di Bernardo De Luca

 

[E’ appena uscito il numero 23 de «L’Ulisse – rivista di poesia, arti e scritture» diretta da Italo Testa e Stefano Salvi. La rivista è scaricabile gratuitamente qui. Il numero è dedicato al tema “Metamorfosi dell’antico”. Pubblichiamo qui il saggio di Bernardo De Luca]

 

 

Il mediatore

 

Il poema Tiresia di Giuliano Mesa è stato scritto tra il 22 luglio 2000 e il 24 gennaio 2001; sin dal titolo, appare evidente l’elezione a protagonista dell’opera di un celebre personaggio della mitologia greca, sul modello della tragedia attica antica(1). Scegliere un personaggio mitico come oggetto della propria creazione artistica significa non solo inscriversi in una tradizione, ma anche modificarla e plasmarla a partire dal presente. Si tratta di un processo che ha da sempre caratterizzato le arti in generale, e la letteratura in particolare. La selezione di un mito, la sua riscrittura e la sua attualizzazione non sono mai operazioni neutre: piuttosto, comportano una rilettura dei racconti del passato finalizzata al disvelamento di nodi irrisolti di un’intera storia culturale. Anche la più fedele e filologica ripresentazione di un mito implica una sua reinterpretazione: al mutare della cornice e del contesto corrisponde un differente effetto, dunque l’indicazione di nuovi possibili sensi che il mythos veicola.

Nel Novecento numerosi sono gli esempi di riscritture mitiche. Sarebbe qui impossibile proporne anche un minimo regesto. Riprendendo la categoria di palinsesto coniata da Genette(2), potremmo dire che nell’età contemporanea il mito è stata una delle principali tracce, esplicite o nascoste, per la creazione di una relazione fertile con il mondo antico, lontana ormai da qualsiasi nostalgia apollinea di stampo classicista. Una relazione che tenta di recuperare il sapere narrativo antico: la possibilità, cioè, di unire aspetti antropologici fondamentali alla dimensione del racconto. A tal proposito, una formulazione teorica utile per l’oggetto di questo saggio è la definizione di «metodo mitico» che Thomas Sterne Eliot adoperò per circoscrivere le procedure utilizzate da James Joyce nel suo Ulysses. Associando questa formulazione alle indicazioni del celebre saggio Tradizione e talento individuale dello stesso Eliot, potremmo dire che utilizzare il mito come palinsesto è «un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea» e, al contempo, di inserirsi in una catena di narrazioni secolari, riconfigurandole grazie alla giunzione di un nuovo anello(3).

Come suggerito da Paolo Zublena, l’opera di Giuliano Mesa (in particolare l’ultima stagione che va dai Quattro quaderni a nun) può essere interpretata, per strategie formali e approccio etico, come una delle ultime testimonianze della poetica modernista(4). Non a caso, il pometto Tiresia, snodo significativo della fase conclusiva dell’opera mesiana, eleva ad unico protagonista un personaggio che già nella Waste land di Eliot si imponeva come figura centripeta dell’intero poema (l’indovino tebano, appunto). La ripresa, però, sancisce un netto distacco dal profeta eliotiano dalle «mammelle avvizzite»: la nuova tessera mitica, infatti, ripensa il ruolo del cieco spettatore.

Prima di misurare questa distanza, bisogna comprendere le implicazioni che comporta la ripresentazione di un personaggio mitico, a partire dalle narrazioni più antiche: cosa significa rievocare, sulla soglia del nuovo millennio, Tiresia? Quali campi di senso fanno entrare in tensione i miti che all’indovino si associano, a partire dalla sua prima apparizione nella nekyia dell’Odissea? Il modo migliore di rispondere è proporre una radiografia del personaggio e mettere in evidenza le sue funzioni narrative all’interno dei racconti principali della mitologia classica.

Come emerge dall’analisi di Gherardo Ugolini, possiamo affermare che «dall’esame sincronico di tutte le varianti del mito di Tiresia [è] ricavabile un nucleo centrale organizzato attorno ad una serie di opposizioni antropologico-culturali, rispetto alle quali il più celebre mantis della mitologia greca svolge, nella forma delle metamorfosi sessuali e del meccanismo di trasgressione-punizione-ricompensa, una funzione simbolica ambigua di trasgressore e di mediatore»(5).

Attraverso l’analisi delle fonti, che sembrano rispondere a una precisa strategia di costituzione del personaggio, vedremo a breve quali opposizioni sembra privilegiare Mesa e, dunque, fra quali funzioni antropologiche è chiamato a mediare il suo Tiresia. Ora, però, proviamo a fornirne un breve regesto sulla scorta dell’analisi strutturale di Luc Brisson, ripresa da Ugolini(6).

La prima opposizione è quella tra sesso maschile e sesso femminile. Si tratta di un’opposizione fondata sulla trasformazione di Tiresia in donna e poi nuovamente in uomo. La metamorfosi funge da premessa al suo accecamento, quando viene interpellato da Era e Zeus in una diatriba sul maggior piacere sessuale tra i due sessi, in virtù della sua doppia esperienza. Alla risposta di Tiresia che conferma il parere di Zeus, ovvero che le donne avrebbero il maggior piacere, Era reagisce con rabbia, accecando il testimone chiamato in causa. Per rimediare a quest’azione, Zeus gli dona invece le facoltà divinatorie. Quest’opposizione è la principale nelle riprese moderne del mito; nella Waste land eliotiana il personaggio, sin dalle prime battute in cui appare, viene descritto come un ermafrodito. La stessa scena di cui è spettatore riguarda un atto sessuale, in cui però è rovesciato il rapporto di piacere rispetto al mito classico: la donna non prova alcun piacere, ma anzi subisce la fisicità maschile come una prevaricazione. Nel Tiresia di Giuliano Mesa, invece, questa opposizione è minoritaria rispetto alle altre, e sembra essere pertinente in un’unica porzione testuale. Il motivo è una differente selezione delle varianti mitologiche: l’autore si ricollega ad un diverso racconto dell’origine delle facoltà divinatorie e dell’accecamento di Tiresia, che trova la sua più completa narrazione nell’inno V di Callimaco (Per i lavacri di Pallade) e che non contempla la trasformazione in entrambi i sessi.

