di Anne Carson

 

[Esce oggi per i tipi di Utopia il saggio Economia dell’imperduto di Anne Carson, con uno scritto di Antonella Anedda, nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli. Per gentile concessione dell’editore, anticipiamo alcuni brani del capitolo II].

 

Visibili invisibili

 

SIMONIDE

 

Il denaro è visibile e invisibile allo stesso tempo. Una «astrazione reale», per usare le parole di Marx. Si può stringere una moneta nella mano, ma non si potrà mai toccare il suo valore. Ciò che rende il denaro «denaro» non è visibile[1]. Quando gli antichi greci parlano di denaro, gli aggettivi per «visibile» e «invisibile» ricorrono con una certa incoerenza. Il denaro, per esempio, può essere classificato come «invisibile» nel confronto con un bene immobile; come «visibile», quando si sostanzia in un deposito bancario che è parte di un’eredità[2]. Gli studiosi moderni non sono riusciti a elaborare una definizione univoca di questi termini sulla base dell’uso antico[3]. Secondo l’antropologo Louis Gernet, tale confusione è frutto di una «categoria imperfetta» creata dai greci quando cercarono di traslare le molte sfumature della condizione monetaria in una terminologia binaria. «Il problema è che il pensiero si muove in tante direzioni»[4]. E lo stesso fa il denaro. Simonide, come ricordato, ebbe occasione di osservare questi movimenti e di meditare sul loro rapporto con i fenomeni della percezione. Il poeta viveva nel periodo di intersezione tra due diversi sistemi economici. I suoi testi e le sue testimonianze evidenziano come, pensando ai concetti di visibile e invisibile, Simonide fosse consapevole di quanto imprecisa fosse la loro classificazione e che nutrisse un certo interesse (condizionato forse dall’esperienza economica) nel valutarli[5]. Questo interesse si manifesta soprattutto nelle sue dichiarazioni su cosa sia la poesia e su come operi. Simonide sembra credere che il mondo visibile e quello invisibile si trovino fianco a fianco, al punto da risultare intercambiabili. Quale dei due si osservi, dipende unicamente dall’osservatore. Non c’è soluzione di continuità.

 

ICONOLOGIA

 

Simonide è un autentico critico letterario della cultura occidentale, perché è il primo nella tradizione testuale a noi pervenuta che abbia elaborato una teoria sulla natura e sulla funzione della poesia. L’assunto fondante della sua teoria è molto noto, anche se sembra essere più celebrato che realmente compreso. «Simonide dice che la pittura è poesia muta e che la poesia è invece pittura che parla», scrive Plutarco[6]. Cosa intendeva dire Simonide? Perché il poeta ha scelto di inaugurare la critica letteraria portando la propria arte verbale nel terreno della pittura?

 

È vero che Simonide era un poeta altamente pittorico e che impiegava termini di carattere cromatico più di qualsiasi altro scrittore del suo tempo. Perfino Longino si congratulò con lui per la sua cifra immaginifica (εἰδωλοποίησε). Le sue poesie sono giustamente descritte come tele in miniatura dove ogni parola è una sapiente pennellata di colore, meticolosamente posizionata sulla pagina. In vita sembra che Simonide abbia goduto della compagnia e del mecenatismo dei pittori, come compositore di iscrizioni identificative per opere d’arte in pubblica mostra, tra le quali la sensazionale Ilioupersis dipinta a Delfi da Polignoto di Taso. Forse è stata questa collaborazione a ispirargli una formulazione in termini iconologici della propria filosofia estetica, nel famoso frammento:

 

« λόγος τῶν πραγμάτων εἰκών ἐστιν».

 

«The word is a picture of things».

 

«La parola è un’immagine delle cose».

 

In ogni caso Simonide forse intuì di avere qualcosa da imparare dai pittori o da ciò che le persone ai suoi tempi dicevano e pensavano della pittura. Proviamo quindi a considerare di cosa poteva trattarsi.

