di Nancy Goldring
[Nancy Goldring è una pittrice, grafica e fotografa americana; vive a New York dalla fine degli anni ’60. Ha tenuto mostre in tutto il mondo. In Italia ha lavorato, fra gli altri, con Franco Guerzoni, con la Lega della Cultura di Piadena, con CFT e Palazzo Pigorini a Parma. Il 26 ottobre del 2014 un suo quadro è stato scelto per la prima pagina dell’inserto della Lettura del Corriere della Sera. La casa editrice newyorkese Oro Editions sta per pubblicare un libro antologico sui cinquant’anni del suo lavoro.
La versione inglese di questo testo verrà pubblicata il prossimo dicembre con il titolo The Clumsy Arc dalla casa editrice Thorsten Scheu Publications.
La traduzione dall’inglese è di Giulia Oskian; revisione di Daniele Balicco].
A marzo la quarantena arrivò a NYC e strinse il suo artiglio sulla città che conoscevamo.
Confinati nelle nostre stanze e terrorizzati all’idea di avventurarci fuori, cominciammo a orientarci nel dedalo delle ordinazioni di cibo e di rifornimenti online.
Giovani fattorini arrivavano alla porta con borse piene di articoli che non avevamo mai ordinato o in quantità talmente esagerate che avrebbero potuto nutrire famiglie intere o eserciti. Disperando delle ordinazioni online, ci arrischiammo in “pericolose” sortite nei negozi del quartiere. Questa era la sopravvivenza elementare nei primi giorni.
Ma in qualche modo ci vergognavamo di lamentarci della nostra sorte, dato che eravamo tra i fortunati con case piacevoli (la mia, a Westbeth, è una residenza per artisti) e nessuno soffriva la fame. Consegne di cibo gratuito arrivavano nel nostro palazzo ogni settimana e venivano distribuite dai “capitani del piano” a coloro che ne avevano più bisogno. Ci trovavamo in una esistenza strana e scomoda, ma non in uno stato di privazione, tranne che per l’assenza enorme e irreparabile delle nostre famiglie e amici.
Cercavamo tutti di prendere le cose per il meglio dicendo a noi stessi (per lo meno quelli di noi le cui vite ruotavano attorno alla creazione di una qualche sorta d’arte) che dovevamo considerare questa reclusione forzata come un’opportunità per concentrarci sui nostri progetti, senza la distrazione di nuovi film, musei o serate fuori con gli amici che hanno sempre scandito il ritmo tipico di una certa forma di vita privilegiata.

Ma qualunque proposito di serena produttività veniva costantemente sovvertito da un impulso ossessivo a guardare le notizie: il conteggio senza fine dei malati e dei morti, l’intrico di informazioni inventate e falsità deliberate, il razzismo sfacciato che prorompeva dalle bocche dei nostri leader – da tutto questo nasceva solo un sentimento di orrore e impotenza, mentre aspettavamo un’improbabile liberazione dalle nostre celle di isolamento.
All’ansia per noi stessi e i nostri cari, si aggiungeva una preoccupazione generalizzata per le persone costrette a lavorare in città. Come il ragazzo che aveva appena fatto la spesa per me e che però mi aveva consegnato un pacco ordinato da qualcun altro; e al panico che doveva provare, svolgendo questo suo nuovo lavoro di shopper. Avevo dovuto frenare la mia irritazione, rendendomi conto che probabilmente quel ragazzo non aveva mai immaginato di trovarsi a dover scegliere tra così tanti tipi di yogurt e non conosceva la differenza tra una panna acida e un formaggio cremoso. Lui era uno di quelli che si avventurava fuori, nelle aree pericolose.
Le sere passavano su Netflix o guardando vecchi film su Turner Movie Classics.
Poi, interminabili discussioni a distanza con gli amici in cerca di nuovi materiali per riempire le nostre ore e per avere qualche storia in comune su cui confrontarci.
Iniziammo ad avere paura che non restasse più nulla da vedere.
Le giornate scorrevano uguali: leggere i libri preferiti, evitare la letteratura su pandemie e fine del mondo, girovagare di continuo sui blog. La tentazione di svuotare armadi e lavare pavimenti. Body-fit con Amy, per mantenere la circolazione attiva. Zoom a ritmo serrato. Ognuno voleva descrivere la sua esperienza quotidiana, sebbene nessuna storia suonasse molto interessante o, almeno, non abbastanza da essere raccontata. Le conversazioni su Zoom si trascinavano.
Quando sarebbe finita? Quando avremmo potuto emergere dalle nostre celle?
Potremo mai uscire da questo Paese?
Come sono abituata a fare da anni, cercai consolazione nel mio studio. Provai un certo sollievo durante le lunghe ore al tavolo di disegno. Il lavoro diventò ossessivo e cominciai a sentirmi come se le linee circoscrivessero la mia esistenza. La mia concentrazione si fece così profonda che l’interruzione di una telefonata mi turbava quanto un’invasione vera e propria. Lavorai a Dislocations che era un progetto tratto da insoliti ambienti alla Piranesi che avevo fotografato nel quartiere di Dumbo, il giorno prima del lockdown. Mi sembrava che questa nuova serie di disegni facesse da controcanto alla condizione presente.