La seconda opposizione è tra umano e divino. Che il dono della divinazione sia da attribuire a Zeus o ad Atena, a seconda della variante mitica che si predilige, è indifferente rispetto a questa tipologia di opposizione. Il mantis tebano è sempre legato ai due mondi, grazie alla sua capacità di emettere vaticini o di leggere i segni divini. La techne mantica gli concede il privilegio di essere in contatto con il volere degli dei. Ovviamente, nella ripresa moderna del mito, l’aspetto religioso subirà profondi ripensamenti o assumerà valenze allegoriche non presenti nel mito classico. Nei prossimi paragrafi, vedremo che anche il Tiresia di Mesa subisce una trasformazione riguardo al rapporto divino/umano, e che in generale proprio il piano relazionale tra il sapere umano e quello divino sembra subire la principale metamorfosi nel passaggio alla modernità. Qui possiamo anticipare che le riscritture moderne, compresa quella mesiana, sembrano accentuare una caratteristica del profeta così come rappresentato all’interno delle opere del teatro greco del V secolo a.C.: l’impotenza dei suoi vaticini.

La terza opposizione è tra passato, presente e futuro. È connessa alla precedente, in quanto Tiresia, grazie alle sue facoltà, conosce il passato e il futuro. Inoltre, nelle diverse varianti del mito, a Tiresia è associata una longevità fuori dal comune, che gli permette di attraversare più generazioni della dinastia labdacide. Tiresia proviene egli stesso dal passato oscuro che è a fondamento del presente: un passato spesso strettamente collegato alle sciagure che si abbattono sulla città e sugli individui.

L’ultima opposizione è quella tra vita e morte. La testimonianza più antica riguardante l’indovino è la nekyia dell’Odissea. Qui Tiresia viene consultato, su consiglio di Circe, da Ulisse, affinché quest’ultimo sappia del prosieguo del suo viaggio e possa essere dunque istruito dal mantis. Interessante per l’opposizione rievocata è la presentazione di Tiresia nel libro x, precedente alla discesa nell’Ade. Circe, infatti, prima di fornire l’esatta procedura rituale, comunica a Ulisse che un altro viaggio deve compiere prima di riprendere quello per Itaca: deve recarsi alle case di Ade per chiedere il responso all’anima del Tebano Tiresia, «il cieco indovino, di cui resta salda la mente; \ a lui solo anche da morto Persefone concesse \ mente assennata; gli altri invece sono ombre che svolazzano»(7). Fra i morti, Tiresia è l’unico a preservare il nous (la capacità di comprendere, strettamente legata alla visione), grazie ancora una volta al dono di una dea, Persefone. Ciò fa dell’indovino una creatura che conserva un attributo fondamentale dell’uomo in vita, sebbene appartenga al regno dei morti. Anche nell’aldilà, dunque, Tiresia mantiene la sua natura ambigua, che si situa tra due mondi, e incarna l’opposizione tra elementi antropologico-culturali decisivi (la vita, la morte): a lui solo è concessa una facoltà che appartiene all’esistenza terrena (il nous, appunto).

Queste le principali opposizioni che la figura di Tiresia, con la sua sola presenza, convoca sulla scena. Tuttavia, bisogna aggiungere un’ulteriore opposizione da ricondurre fondamentalmente al ruolo che il personaggio svolge nella tragedia attica del V sec. a.C: quella tra polis e tiranno. Sia nelle tragedie di Sofocle, sia in quelle di Euripide, Tiresia viene sempre chiamato al confronto con il re/tiranno. Il topico dialogo sfocia poi apertamente in un litigio: i vaticini dell’indovino, detentore di una saggezza superiore a quella del re e interessato a salvaguardare la città, non vengono accettati; di conseguenza il mantis finisce per opporsi alla figura più importante della polis. Insomma, il cieco indovino mostra una verità che il re (Edipo, Creonte, Penteo) non vuol vedere.

È proprio nella tragedia greca che emergono le due funzioni fondamentali che, dal punto di vista narrativo, riveste Tiresia. La prima, decisiva, è legata alle opposizioni elencate: incarnandole, Tiresia si pone anche come mediatore tra queste opposizioni. La sua funzione è quella di presentare i mondi in comunicazione: senza di lui il passato e il futuro non sarebbero conosciuti (se non dagli dei); l’uomo sarebbe incapace di leggere i segni divini; i morti non potrebbero essere convocati da Ulisse; la città non saprebbe le cause delle sciagure che la attanagliano. Nella tradizione che vede in Tiresia una creatura che ha esperito entrambi i sessi, il mantis è mediatore di un sapere precluso agli stessi dei: tanto Era, quanto Zeus possono fare ipotesi, ma non sono in grado di fornire una risposta alla domanda se il maggior piacere sessuale spetti alla donna oppure all’uomo.

Questo potere di mediazione, però, molto spesso non viene accettato. Tiresia finisce per non appartenere a nessuno dei due mondi tra cui media. Come per Cassandra, i suoi vaticini tendono a non sortire nessun effetto in grado di evitare la catastrofe, tratto particolarmente evidente nell’Edipo re e nell’Antigone sofoclee. Persino nell’Odissea, molti critici hanno messo in evidenza come le sue predizioni, ai fini del viaggio, non abbiano un vero e proprio peso sulle dinamiche narrative. Innanzitutto, nel xii libro, Circe «potrà dare informazioni più precise di quanto faccia Tiresia»(8); poi, quando Ulisse si trova di fronte alle situazioni previste da Tiresia, o non riesce ad evitare la catastrofe (l’uccisione delle mandrie del Sole in Trinacria) oppure agisce come se non sapesse (la liberazione di Itaca dai Proci). Il mantis media e disvela, ma non può evitare concretamente che ciò che deve avvenire avvenga.