Indiscutibilmente Simonide visse in un’epoca in cui nessun uomo di pensiero avrebbe potuto ignorare ciò che stava accadendo nel mondo della pittura. Come racconta Plinio, in quel periodo «l’arte della pittura si è distinta da tutte le altre»[7]. Il quinto secolo a.C. vide un pugno di artisti greci rivoluzionare completamente le precedenti concezioni in campo pittorico, in un modo che si rivelò decisivo non solo per l’arte greca ma, nei secoli successivi, per l’intera pittura europea. Polignoto e la generazione di pittori che lo seguì presero come punto di riferimento il piano pittorico bidimensionale dello stile arcaico e svilupparono una nuova tecnica per la rappresentazione della realtà tridimensionale. Con l’invenzione dello scorcio, della prospettiva lineare, della miscelazione e della gradazione delle sfumature, della sovrapposizione di strati di colore e di superfici pittoriche, nonché di varie tipologie di aggiustamenti nelle proporzioni ai fini dell’illusione ottica, questi pittori hanno trasformato la superficie piana in un mondo di miraggi in cui gli oggetti si muovono nello spazio[8]. Questi pittori hanno prodotto un corpus di dati tecnici fondato su un parallelismo tra pittura e letteratura, che è ancora oggi il paradigma del nostro discorso sull’arte. Dopo la rivoluzione di Polignoto, i pittori non furono più semplici decoratori di superfici ma illusionisti in grado di evocare la realtà davanti agli occhi dello spettatore.

 

APATĒ

 

La nuova scienza della rappresentazione tridimensionale generò onde d’urto che si fecero sentire ben oltre il pennello di Polignoto. «La pittura è filosofia», diceva Leonardo da Vinci, che apparteneva a una cultura pienamente fiduciosa nel potere del pittore e nella sua capacità di trascrivere la realtà[9]. Ma la cultura greca antica ha risposto piuttosto diversamente allo sviluppo dell’illusionismo nell’arte. Ne troviamo un indice nella veemenza con cui Platone denuncia, nei suoi dialoghi, pittori e pittura. Per Platone, la pittura non è filosofia ma sofisma, una forma d’arte votata a sostituire la vita con ciò che è simile alla vita e la verità con ciò che è simile alla verità. «Creano fantasmi, non realtà» («φαντάσματα οὐκ ὄντ­α»), sostiene il filosofo nel dialogo La Repubblica, comparando i pittori ai sofisti, esperti di una «arte fantasmatica» («φανταστικὴ τέχνη»)[10] il cui prodotto è «una sorta di sogno creato dall’uomo per chi è sveglio». La polemica platonica non è indirizzata tanto alla pittura quanto all’uso di qualsiasi mezzo rappresentativo volto a defraudare la realtà. In virtù del suo potere ingannatore, secondo Platone, la pittura è analoga alla retorica sofistica e anche all’arte della poesia mimetica: queste tre tecniche illusionistiche godono di una comune capacità di ingannare, dissimulare e ammaliare. Il termine che nel discorso critico del quinto secolo venne usato per descrivere questa facoltà era ἀπάτη (apatē): «inganno», «illusione», «imbroglio». La ricerca e il perfezionamento dell’ἀπάτη (apatē), l’arte dell’inganno, era una caratteristica esplicita della teoria estetica sofistica, sia visiva che retorica.

 

«Il miglior pittore o il miglior poeta è colui che più inganna», scrive l’anonimo sofista che ha composto i Dissòi lógoi[11] e, come riporta Gorgia, «la parola (λόγος) che ti inganna è più giusta di quella che non lo fa». Che quell’inganno e quell’illusione, o ἀπάτη, siano in qualche modo inerenti al λόγος è un’intuizione risalente almeno ai tempi di Omero ed Esiodo, e i sofisti non fecero altro che svilupparla fino alla sua massima estensione logica[12]. Insegnanti come Gorgia e Protagora sostenevano che l’attività propria delle parole non fosse descrivere ma ingannare ed eressero su questa base un’acuta filosofia del linguaggio insieme a redditizi corsi di istruzione, autopromuovendosi come i successori didattici degli antichi poeti[13]. Platone deplorava tale professione per la stessa ragione per cui deplorò la poesia, a partire da Omero: essa infatti emancipava le parole da ogni obbligo verso la realtà. Il «λόγος è padrone di se stesso, un grande δυνάστης» («tiranno» o «mercante di potere») capace di «rendere ogni cosa sua schiava». Così almeno sostiene Gorgia. Resta da verificare se un antico poeta avrebbe avallato questa riflessione sul funzionamento delle parole e sulla loro tirannia.

