto Malakoff.
Ritorno
21 agosto 2014
Qualche giorno fa sono tornato a Giubiasco, in modo inatteso. Si è trattato in verità di una visita virtuale, ma non c’entra Google Maps o qualche altra utilissima diavoleria. Stavo finendo di trascrivere in pulito il dattiloscritto del libro che Giorgio Orelli ha lasciato incompiuto, L’orlo della vita. Tra i fogli rimasti fuori dalla sua ultima scelta, ma per così dire ancora a portata di mano, in attesa di ripensamenti, ritocchi o eventuali riscritture, c’è una bella poesia inedita, accompagnata da un punto interrogativo. S’intitola Verso Giubiasco.
Avvicinandosi al centro della cittadina, il poeta, che immaginiamo ancora in bicicletta, anche se non lo dice, vede affiorare come dalla nebbia, davanti a un’osteria, «le mani d’uno / vive come gli avessero rubato il flauto / traverso mentre suonava»; e quindi rivede «la finestrella d’angolo, bassa», della casa di una delle vecchie di Foratura a Giubiasco, quella che gli aveva raccontato «quando in sogno era morta e cercava / la strada del paradiso». Ma poi c’è uno stacco, nel testo, e la scena all’improvviso cambia. Dall’alto giunge una voce che gli chiede se ha visto un cane, un barboncino, e il poeta si accorge allora di due bambine che avanzano sopra una muraglia lungo il torrente, entrambe con le braccia levate «come in antico affresco, noncuranti / del pericolo», e una gli va incontro, si rivolge proprio a lui e «Scusi», ripete, «non ha visto il mio cane?»
C’è un’atmosfera tipicamente orelliana in quest’altra poesia su Giubiasco, di cui chi sa perché l’autore non era del tutto convinto: il motivo della passeggiata che permette all’io di non parlare solo di sé ma anche degli altri; gli incontri e i dialoghi, specie con i vecchi e i bambini; il sentimento d’ansia per i pericoli che sempre incombono; l’ascolto attento di ogni aspetto della realtà quotidiana, anche di quella più domestica, e la scoperta dello spazio che in essa ha il mistero. Mi capitasse di tornare a Giubiasco prima della fine dell’estate, scommetto che cercherei quella muraglia lungo il torrente. Forse sopra ci sarebbe ancora una lucertola stesa al sole. Tranquilla, come lasciata in pace dal tempo che passa, forse non scapperebbe via subito, scorgendo la mia ombra.
[Immagine: particolare della copertina].