Sulla scorta di questa riflessione, possiamo però individuare una seconda funzione dell’indovino, connessa alle dinamiche narrative delle opere antiche, in particolare delle tragedie sofoclee, ma estendibile in qualche modo anche all’Odissea. È stato Hölderlin, nelle sue indagini sulle leggi meccaniche e ritmiche dell’Edipo re e dell’Antigone, ad individuare il ruolo svolto da Tiresia negli sviluppi “ritmici” delle tragedie in cui appare. Questa funzione sarebbe paragonabile «a ciò che nella metrica si chiama cesura», cioè quella pausa che fornisce un’interruzione controritmica alla rappresentazione:

Nelle due tragedie [Edipo re e Antigone] la cesura è costituita dai discorsi di Tiresia. Egli interviene nel corso del destino come custode della potenza della natura che rapisce tragicamente l’uomo alla sua sfera vitale, al centro della sua vita interiore, per portarlo in un altro mondo, trascinandolo nella sfera eccentrica dei morti.(9)

Sebbene non sortiscano effetti, cioè non comportino una mutazione delle vicende, e restino sostanzialmente inascoltate, le parole dell’indovino, con il solo essere pronunciate, rendono presente il destino di chi le ascolta. È forse in questo senso che va intesa la capacità che Hölderlin riconosce a Tiresia di trascinare l’individuo nel mondo dei morti: in un mondo, cioè, in cui tutti gli eventi individuali non possono essere che già vissuti, per quanto rifiutati. Mediatore tra i mondi, Tiresia rende compartecipe della sua stessa ambiguità i personaggi con cui entra in contatto: li rende contemporaneamente morti e vivi, gli fa conoscere il volere degli dei, li mette simultaneamente in contattato con le tre dimensioni del tempo.

Come agisce tutto ciò sull’opera allestita da Mesa? Prima di rispondere, è necessaria un’ulteriore analisi preliminare, vedere cioè quali siano le varianti e le fonti eventualmente selezionate da Mesa per il suo Tiresia.

 

Le fonti. Il sapere di Tiresia e il rito 

 

In un documento audiovisivo che funge da Videopremessa alla lettura integrale del Tiresia(10), lo stesso Giuliano Mesa legge le fonti, fino alla soglia della modernità, che dovrebbero essere propedeutiche alla sua opera(11). Di seguito, un elenco con titoli e ordine di lettura, così come vengono indicati nel video: Apollodoro, I miti Greci; Callimaco Inno v; Odissea, libro xi; Foscolo, Il rito delle Grazie, inno iii; Sofocle, Antigone.

In questa lista possiamo notare alcune particolarità. Innanzitutto, l’elenco non risponde a un ordine cronologico e nemmeno suggerisce un qualche percorso narrativo coerente (se, ad esempio, si seguissero le vicende del personaggio classico Tiresia, l’Odissea dovrebbe essere collocata in conclusione, poiché racconta la permanenza dell’indovino nell’Ade). La seconda particolarità è data dalla soglia temporale cui si arrestano le fonti: Mesa sceglie di non inserire le riletture novecentesche del mito, ma si arresta ad un poeta, Foscolo, che attraversa la frattura tra due epoche e il passaggio alla poesia moderna. Vedremo a breve cosa comporta questa scelta, ora analizziamo l’impalcatura mitologica creata da questo percorso.

Il primo testo, la Biblioteca dello pseudo-Apollodoro, risalente al II-III sec. d.C., fornisce una sintesi complessiva della biografia di Tiresia, non senza però alcuni elementi significativi(12). L’anonimo mitografo, infatti, concentra la sua attenzione sulle origini dell’accecamento del mantis tebano (e dunque delle sue facoltà divinatorie):

Vi era, a Tebe, l’indovino Tiresia figlio di Evere e della ninfa Cariclo, della stirpe di Udeo, uno degli Sparti. Era cieco: della sua cecità e della sua arte profetica si danno versioni diverse. Alcuni dicono che fu accecato dagli dei perché rivelava agli uomini cose che essi volevano tenere segrete. Ferecide afferma che fu accecato da Atena; Cariclo era molto cara ad Atena <…> <Tiresia> vide la dea completamente nuda ed essa gli mise le mani sugli occhi e lo rese cieco. Cariclo la supplicò di restituire la vista a Tiresia, ma la dea non aveva il potere di farlo: allora gli purificò le orecchie in modo che potesse intendere il linguaggio degli uccelli e gli fece dono di un bastone di legno di corniolo, con l’aiuto del quale poteva camminare come coloro che vedevano.

La prima versione raccontata dell’accecamento di Tiresia è quella condivisa con l’inno v di Callimaco. Solo successivamente, infatti, si narra invece della seconda versione (risalente alla Melampodia dello Pseudo-Esiodo), in cui è Era a punire l’indovino. Le successive vicende di Tiresia, che lo vedono coinvolto nella storia della dinastia labdacide, sono messe in secondo piano. Al di là della genealogia e delle varianti mitiche raccontate, l’anonimo autore svela un elemento del personaggio che si situa al centro delle contraddizioni del mediatore: Tiresia è colui che rivela cose che gli dei volevano tenere segrete. Se nel precedente paragrafo abbiamo visto come il sapere di Tiresia fosse insistentemente rifiutato dagli uomini, qui invece sono gli dei che non accettano la conoscenza del mantis, superando quest’ultima i limiti imposti dalla soglia che divide i due mondi. Il dato dirimente è la natura del sapere dell’indovino: le cose da lui conosciute infrangono le leggi di separazione dell’umano dal divino. È probabilmente proprio questo il percorso che Mesa sceglie per delineare la fisionomia del suo mantis: la natura del sapere di Tiresia solleva l’ira degli dei e incute il terrore negli uomini.

