di Edoardo Camassa

 

[Esce oggi per Quodlibet Quando la logica va in vacanza. Sulle fallacie comiche in letteratura di Edoardo Camassa. Ne pubblichiamo un estratto per gentile concessione dell’autore]

 

Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico. In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].

 

Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati – il De sophisticis elenchis di Aristotele – e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.

 

[…]

 

Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.

 

[…]

 

Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].

 

È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.

 

Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio – mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata – non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.

 

Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono – un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti – «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].

 

Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.

 

 

[1] Cfr. Copi 1961, 52.

[2] Per ulteriori esempi cfr. Cattani 2011, Curtis s.d. e Vidali s.d.

[3] Cfr. Aristotele 2007, 13.

[4] Cfr. Freud 1972, 96.

[5] Orlando 1990, 150. Ma si veda anche Brugnolo 2009, 135-138.

[6] In tema di paradossalità e di paradossi, va detto che questi ultimi non coincidono con le fallacie, benché tra gli uni e le altre ci siano vari punti di contatto. L’esempio di Wilde, che affronteremo tra poco, illustra molto bene che alcuni paradossi si presentano sotto forma di fallacie logiche e che le fallacie comiche in un certo senso perseguono intenti affini a quelli del paradosso (cioè indurci a riconsiderare le verità date per certe). Ad ogni modo, se la fallacia indica un errore nascosto all’interno dell’argomentazione, il paradosso svela invece le pecche latenti in ciò che sta al di fuori del paradosso stesso (le conoscenze acquisite). Il paradosso è infatti un’affermazione – all’apparenza non per forza dimostrativa – che stride col senso comune o paralizza la logica consueta; meglio: è un enunciato, in sé perfettamente valido, che contraddice la logica prevalente e il senso comune. Due esempi, di cui uno di ascendenza filosofica e l’altro di derivazione letteraria, chiariranno meglio quel che intendo. Prendiamo il celebre ‘paradosso del mentitore’: «“Sto mentendo”. Questa frase è vera o falsa?». Da un punto di vista logico, l’enunciato non è fallace: piuttosto ci pone davanti a una situazione di stallo, in cui la scelta di una qualsiasi risposta tra quelle disponibili farà sì che il linguaggio e il metalinguaggio vadano in cortocircuito – se è vero che sto mentendo, «Sto mentendo» deve essere falso; e viceversa, se è falso che sto mentendo, «Sto mentendo» deve essere vero. Un discorso in certa misura analogo può esser fatto per le trovate, stranianti e al tempo stesso illuminanti, che costellano l’opera di Chesterton, non a caso soprannominato “re dei paradossi”. Ne scelgo una tra le tante da The Secret Garden (1910), in parte parafrasandola. Padre Brown sta indagando su due casi di decapitazione. Ed ecco che, a un certo punto, un personaggio afferma: «Questa è una di quelle occasioni in cui non si può proprio dire che “Due teste sono meglio di una”». È evidente che questo discorso non ha in sé nulla di sbagliato, di illogico, e che il suo scopo è soprattutto quello di restituire vigore a un cliché usurato, mostrandolo sotto una nuova luce.

[7] «The only way to get rid of a temptation is to yield to it» (Wilde 2006, 19). Le traduzioni dei testi letterari, se non diversamente specificato, sono dell’autore.

[8] Ibid. Si noti che anche in questo secondo segmento testuale è presente una fallacia logica (cui si affianca un lampante gioco di parole): l’argumentum ad consequentiam nella sua forma negativa, che consiste nel sostenere che un qualcosa è sbagliato solo perché dà luogo a conseguenze appunto negative.

[9] Freud 1967, 548.

[10] Matte Blanco 2000, 65.

[11] D’Angeli, Paduano 1999, 16-17.

1 thought on “Quando la logica va in vacanza

  1. LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA. E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri…

    SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [….]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?

    Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia” ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4030), come da lezione di Dante ?! O no?!

    Federico La Sala

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