Ma poi un evento potente squarciò la trama dei nostri giorni e ruppe il tema ricorrente dei malati e di morenti.
L’omicidio agghiacciante di un uomo afroamericano da parte di un poliziotto sadico, registrato dalla videocamera di un telefono, parve oscurare per qualche tempo l’inimmaginabile numero dei morti. Era stato un assassinio indicibilmente malvagio.
Questo evento atroce divenne il simbolo di una condizione più profonda e, in modo complesso, venne a comporre uno strano duetto di sofferenza e ingiustizia.



Mossi da un nuovo senso di urgenza e determinazione, manifestanti sempre più numerosi si radunarono nelle strade e le proteste si diffusero in tutto il mondo. La determinazione dei manifestanti si scontrò contro un’opposizione sempre più palesemente razzista, alimentata dai tweet dei governanti.
Dato che le proteste continuavano senza cedere alla violenza della polizia, fu promesso qualche piccolo cambiamento in risposta all’azione risoluta dei manifestanti. All’orizzonte aleggiavano un’angoscia diffusa per le elezioni e il conteggio dei malati e dei morti, che non finiva mai. Infine, assistemmo al collasso di quanto rimaneva del sistema giudiziario. Messaggi e video da tutto il mondo portavano consolazione e, allo stesso tempo, un senso di struggimento e di speranze naufragate.
La mia solitaria vita interiore era intervallata da lunghe passeggiate quotidiane lungo il fiume Hudson. C’era molto da vedere e si poteva quasi sentire l’aria di mare, una sorta di passeggiata urbana sulla spiaggia. Camminai ogni giorno dieci sfiancanti chilometri finche’ la suola delle mie scarpe si ridusse a uno strato sottile di gomma. Non incontrai mai nessuno che riconoscessi. E trovarmi fuori tra i tanti non fece che acuire il mio senso di isolamento.
I moli
Runner assorti, padroni di cani buffi, un numero crescente di cuccioli, famiglie che scortavano bambini in monopattino e sportivi seminudi. Ciascuno si accaparrava un pezzetto di uno dei curatissimi pontili che offrivano lunghe strisce di erba artificiale intatta. Uno spettacolo surreale di figure isolate intente in strane danze su una musica inudibile.
Le persone che passeggiano sui moli
Alcuni si esibivano in sofisticate flessioni e piegamenti; altri svolgevano le loro sequenze di yoga. Si trasportavano in palestra, come se la gente non potesse vedere all’interno delle loro bolle di esercizi, e parevano struzzi in movimento. E per finire c’erano piccoli gruppi di famiglie riunite per un picnic, persone che festeggiavano compleanni o che si godevano l’aria aperta come ci si gode una bella giornata in campagna. Quel che più colpiva, forse, era l’assenza di un codice di abbigliamento urbano: abbondavano i bikini e i perizomi apparivano più osceni che in spiaggia
Accompagnavo le mie passeggiate con la musica, come se fosse la colonna sonora al film della mia vita. Un Mozart delicato non era adatto; scoprii invece la musica di Shostakovich e Dvorak, la cui intensità fragorosa faceva eco al dramma del nostro mondo.
Ben presto cominciai a fare attenzione all’ambiente urbano in cui si muovevano queste persone senza nome. Scattai foto con l’Iphone per registrare le variazioni del tempo atmosferico e della luce sugli edifici lungo il fiume. A tratti la città appariva enorme e riduceva a nani i runner e i ciclisti; altre volte gruppi di edifici alti e sottili ricordavano i profili delle città sugli sfondi dei dipinti italiani del Quattrocento, quasi fossero paesini a sé stanti dentro la metropoli.