L’inno di Callimaco (Per i lavacri di Pallade), l’unico ad essere esplicitamente citato nel poema mesiano, dà invece una seconda direttiva al percorso tra le fonti, preziosa per la comprensione delle strategie d’enunciazione e per la struttura dell’opera di Mesa. Oltre ad essere infatti il componimento antico più esaustivo per la narrazione dell’accecamento per mano di Atena (quando il giovane cacciatore Tiresia, seppur involontariamente, vede il corpo nudo della dea bagnarsi in una fonte), l’inno del poeta di Cirene imbastisce una struttura del tutto peculiare per narrare la vicenda dell’indovino. Per i lavacri di Pallade, infatti, narra la storia di Tiresia fingendo un’occasione precisa: «una festa in onore di Atena ad Argo». Durante le celebrazioni, «la statua della dea è condotta in processione rituale fino al fiume Inaco, dove viene spogliata, lavata, unta e rivestita»(13). La voce del poeta si rivolge direttamente alle donne addette al lavacro della statua e ai partecipanti al rito; la connessione con la punizione di Tiresia è data dal divieto per gli abitanti di Argo di guardare il momento del lavacro nel fiume. Questa impalcatura viene in qualche modo ripresa nelle maglie della struttura poematica del Tiresia: nel prossimo paragrafo, vedremo che una delle due tipologie di componimenti in cui si distribuisce il poema è ispirata da una dimensione rituale.

Ugualmente, il libro xi dell’Odissea richiama sia la natura del sapere di Tiresia sia la dimensione rituale del personaggio. Se nel precedente paragrafo abbiamo già rievocato l’importanza della nekyia omerica per la fisionomia di mediatore tra due mondi (morte/vita) di Tiresia, concentriamoci qui sul secondo aspetto, quello rituale. L’inno di Callimaco viene utilizzato da Mesa, per così dire, ai fini della costruzione macrotestuale del poema; la nekyia, invece, specifica la natura ctonia del personaggio (nell’episodio omerico, come detto in precedenza, è connesso a Persefone) e il suo essere innanzitutto un rievocatore di morti. Se la finzione è quella rituale, oggetto del rito è il dialogo con, e la meditazione su, le anime dei morti. Dalle pitture della tomba etrusca dell’Orco (IV sec. a.C.), in cui Tiresia è raffigurato velato e affianco a un albero di anime svolazzanti, all’Edipo di Seneca, nel quale Tiresia rievoca (insieme alla figlia Manto) l’anima di Laio, un ramo della tradizione mitologica riconosce nell’indovino un vero e proprio necromante. Il Tiresia di Mesa è innanzitutto in contatto coi morti.

L’unica fonte moderna citata è una sezione dell’incompiuto inno iii alle Grazie di Ugo Foscolo. Anche questa relazione sembra da leggersi alla luce della dimensione rituale rifunzionalizzata da Mesa. Non a caso, la scelta ricade su di un poeta e un’epoca che portano la ferità del passaggio alla modernità, quando la poesia stessa perde definitivamente una caratteristica che ancora connotava le sue forme: quella di essere prima di tutto un codice nel quale una comunità, per quanto ristretta e in absentia, si riconosceva. Proprio le Grazie foscoliane rappresentano il canto del cigno di questa prospettiva. Come sostenuto da Matteo Palumbo, «l’ara, che programmaticamente il poeta intende innalzare alle tre Dee sulla collina di Bellosguardo, è il simbolo trasparente di una poesia che si presenta come un rito»(14). Se, dunque, il brano foscoliano citato da Mesa, dal punto di vista degli argomenti narrati, si presenta come una riscrittura dell’inno callimacheo (anche qui, infatti, viene narrata la visione della dea Atena nuda e quindi l’accecamento di Tiresia), non possiamo tuttavia non prendere in considerazione come, sin dal riferimento nella Videopremessa, il brano venga rievocato in quanto propedeutico alla messa in atto del Rito delle Grazie. Rito in cui si celebravano le tre divinità portatrici, vichianamente, degli strumenti e degli affetti che emancipano l’uomo dallo stato ferino: «quanto più la storia si offre come uno spettacolo tragico, tanto più necessaria è per Foscolo una lirica sublime, che mostri agli uomini le leggi imprescindibili del loro vivere civile»(15). La dimensione rituale ripercorsa da Mesa, grazie alla selezione delle fonti, sembra dunque sfociare inevitabilmente in una meditazione sul ruolo che la poesia assume nello scontro tra gli strumenti della civiltà e la tragicità della storia.

L’ultima tappa di questo percorso tra le fonti mesiane si conclude con Sofocle, in particolare con l’Antigone. Nonostante Tiresia appaia anche in due opere di Euripide (Le baccanti e Le fenicie), Mesa si sofferma sulle tragedie sofoclee. Uso il plurale perché, se l’indicazione nella Videopremessa cade unicamente sull’Antigone, non è possibile, a mio giudizio, non tenere in considerazione anche l’Edipo re. Qui, infatti, in maniera trasparente vengono poste le basi per comprendere la natura del “sapere” che la figura dell’indovino mette in campo, soprattutto in opposizione al sapere di cui è portatore il re tebano; un’opposizione che sfocia poi in uno scontro aperto tra i due personaggi sulla scena. La prima direttiva sulla tipologia di sapere che veicola la presenza di Tiresia, di cui abbiamo parlato ad inizio paragrafo, trova la sua più felice rappresentazione proprio nell’Edipo re.