 

A metà strada tra Polignoto e Protagora, Simonide era nella giusta posizione per apprezzare l’impatto dell’illusionismo, sia visivo che verbale, sull’immaginario popolare greco. Sebbene fosse più vecchio dei primi sofisti, Simonide anticipò le loro preoccupazioni intellettuali in modo così accurato da essere designato come un «protosofista» da parte dei critici sia antichi che moderni[14]. Inoltre, Simonide è stato il primo, che si ricordi, a utilizzare il termine ἀπάτη nel suo senso critico e letterario di «illusione artistica»[15]. Eppure Simonide non poteva, credo, intendere con il termine ἀπάτη la stessa cosa che intendevano i sofisti, né poteva accettare la severa critica della funzione poetica implicita nella loro teoria e nella pratica del linguaggio inteso come inganno necessario[16].

 

I sofisti insegnavano un’arte della persuasione che includeva la poesia tra le numerose tecniche utili per impiantare opinioni nell’anima di un ascoltatore. La poesia, diceva Gorgia, è solo «prosa rivestita di metrica», un artefatto che si distingue in virtù del suo aspetto e non del contenuto. Gorgia negò, in generale, al λόγος il potere di penetrare le apparenze: «La bellezza dell‘invisibile non può essere espressa a parole», sostenne[17]. Come il pittore illusionista, il sofista non si interessa a nulla che non sia visibile sulla sua tela. «Alcune rappresentazioni sono migliori di altre, ma nessuna è vera», dice un giovane personaggio appartenente alla scuola di Protagora nel Teeteto di Platone. Oppure, come diceva Leonardo da Vinci: «La pittura si estende solo alla superficie dei corpi»[18]. L’illusionismo, in pittura come nel linguaggio, fu messo in discussione nel quinto secolo a.C. perché comportava un investimento totale nella superficie visibile del mondo come unica realtà possibile, e una tendenza a disconoscere alla realtà tutto ciò che non fosse visibile. I fatti sono tutto ciò che conta e i fatti sono ciò che si vede. Tra i pittori del quinto secolo, fu Zeusi a padroneggiare nel modo più sensazionale l’illusionismo. Si dice che abbia ritratto un grappolo d’uva in modo così realistico che degli uccelli volarono verso la tela per beccarla. Tra i sofisti del quinto secolo fu Protagora a formulare con maggior grazia il principio filosofico dei fatti visibili nel noto detto: «L’uomo è la misura di tutte le cose, sia delle cose che sono, per ciò che sono, sia delle cose che non sono, per ciò che non sono». È Sesto Empirico a citare questo frammento, per poi spiegarlo nei termini seguenti: «Così Protagora postula soltanto l’esistenza di ciò che è visibile a tutti e quindi introduce la relatività».

 

La relatività protagorea era un sogno dell’uomo che Simonide non avrebbe mai avallato, come chiarì definendo la poesia attraverso la sua diversità rispetto alla pittura. Perché c’è una cosa che una poesia può fare ma che un dipinto non può fare, e in un’epoca di sofismi e illusionismo era qualcosa di una portata rivoluzionaria, vale a dire, evocare l’invisibile: l’iconologia Simonidea cattura non soltanto gli uccelli e l’uva, ma anche l’avarizia della cornice che li separa. Il suo impegno è a sostegno di una realtà che trascende «ciò che è visibile a tutti». Le parole sono il suo mezzo e si posizionano in modo tale da condurre il lettore al limite, dove si fermano, puntando oltre se stesse verso qualcosa che nessun occhio può vedere e nessun pittore può dipingere. È una tecnica rappresentativa che si può meglio osservare a distanza ravvicinata. Riconsideriamo, in trascrizione letterale, la celebre frase di Simonide citata prima:

 

«Ὁ λόγος τῶν πραγμάτων εἰκών ἐστιν».