La passeggiata era intervallata da pontili in condizioni più o meno buone. Alcuni erano stati rinnovati mentre di altri consistevano in sgangherate strutture di legno. Barche di vari tipi stavano ormeggiate lungo i moli, a una certa distanza l’una dall’altra. Non era sempre chiaro quale fosse la loro funzione, se ne avevano una, ad eccezione di qualche sfarzoso yacht.
Una barca in particolare suscitò la mia curiosità. Bitte di ogni sorta e curiosi equipaggiamenti e materiali industriali dipinti in colori vivaci si trovavano sparsi sul ponte. Era una barca eccentrica e indecifrabile, la cui funzione prestabilita non si lasciava identificare, ed era il genere di soggetto che non posso evitare. Decisi di tentare un disegno en plein air della barca.

Arrivai con un blocco per gli schizzi e le matite, come sempre. Per molte estati ero uscita a disegnare en plein air dovunque mi trovassi, ossia, la maggior parte delle volte, in Toscana. Questi periodi di disegno intenso erano seri e necessari. Mi ponevo la sfida di disegnare con assoluta esattezza, come si fa nelle classi di disegno anatomico. Mi sentivo obbligata a far corrispondere il disegno alla mia percezione del posto, con grande concentrazione. Tuttavia, poiché non avevo un’idea chiara del suo uso mi era difficile capire la relazione tra le varie parti e la scala rimaneva approssimativa: la barca metteva alla prova le mie capacità. Era come se, disegnando, cercassi di scoprire il suo significato e la sua funzione (non saprei dire perché mi sento così ossessionata dalla “verità”. Di per sé non è meglio della fantasticheria).
Il molo che avevo scelto era cosparso di bottiglie di whiskey vuote e maschere usate e si sollevavano nuvole di polvere urbana. Non ero pronta a mettermi a sedere sull’asfalto ruvido per studiare la barca. Camminai avanti e indietro finché non scovai una fatiscente panchina di alluminio leggero posta sul molo che divenne mio. Forse un luogo di sosta all’ombra per un runner affaticato o uno spazio seminascosto per un discreto fumatore di marijuana.
C’era anche una panchina blu, più solida e comoda, ma la trovai occupata da una piccola famiglia che sembrava voler restare lì per un bel pezzo. Così il molo e la barca divennero la mia destinazione. Certi giorni compariva un gruppo di lavoratori scanzonati energicamente impegnati in attività che apparivano inspiegabili. Feci qualche scatto con il mio Iphone mentre lavoravano, restando sempre incapace di capire lo scopo della barca.

Ero stata attratta dalle sue varie parti, alcune delle quali sembravano funzionali: i tozzi cilindri di cemento avvolti da corde, pezzetti di legno scolpito simili a giocattoli. L’intera composizione di forme incongrue tutte allineate lungo il ponte della barca ricordava una natura morta di Morandi infusa del piacere di Léger per le forme industriali, il tutto sullo sfondo di quell’ambientazione piranesiana che è il disordine architettonico del contesto urbano. La barca come natura morta.

Avevo fatto schizzi per una o due settimane quando una mattina la mia panchina leggera era scomparsa. Risalii il molo fino al punto in cui si trovava la panchina blu, adesso vuota, e provai a spingerla per vedere se potessi trascinarla lungo il molo fino al mio punto di osservazione.
Si mosse per cinque centimetri, non di più.

Determinata a disegnare quel giorno stesso, ritornai alla barca e feci segni a uno che pareva essere il responsabile e che ricambiò il mio saluto e scese per venirmi incontro. Avevo già avuto qualche scambio amichevole con i lavoratori, che spesso mi offrivano la loro opinione sui miei schizzi. Erano un gruppo simpatico. Spiegai il mio problema e Ron si offrì di portare la panchina blu alla mia postazione. Approfittai dell’occasione per chiedere della barca.