Diversi critici hanno messo in luce da tempo come il confronto tra Tiresia ed Edipo sia una concreta messa in scena del passaggio da una tipologia di conoscenza a un’altra nella Grecia tra età arcaica ed età classica(16). Edipo sarebbe infatti il primo a fondare la sua conoscenza attraverso l’utilizzo di un paradigma indiziario. Saputo il parere dell’oracolo di Delfi, il re si muove sulla scena come un vero e proprio detective ante-litteram alla ricerca dell’assassino di Laio, per allontanarlo da Tebe e liberare dunque la città dalla peste che l’attanaglia. Edipo cerca indizi e prove, tenta di risalire a fatti concreti, applica un procedimento razionale che già una volta si era dimostrato capace di fronteggiare una creatura prodigiosa, la Sfinge. È lo stesso Edipo a rivendicarlo: «E proprio io, Edipo, io che nulla sapevo, appena giunto ammutolii la Sfinge con la forza della mia intelligenza, senza nulla avere appreso dal volo degli uccelli»(17). La battuta appartiene alla scena che vede fronteggiarsi l’indovino e il re, attraverso un dialogo serrato e duro. Come visto, Edipo oppone un sapere razionale, umano, ad un sapere mantico, che utilizza gli uccelli, creature più vicine agli dei, per conoscere la verità.

L’opposizione tra queste due tipologie di sapienze è stata descritta da Marcel Detienne nel suo celebre saggio dedicato ai Maestri di verità(18). Da un lato, la doxa, che applica procedure razionali per comprendere il mondo che ha di fronte, dall’altro, l’aletheia, frutto di un sapere ispirato. Tiresia appartiene al mondo dell’aletheia, che – secondo Detienne – nella Grecia arcaica si identificava con tre tipologie di uomini: il poeta ispirato, l’indovino profeta e il re di giustizia. «Ho la forza della verità», risponde Tiresia a Edipo quando questi prova a minacciarlo. Nonostante sia il mantis ad essere cieco, il re in realtà si nutre «di una notte senza fine». Secondo Hölderlin, come detto, lo scontro tra i due personaggi rappresenta la cesura della tragedia, dopo la quale il destino precipita verso il suo compimento. Ma la scena è anche l’acme del percorso che porta il sapere razionale, incarnato da Edipo, verso il suo inevitabile fallimento.

Nell’Antigone, precedente per cronologia all’Edipo re, abbiamo la possibilità di vedere il mantis in azione. Anche qui, Tiresia viene convocato in scena per fronteggiare il re, Creonte. L’indovino racconta i segni che ha letto: «stavo seduto sul mio antico seggio augurale, là dove come a un porto arrivano tutti gli uccelli, allorché udii uno strano schiamazzo: starnazzavano con furia cieca e selvaggia, e capii, dal rombo delle ali, che si aggredivano con gli artigli, dilaniandosi a sangue»(19). Poi, prova ad ardere le vittime sul braciere, ma il rito si mostra «indecifrabile», perché «il fuoco non si sprigionava: anzi il grasso delle cosce colava sulle ceneri, mandava fumo e schizzava; la bile svaporava in aria e i femori gocciolanti sporgevano dall’adipe che prima li avvolgeva». I presagi, per Tiresia, sono chiari: «la città è malata». Il cadavere di Policine giace insepolto, non si può «uccidere nuovamente un morto». L’aletheia, lo svelamento della verità, non evita che la sciagura si abbatta su Creonte, ma Tiresia mostra che «le leggi non scritte» a cui si appella Antigone sono state effettivamente infrante.

Il percorso tra le fonti del poemetto di Mesa si conclude proprio con l’Antigone. Ora, quindi, è possibile delineare con precisione il profilo del mantis che l’autore ricostruisce attraverso, prevalentemente, la tradizione classica, ad esclusione del brano foscoliano. Possiamo distinguere le caratteristiche salienti del Tiresia mesiano in tre specificità: l’indovino è innanzitutto un personaggio che detiene una sapienza diversa dalla ragione positiva; questa sapienza si concretizza in una dimensione rituale; il rito è finalizzato alla connessione tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Ricapitolando: se l’inno callimacheo e quello foscoliano alludono alle procedure rituali di cui si informa il poemetto, l’Odissea e l’Antigone convocano i protagonisti del dialogo con l’indovino, i morti. Il primo aspetto si fa portatore di una visione ampia dei processi di civiltà: fondamento della convivenza umana non dovrebbero essere le relazioni basate sulla ragione strumentale, quanto piuttosto istituzioni e affetti pietosi, in senso etimologico, che mediano tra gli individui di una comunità. Il secondo, invece, mostra il più empio degli atti che si verifica in una comunità: l’offesa dei morti, che – in un contesto pienamente immanente – si ripercuote sulla comunità dei vivi, decretando il fallimento, da un lato, delle istituzioni e degli affetti prima rievocati, e dall’altro, dello strumento principale della specie umana, la razionalità.

 

Oracoli, riflessi

 

Oltre all’indicazione della forbice temporale di scrittura, il sottotitolo del Tiresia esplicita anche le due tipologie testuali di cui è costituito il poema: oracoli e riflessi. Abbiamo, rispettivamente, cinque oracoli, scanditi attraverso una numerazione romana, e sei riflessi, con numerazione araba. La successione dei componimenti è la seguente: due oracoli, tre riflessi, due oracoli, tre riflessi, un oracolo e infine un componimento in corsivo, che sembra essere estraneo alle due tipologie, ma che evidentemente si presenta con la funzione di epilogo. Ogni oracolo è chiuso da un monostico, staccato dunque dal corpo del componimento, anch’esso in corsivo. Un’epigrafe apre l’intero poema: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapito». Chiude l’opera una serie di note esplicative dell’autore, dedicate all’illustrazione degli eventi narrati negli oracoli(20).