 

«The word of things a picture is».

 

«La parola delle cose un’immagine è».

 

Fedele a se stessa, l’affermazione fa esattamente quel che dice. Ci mostra «λόγος» ed «εἰκών» posti a entrambi i lati del mondo «τῶν πραγμάτων» («delle cose») in una tensione sintattica che riflette precisamente la loro ontologia. Le «cose», nel caso genitivo, dipendono per il loro significato contemporaneamente da «parola» e «immagine»: entrambi i nominativi si contendono l’attenzione del genitivo («πραγμάτων»), che è collocato così che si possa leggere in maniera speculare e tale da unire tutte e tre le parole come lo sgancio di un arco senza freccia[19]. È una costruzione in tensione e autocontrollata, ma non autosufficiente. Il verbo «ἐστιν» («è») garantisce la relazione dall’esterno, anche se in greco, in una simile frase, il verbo essere è ridondante. L’«ἐστιν» di Simonide insiste su se stesso dopo che altre parole si sono espresse come estranee alle proprie necessità. Perché? Simonide sembra voler illustrare più di quanto le parole abbiano bisogno di dire. La sua grammatica iconica traduce a parole una relazione reciproca, dinamica e più profonda della superficie visibile del linguaggio. Come un pittore che usi le parole per dipingere, Simonide richiede al suo lettore un’attenzione diversa da quella che normalmente prestiamo alle superfici verbali. È un’attenzione ben descritta dal pittore cinese Li Cheng, che scrisse un trattato nel nono secolo d.C. su come dipingere la fioritura dei susini. «Dipingere un fiore di susino è come comprare un cavallo», scrive, «ci si deve basare sulla struttura ossea, non sulle apparenze»[20]. Quando consideriamo le frasi simonidee vediamo le apparenze impegnate in una continua dialettica reciproca, grazie alla partecipazione simultanea di λόγος εἰκών. Ascoltiamo una conversazione che suona come la realtà. Nessun altro scrittore greco di quel periodo, tranne forse Eraclito, usa il linguaggio in questo modo, come un’unità «sintetica e in tensione»[21] che mette in scena la realtà di cui parla. Questa è la mimesi nel suo meccanismo più radicale. Questa è la struttura ossea dell’inganno poetico.

 

Note

 

[1] Marx (1867), v. 1, p.73 e pp. 567-568; Sohn-Rethel (1978), p. 6.

[2] Gernet (1968), pp. 343-347.

[3] «Fu la persistenza delle categorie contrapposte, non la “vera” natura degli oggetti contemplati, a determinare gli esiti della classificazione»: Cohen (1992), p. 193.

[4] Gernet (1968), p. 345.

[5] Secondo Marx: «Il denaro rappresenta il mezzo, comune e tangibile, per trasformare l’apparenza in realtà e la realtà in apparenza». Struik (1964), p. 153.

[6] McMahon (1956), pp. 11-21; Lessing (1766); McLuhan (1968); Alpers (1972); Atkins (1934); Bell (1978); Brink (1971); Burke (1757); Dorsch (1977); Du Bos (1740); Hagstrum (1958); Harriott (1969); Hazlitt (1844); Hermeren (1969); Lee (1940); Markiewicz (1987); Panofsky (1939); Schapiro (1973); Thayer (1975); Trimpi (1973); Uspensky (1972); Van Hook (1905); Wellek (1942); Wimsatt (1954); Wolfe (1975).

[7] Bruno (1977), pp. 1-30; Keuls (1978), p. 3 e pp. 58-61; Robertson (1959), pp. 111-136; Swindler (1929), pp. 196-236.

