di Carmen Gallo

 

[Esce nei prossimi giorni per Nino Aragno Editore Le fuggitive, l’ultimo libro di poesia di Carmen Gallo. Pubblichiamo in anteprima alcuni testi e la quarta di Andrea Cortellessa, ringraziando l’editore. Il volume fa parte della collana i domani, curata da Cortellessa con Maria Grazia Calandrone e Laura Pugno].

 

All’alba un colpo sordo

ci ha svegliate. La pietra limite

è caduta, qualcuno l’ha colpita.

C’è molta luce adesso

ma non ci sentiamo al sicuro.

Chi ha colpito è scomparso.

Chi ha colpito adesso aspetta

o si nasconde. Restiamo immobili.

Nessuno sa come continuare il gioco.

Poi le urla, un altro colpo.

 

*

 

 

Ricostruire l’animale

dalle promesse che è stato

capace di fare. E dimenticare.

Non dalle ossa abbandonate,

ma dalle impronte che si allontanano.

Dalla corsa. Forma semplice.

La storia interna e la storia esterna.

Chi corre ha perso. Chi corre scompare

ma si porta dietro tutto. Chi resta

impara a nascondersi. A non essere niente.

Fingere le ipotesi. Le cose non accadono

a quelli che spariscono.

 

*

 

Le fuggitive

 

Siamo in una incubatrice

in una sala d’aspetto

in una casa nuova

Siamo in un bagno

nell’angolo, sotto il lavandino

in una vasca piena

in un corridoio stretto

Siamo in un letto grande

con le mani fuori dalle coperte

dietro la porta, in cucina

sotto il tavolo accanto alle sedie

Siamo sul pavimento

per le scale, con le cartelle pesanti

sotto la pioggia, sotto il portone

Siamo in un’automobile

di ritorno da scuola

in un viaggio lungo

in un’auto piena di scarpe

Siamo di nuovo in bagno

c’è sangue dappertutto

Siamo in un letto piccolo

accanto a un letto piccolo

Siamo nudi e abbiamo freddo

in piedi sulla bilancia

al centro della stanza

Siamo a scuola, dietro il banco

non parliamo per anni

in ospedale a fare i compiti

tra donne con pance enormi

Siamo in corsia, in reparto

a rincorrere i carrelli

a nasconderci tra i letti

[…]

 

*

Tornare in superficie

come bocche di colpo spalancate

animali finalmente anfibi.

Dimostrare di avere imparato

il doppio respiro, a stare e restare

nello spazio indiviso dove le cose

accadono e basta. In questo gioco

chi si cerca e chi si nasconde

hanno la stessa faccia.

La paura costringe a forme di vita

innaturali, costringe a stare

nella durata di un altro.

Impossibile prendere aria.

Restituire la paura, lasciarla

sulla soglia di casa e dire

puoi tenerla o nasconderla in giardino

prima che il tempo e lo spazio propaghino

la sua forza. È novembre. Ho trentasei anni.

Mi porto dietro tutti i miei luoghi.

Faccio attenzione a non dimenticarne nessuno.

 

*

 

Uscirne vivi #1

Nervo vago

Secondo alcuni esperimenti scientifici, un neonato che osservi il volto inespressivo di sua madre avrebbe come reazione immediata quella di far ricadere la testa all’indietro e, in alcuni casi, di svenire. Con ogni probabilità, è una risposta istintiva per nascondersi dai nemici quando la madre sembra incapace di proteggerlo. Alcuni lo associano alla reazione di freezing che a volte gli animali, e gli esseri umani, hanno di fronte a una situazione di pericolo.

 

Uscirne vivi #2

Faux Paris

Nel 1918 la città di Parigi provò a escogitare un sistema per difendersi dai bombardamenti tedeschi. La tecnica non è sorprendente se non per il numero di soggetti coinvolti e per gli aspetti scenografici. Lungo la riva della Senna, poco distante dalla vera Parigi, fu costruita una finta Gare de l’Est, con i treni le luci e tutto il resto. Di notte, la vera Parigi si nascondeva al buio, mentre accanto una falsa ferrovia prendeva vita e si accendeva in attesa delle bombe.