Ogni oracolo, infatti, presenta un titolo in cui una pratica mantica antica è associata a un evento di cronaca contemporanea. Nel primo, ornitomanzia (la divinazione attraverso il volo degli uccelli), si descrive la frana di una discarica di Manila (luglio 2000), in cui vengono uccisi centinaia di abitanti della baraccopoli di Sitio Pangako. Il secondo, piromanzia (divinazione per mezzo del fuoco), si ricollega ad un incendio di una fabbrica di bambole in Thailandia (marzo 1993), nel quale cinquecento delle quattromila operaie, molte delle quali minorenni, perdono la vita. Oggetto della iatromanzia (pratica sciamanica e medica), terzo degli oracoli, sono gli esperimenti nucleari condotti sulla popolazione civile statunitense nell’ambito del Manhattan Project. Il quarto oracolo, che riprende la divinazione attraverso il sogno (oniromanzia), denuncia l’espianto di organi da corpi vivi di bambini e il loro commercio, praticato a metà degli anni Novanta tra Brasile e Stati Uniti; affiancato al titolo, un verso nell’originale greco tratto dall’inno v di Callimaco: «e la notte prese gli occhi del fanciullo», attraverso il quale Mesa risemantizza l’accecamento del giovane Tiresia. L’ultimo, necromanzia (l’evocazione dei morti), descrive uno scenario di fosse comuni; nel titolo appaiono un termine in greco antico (oi ataphoi), che significa «morti senza tomba», e uno in tedesco (Massengräben), «fossa comune».

Ma perché oracoli? La scelta della tipologia di arte mantica è già un dato importante per la comprensione della metamorfosi dell’indovino: essa, infatti, descrive la natura dell’evento narrato, non il rito. In quest’opera, Tiresia non compie delle profezie sul futuro, non vaticina. L’indovino conosce, ma sarebbe forse meglio dire osserva, il passato. Da questo punto di vista, il mantis di Mesa è molto simile a quello dell’Edipo re: nella tragedia, infatti, Tiresia si limita a svelare ciò che Edipo non conosce, cioè il suo passato. Dunque, la scelta di indicare come oracoli i testi suggerisce, da un lato, il rispetto della terminologia antica (essendo l’oracolo un responso che può riguardare anche il passato), dall’altro, lo sforzo a cui sono chiamate le personae del poema e con esse il lettore: il riconoscimento, evidentemente, di un passato di cui non si ha più memoria.

In questa direzione vanno letti i numerosi imperativi che costellano il testo degli oracoli, a partire dall’incipit del primo che si apre con un netto: «vedi», ripetuto nei versi successivi e seguito da altri imperativi («senti», «guarda», «ascoltane»). I verbi richiamano tutti la sfera dei sensi, in particolare quelli coinvolti nella pratica divinatoria dell’ornitomanzia (vista e udito). Ciò è da ricondurre alla dimensione rituale che deve attivarsi attraverso la lettura del poema. Bisogna però fare una specificazione. Qui oracolo e rito non hanno nessuna connotazione religiosa o trascendente. Sono pratiche che Mesa utilizza per due scopi connessi: in primo luogo, gli imperativi “rituali” servono per presentificare gli eventi del passato narrati; questa presentificazione, poi, istituisce una dimensione condivisa dell’evento rievocato. Se Tiresia è il primo osservatore, che rivive la scena descritta, fino ad identificarsi con le stesse vittime, è solo nella dimensione partecipativa comunitaria che il testo si adempie. Come per l’inno callimacheo, dobbiamo immaginare che il poema attivi, nel momento stesso in cui viene recitato, una cornice per la sua esecuzione. Forse, in questa dialettica tra cornice finzionale e dimensione partecipativa è leggibile anche l’originario progetto performativo a cui era destinato il poema: il testo era stato pensato come opera teatrale per musica elettronica e voce.

Se la mia lettura è corretta, allora anche lo statuto ambiguo dell’enunciazione risulterebbe più chiaro. La critica ha visto in Tiresia perlopiù una presenza silenziosa, il locutore identificandosi con i protagonisti degli eventi narrati (le vittime) oppure con una voce poetica altra da quella dell’indovino. Tiresia sarebbe solo uno spettatore e non un protagonista delle scene descritte. Tuttavia, in almeno due casi, il testo sembra trasparente e a parlare sarebbe proprio il mantis: in queste porzioni testuali appare evidente la ripresa di luoghi topici della tradizione classica.

Nell’oracolo iv, un bambino subisce l’espianto degli occhi. Contemporaneamente, a metà oracolo, il personaggio che parla dice di essere condotto da un bambino: «con le sue tibie piccole, a condurmi, / titubante, che sento l’odore del tramonto». È Tiresia il locutore in questi due versi, fotografato in una sua tipica istantanea: guidato da un fanciullo perché cieco. Nell’Edipo re e nell’Antigone è proprio in questo modo che viene descritto l’ingresso in scena dell’indovino. La conferma sarebbe data dal secondo verso citato, in cui l’arrivo del tramonto viene percepito attraverso l’olfatto e non la vista. Ma l’oracolo è utile per mostrare anche un altro processo che informa il poema: il continuo rifrangersi delle identificazioni. Il bambino vittima dell’espianto e il bambino-guida tendono continuamente a sovrapporsi e allontanarsi (e, d’altro canto, sin dal titolo si suggerisce la centralità del “fanciullo”, attraverso la citazione del verso callimacheo). Questa è, a mio avviso, una conseguenza della dialettica temporale del testo: lo spostamento e il sovrapporsi tra il presente dell’enunciazione e la presentificazione degli eventi.