[8] Keuls (1978), pp. 2-5 e pp. 58-65; Gombrich (1968), p. 40.

[9] Holt (1957), v. 1, p. 277.

[10] Sulla relazione che Platone scorse o credette di scorgere tra poesia e sofistica: Robinson (1987), pp. 259-266.

[11] Freeman (1946), pp. 417-419; Rosenmeyer (1965), p. 234; Robinson (1987).

[12] Persino lo Zeus omerico, nell’Iliade, si riduce a un muto segno del capo quando desidera compiere una dichiarazione «che non inganni», mentre le muse di Esiodo esultano per la propria autorità sulla verità e sulla menzogna. Sul concetto di ἀπάτη: Bell (1978), pp. 81-82; Christ (1941), pp. 41-48; Detienne (1981), pp. 106-143; Heinimann (1945), pp. 39-47; Hoffman (1925); Van Groningen (1948), pp. 1-7; Luther (1935), pp. 80-92; Pohlenz (1920), p. 169; Rosenmeyer (1965), pp. 227-230; Rostagni (1922), p. 78; Snell (1926), pp. 355-369; Suss (1910), pp. 52-60; Understeiner (1949), v. 1, pp. 184-185 e v. 2, p. 68.

[13] Guthrie (1969), v. 3, pp. 42-45.

[14] Christ (1941), p. 41; Rosenmeyer (1965), p. 233; Thayer (1975), p. 10; Wilamowitz-Moellendorf (1913), p. 141.

[15] In un aneddoto (il cui tono e la cui struttura potrebbero suggerire che l’uso del termine fosse già comune) Plutarco attesta che, interrogato sul perché non si fosse dato pena di «ingannare i tessali», Simonide rispose: «I tessali sono troppo stolti per farsi ingannare da me». Si dovrà notare, ma non concedere, una diversa interpretazione, secondo la quale questa risposta era troppo arguta per Simonide e che vada invece attribuita a Gorgia: Wilamowitz (1913), p. 143.

[16] Sulla valutazione dei sofisti sulla poesia: Gomme (1954), pp. 55-78; Jaeger (1945), v. 1, p. 296; Pohlenz (1920), pp. 162-163 e p. 178; Webster (1939), p. 171; Woodbury (1953), p. 137.

[17] Un simile pensiero non sembra in alcun modo estraneo a un intellettuale del quinto secolo come Gorgia, ma l’attribuzione è contestata: Freeman (1946), p. 366.

[18] McMhon (1956), p. 90.

[19] Quella dell’arco scarico è una figura introdotta da un contemporaneo di Simonide, il filosofo Eraclito. G.S. Kirk interpreta l’arco eracliteo come «una connessione che opera simultaneamente in direzioni opposte e che può essere mantenuta fin quando ogni tensione bilancia esattamente l’altra». Non c’è alcuna prova del contatto tra i due pensatori, e non intendo sottintendere che Simonide abbia studiato Eraclito. Tuttavia non si può non meravigliarsi per la loro similarità in termini tecnici e metafisici.

[20] Sullivan (1980), p. 33.

[21] Rosenmeyer (1965), p. 229. Sulla frase di Eraclito: Hoffman (1925); Robinson (1987), p. 261; Snell (1926), pp. 368-370.

1 thought on “Economia dell’imperduto

  1. “Simonide fu il più prolifico autore di epitaffi del mondo antico e stabili le convenzioni del genere. La vendita di compassione contribuì materialmente alla sua fortuna e divenne inseparabile dal suo nome. Troviamo ‘lacrime di Simonide’ (lacrimis Simonideis) usato come sinonimo per l’arte poetica del lamento presso il poeta romano Catullo. Leggiamo antichi scoliasti elogiare le speciali qualità di ‘compassione’ e ‘pathos’ che distinguevano il verso di Simonide. Cosa riceveva in cambio del denaro la gente in lutto che comprava lacrime da Simonide?”

    Anne Carson, Economy of the Unlost. (Reading Simonides of Keos with Paul Celan), Princeton University Press, Princeton, 1999 p. 73

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