Ron si presentò e spiegò che si trattava di una barca di immersione. Gli chiesi che cosa trovassero sul fondo dell’Hudson. Rispose: profilattici, mobili rotti, plastica di ogni genere e tipo; e corpi. Ma il loro lavoro, spiegò, era soprattutto di riparare i vecchi moli. Chiesi il permesso di fotografarli in azione e mi disse però che non c’era niente da vedere, dato che gli uomini scendevano in un oscuro mondo marrone e senza luce. Un sistema elettronico faceva loro da occhi per misurare le distanze subacquee e individuare la posizione dei sostegni marcescenti. Dissi che mi pareva un lavoro difficile e sgradevole. Lui rispose che difatti era così; ma che la paga era talmente buona che ne valeva la pena.



Dopo una settimana di lavoro terminai un piccolo disegno, quindi decisi di ricominciare per correggere quel che non sembrava ben riuscito nel primo. Qualcuno aveva spostato la panchina e, senza che glielo chiedessi, Ron venne a riporla per me. Questa era la mia occasione per raccogliere informazioni più specifiche e comprendere la funzione di ciascuno dei materiali. Avevo notato che i lavoratori tiravano funi e tubi che serpeggiavano sul ponte. Osservai un tipo enorme seminudo che emerse da una muta sgocciolante e si diresse in una tenda per lavarsi e appese la muta ad asciugare insieme ad altre stese su un filo.


In cambio del trasporto della panchina e delle spiegazioni sulla barca gli mostrai una foto del piccolo disegno sul mio Iphone. Lo ammirò e ne chiese una copia stampata, che promisi di regalargli.
Avevo notato dei tubi di plastica o gusci di un diametro di un metro e mezzo e lunghi un paio di metri, tutti schierati sul ponte come un piccolo esercito. In cima alle piccole cabine c’era un mucchio luccicante di reti metalliche verdi, anche quelle ritorte a completare il cerchio. Poi mi ricordai di aver fotografato un simile mucchio di grossi reticolati che però erano grigio tetro e sembravano recuperati dopo molti anni passati sotto un fiume fangoso, come di fatti era accaduto. Il giorno dopo erano scomparsi.


Ron, mosso dal mio genuino interesse o dal suo proprio piacere di raccontare, cominciò a spiegarmi la procedura straordinariamente complessa e faticosa usata per riparare la struttura portante dei vecchi moli. Era un vecchio sistema, disse, inaugurato nel diciannovesimo secolo.
I lavoratori subacquei scendono a fare una pulizia generale della zona e a rimuovere i vecchi elementi. Quelli erano i reticoli grigi che avevo notato sul tetto delle tende. Gli uomini indossavano una specie di muta gonfiabile, riempita non di aria ma di acqua riscaldata in flusso continuo nella muta, mentre gli uomini lavorano nell’acqua gelida. I vecchi moli vengono riparati con le reti verdi e poi coperti di gusci di polietere, saldati e sigillati. Una grossa macchina spara attraverso i tubi del cemento liquido che, solidificandosi, procura un nuovo solido elemento di sostegno al molo. Ottenere la temperatura giusta è un’operazione delicata.
O non si solidifica o esplode. La riparazione di un singolo molo può richiedere un anno o addirittura due. Poi indicò una piccola tenda appena protetta dal ronzio incessante.
Da lì l’ingegnere comunicava via radio all’uomo che si trovava sottacqua. Ogni gesto veniva compiuto con un’attenta coreografia. L’aria era tesa e un senso di pericolo diffuso era alleviato solo da battute sfrontate.


Più tardi un altro tipo venne giù a dare un’occhiata al mio disegno e gli chiesi di quelli che ormai avevo capito essere elementi superflui sul ponte, quelli sui quali all’inizio mi ero arrovellata.
A quanto pare la barca aveva vissuto una vita precedente come chiatta petroliera. Dopo la pensione era stata riadattata per servire da barca di immersione. Le vecchie componenti erano diventate ornamenti decorativi o ricordi di un tempo precedente, un palinsesto galleggiante che scandagliava le profondità sommerse ai margini di una città in quarantena.