Nell’oracolo v, invece, Tiresia si rivolge ad una donna («riannoda i tuoi capelli»). La figura femminile si aggira in un territorio innevato, dove giace sommersa una fossa comune, alla ricerca di un insepolto a lei caro. Sembra evidente, dunque, il riferimento all’Antigone sofoclea. Nell’incipit del componimento, la donna si limita a «chiamare» coloro che «non torneranno più, se non in sogno, insonni». Subito dopo, invece, la scena assume i tratti della nekyia omerica: «le ombre vagheranno, qui, a miriadi \ […] e porti il latte, e il miele? \ il vino dolce, la farina d’orzo?». Il rito alluso è quello che attua Ulisse nell’Ade, grazie al quale l’eroe poteva rievocare l’anima dello stesso Tiresia. Si ripresenta, di nuovo, il rifrangersi delle identificazioni, in una triplice sovrapposizione di figure: Tiresia-l’insepolto-la donna. È qui, infatti, che si consuma l’unico riferimento all’altra variante mitica, quella che fa dell’indovino una creatura che ha esperito entrambi i sessi. La donna è parte della biografia di Tiresia; quest’ultimo è locutore e allocutario contemporaneamente. Il rito rievocativo per l’insepolto, invece, era stato utilizzato innanzitutto per lo stesso mantis. Il testo presenta diverse stratificazioni di lettura, da quella narrativa letterale a quella che mobilita i palinsesti mitologici su cui si fonda. Lo statuto ambiguo dell’enunciazione è la conseguenza di due dinamiche testuali: da un lato, l’alternanza tra il presente dell’enunciazione e la presentificazione rituale dei fatti descritti; dall’altro, la flessibilità delle identificazioni tra i personaggi. Ciò non significa che l’indovino sia un muto spettatore. Piuttosto, è lui il principio che attiva la dialettica tra i tempi e i personaggi.

Se questi sono due casi circoscritti, non è difficile però estendere questa chiave di lettura agli oracoli precedenti. Nel primo oracolo, il palinsesto dell’Antigone è ben visibile in filigrana. La voce di Tiresia è come se descrivesse, nuovamente, una scena già vissuta: gli uccelli che si artigliano a vicenda, che «si avventano sul cibo», lo «sbranano, sbranandosi». Qui, come nel ii oracolo, le vittime sono descritte con un grado di oggettività maggiore, e il processo di identificazione è garantito dal racconto in presa diretta: come se l’evento dovesse ripetersi, nuovamente, ad ogni riattivazione della cornice, ad ogni lettura. Nella iatromanzia (oracolo iii), invece, si capovolge la pratica mantica indicata nel titolo: ciò che serviva per curare, diventa invece arma di omicidio. Gli esperimenti cui si fa riferimento prevedevano, nella maggior parte dei casi. l’iniezione di sostanze radioattive per testare gli effetti di elementi quali il plutonio o l’uranio. Nel testo, locutore e vittime tendono ad identificarsi, mentre gli imperativi virano qui verso il tono dell’invettiva.

Gli oracoli sono seguiti da brevi componimenti, i riflessi. Come vene linfatiche che si distribuiscono intorno agli organi pulsanti del poema, i riflessi mostrano già nella loro facies tipografica la differenza con i testi che sono chiamati a supportare. Se gli oracoli sono costituiti da versi spesso molto lunghi (raramente si scende al di sotto della misura endecasillabica) e orchestrati secondo un principio di simmetria ritmico-sintattica, i riflessi si presentano come satelliti di versicoli, spesso coincidenti con la misura di una singola parola. La concentrazione e la focalizzazione sui singoli elementi linguistici sono conseguenza del ruolo che queste liriche svolgono all’interno del poema.

La forma proposizionale che domina nei riflessi è l’interrogazione diretta. Quattro testi su sei sono aperti o chiusi dal punto interrogativo. La domanda che si pone insistente riguarda la possibilità che il linguaggio dica alcunché dell’esperienza: «a ridire che cosa?» (riflesso 1); «a chi ne darai conto?» (riflesso 2); «e dire le ultime parole? \ e quali? \ portarle via con sé? \ e dove?» (riflesso 6). Oggetto dell’interrogazione del riflesso 4, invece, è l’eventualità che qualcosa emerga alla luce, oppure diventi «ombra che ricopre l’ombra».

I restanti due riflessi, 3 e 5, assumono una forma assertiva e rappresentano delle provvisorie risposte. Nel terzo riflesso, costituito da due strofe, prima si afferma l’unità e l’omogeneità del tempo («tutto è un solo tempo»), che – in definitiva – risulta un’assenza del tempo («che non c’è \ che non c’è tempo»); poi, vi è un momento di cesura, in cui il tempo riprende a scorrere, percepito attraverso le funzioni vitali del corpo («e dopo, \ che si placa, \ quando puoi riascoltare \ il fiato che respira \ la palpebra che batte»). La conclusione della lirica è dedicata all’essere “parziali”, nel senso di incompleti, parte staccata: «come vagito,\ ripete andare, fare, \ fare parte». Condizione, quest’ultima, che rappresenta anche la risposta – e la condanna – del riflesso 5 («le parti, \ quante sono, \ per quante volte \ ognuna \ non ritorna»), nonché la premessa all’amara conclusione: «quante, \ ancora quante, \ per sapere, \ per non voler più sapere».

È qui evidente il nesso che lega i riflessi agli oracoli: come se i primi esplicitassero le dinamiche soggiacenti ai secondi. Il tempo è uno solo quando è attiva la presentificazione degli eventi narrati: la finzione del “rito” annulla la differenza tra i tempi; Tiresia è negli eventi che si descrivono (e con lui i partecipanti al rito: il performante, gli ascoltatori o i lettori). Poi, la frattura: ritornare alla divisione del tempo, essere nuovamente la parte staccata dagli altri. Una parte, però, che ora è stata messa al corrente di qualcosa che era in ombra, di qualcosa che potrebbe venire alla luce, o potrebbe essere ancora ricoperto dall’ombra. Una parte in bilico tra il «sapere» e il «non voler più sapere»; che potrebbe dire, ma non sa cosa, e a chi, o perché – viceversa – dovrebbe portare questo sapere «via con sé».