 

 

Uscirne vivi #17

Rembrandt

Nel museo di Monaco, assediata da altre tele, il Cristo risorto di Rembrandt ritrae il volto di uomo col petto e il torso privo di ferite. Guarito, risanato, mai davvero toccato. Lo sguardo di Cristo fissa bonario e indulgente lo spettatore che non può ricambiare, preso com’è a cercare nell’immagine, a scrutare la ferita che manca.

 

*

 

Il sarto morto due strade più in là. I funerali

nella chiesa troppo grande per chiunque.

La figlia prende la parola, dice, il miracolo

il miracolo di averlo avuto con noi,

con gli occhi aperti e tutto il resto. Usciamo.

La piazza controluce è un autobus di turisti

cinesi. Torniamo a casa, saliamo le scale,

e con noi tornano le panche di legno

sotto l’enorme altare barocco

la conversazione banale, l’odore dei fiori forte.

Spesso guardo l’altalena nel parco sotto casa

la spinta che la mano imprime all’oscillazione

di corpi minuscoli, vulnerabili. A volte

esco sul balcone chiedo alle madri di smettere,

ai bambini di tenersi forte

perché tutto questo è assurdo, e non vale la pena.

Credo di dire ma non accade. Non è reale.

Resto a fissare quei corpi capaci di restare

nel movimento dell’aria e della forza.

Alcuni ridono o piangono, ma nessuno

ha davvero paura.

*

Quarta di copertina

di Andrea Cortellessa

 

Come spiega l’autrice, il poemetto (se il termine è adeguato: considerando la sua fusione fra verso, prosa e parola-azione teatrale) che apre il libro riprende un’immagine antica: l’ephedrismos prevedeva che due contendenti mirassero a una pietra-bersaglio: chi perdeva doveva correre a cercare la pietra a occhi bendati, col vincitore sulle spalle. Questo agone crudele aveva dunque per mezzo, e insieme posta in gioco, l’esercizio della vista.

 

Sin dai suoi esordi, dimensione del rito e ossessione visiva connotano la poesia di Carmen Gallo. Questo gioco tra fantasmi del sé non fa allora che esplicitare la dimensione appunto rituale (più che teatrale in senso stretto) della coazione a ripetere: che sempre, di questa parola, è stata tema immanente e sotteso impulso formale. Il bellissimo componimento Le fuggitive disocculta la sostanza personale dell’allegoria che lo precede, dispiegando lo sguardo su di sé (persecutorio come quello di Buster Keaton, in un certo terribile Film) in una serie di luoghi-stazione ricorrenti come l’incubatrice, il corridoio e l’altalena. Il primo alberga un incubo tutto calato, intriso nel linguaggio (è «la ferita che manca»); il secondo è figura psichica che abbiamo appena visto percorsa; il terzo tornerà in clausola: emblema – come il dondolare di Beckett – di un movimento incessante che è «assurdo, e non vale la pena».

 

Proprio Beckett non hanno faticato a indicare, i lettori di Carmen Gallo, quale sua matrice decisiva. Di lì in effetti proviene lo smalto sul nulla di questa parola, nera al 99 e passa per cento come il Vantablack di Anish Kapoor, nel quale così facile è precipitare: così cascando nel «nero desiderio» – lo aveva chiamato appunto l’Irlandese – di un abisso al quale «l’unico modo per sfuggire», spiegava invece Kafka, «è guardarlo, misurarlo, sondarlo e infine discendervi». Anche questa «disciplina del cadere», su chi legge, è irresistibile come la forza di gravità. 

 

 

[Immagine: © Foto di Andrea Torres Balaguer].

 

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