Possiamo ora meglio specificare cosa sono i riflessi. Non si tratta di semplici meditazioni o di chiusura di un soggetto su sé stesso; in tal senso, si tratterebbe piuttosto di riflessioni. I riflessi sono, invece, gli effetti degli oracoli sul soggetto, quando quest’ultimo ritorna ad essere «parte». La metafora ottica indica la traccia che le “divinazioni” imprimono sui partecipanti. Anche in questo caso, lo statuto dell’enunciazione resta ambiguo; questa volta non perché vi è un sovrapporsi di identificazioni, ma perché si è tutti, indistintamente, parti divise.

 

 

Il testimone

 

Ogni oracolo è chiuso da un monostico in corsivo, che rappresenta una transizione verso le tematiche dei riflessi. Nel primo («prova a guardare, prova a coprirti gli occhi»), si richiama la capacità di essere osservatori dei fatti narrati. Il secondo («tu se sai dire, dillo, dillo a qualcuno») è una prima tematizzazione della possibilità di restituire, in un secondo momento, l’esperienza in forma linguistica. Il monostico del terzo oracolo, invece, ingiunge a farsi custodi della conoscenza degli eventi tragici descritti («prendi questo regalo e vattene, ora, ora che sai»). Nel quarto oracolo, il verso di chiusura misura la distanza tra le vittime e l’osservatore («la luce, questa luce, non sarà mai la tua»). Infine, l’ultimo monostico allude ai riti di morte e rinascita («ancora non hai còlto il tuo narciso, e il croco già fiorisce»), attraverso la metafora floreale, tratta dall’Inno a Demetra: il narciso è il fiore che Persefone sta cogliendo quando viene rapita da Ade, mentre il croco è annuncio della rinascita primaverile(21).

I monostici e i riflessi si ripercuotono sulla fisionomia dell’indovino. Se ereditiamo dalla tradizione classica un Tiresia mantis onniscente, nel poemetto di Giuliano Mesa il personaggio non detiene più il sapere come cosa salda. Non è più, infatti, un mediatore dei tempi; l’onniscienza comporta che la cognizione del passato sia, di per sé, priva di conseguenze, essendo il futuro già conosciuto (e, d’altro canto, i vaticini del profeta – abbiamo visto – erano rifiutati o comunque non sortivano alcun effetto). Tiresia, ora, è colui che vive il passato come presente. Apre la possibilità che la memoria non sia informazione immagazzinata, ma esperienza ancora rivissuta. Tiresia è il testimone.

Come i monostici degli oracoli, anche il componimento di epilogo è in corsivo. Si tratta di un congedo da Tiresia, personaggio e opera. È diviso in due strofe, circolarmente aperto e chiuso dall’affermazione «ti lascio qui». Nella prima, il momento della separazione assume una connotazione cupa («con queste nubi cariche di pioggia») e il domani viene immaginato come un tempo in cui ci saranno «più ricordi \ da pensare». Nella seconda, il tema della rinascita, del «ricominciare», coincide con la separazione stessa. Dopo quest’ultima c’è il dolore, che diventa «nenia di conforto». Eppure, sì dà un momento in cui il sapere – l’esperienza tragica – costituisce una conoscenza condivisa, proprio perché divide ed è indicibile: «questo silenzio che sentiamo insieme, \ adesso – è adesso che sappiamo,\ in questo momento che divide».

Possiamo ora misurare la distanza dal profeta che appare nella Waste land di Eliot, da cui eravamo partiti. L’indovino eliotiano è anch’egli uno spettatore: guarda sconsolato una scena di degrado sessuale. Tuttavia, il mantis della Waste land percepisce e predice («I Tiresias, old man with wrinkled dugs \ perceived the scene, and foretold the rest»)(22): è ancora un profeta che guarda i tempi dispiegarsi al di sotto del suo sguardo. Non a caso, al verso 230 leggiamo: «And I Tiresias have foresuffered all»; l’indovino “pre-soffre” tutto, conosce già le scene di cui è osservatore. Non è così per il Tiresia di Giuliano Mesa: qui il testimone rende presente e vive il passato. Se, in Eliot, il personaggio giudica il degrado che vede, in Mesa sente il dolore della vittima. Il primo guarda salvaguardando la verticalità del suo ruolo; il secondo è nell’orizzontalità del tragico(23).

È chiaro perché, allora, le rispettive epigrafi dei poemi rappresentano l’una il rovescio dell’altra: il passo tratto dal Satyricon di Petronio, in cui la Sibilla – specchio di Tiresia – esprime il desiderio di voler morire, va letto come l’incapacità della profetessa di pre-soffrire e giudicare, nuovamente, tutto. Nell’ingiunzione mesiana, invece, leggiamo il dovere che il testimone – a suo discapito – assume: tenersi in vita. Il “rito” – la poesia – si chiude circolarmente nel principio. Il dovere del testimone è il dovere della poesia. Possiamo ancora indicare l’indovino come «un maestro di verità», a patto che intendiamo quest’ultima non come una verità ontologica, dei fatti, ma come una verità della relazione: quella che Mesa stesso definiva una «verità etica»(24).

 

Note.

(1) La forbice temporale di scrittura è indicata nel sottotitolo del poemetto. L’opera è leggibile in G. Mesa, Poesie 1973-2008, Roma, La Camera Verde, 2010, pp. 343-58. Tutte le citazioni sono tratte da questo volume.

(2) G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997.

(3) T. S. Eliot, ‘Ulysses’, ordine e mito e Tradizione e talento individuale, in Id., Opere. 1904.1939, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, rispettivamente alle pp. 642-46 e 392-402.

(4) P. Zublena, Il suono della fine, in «Alfalibri», n. 5, 7 ottobre 2011, p. 11.

(5) G. Ugolini, Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», n. 27, 1991, pp. 9-36, a p. 9.

(6) L. Brisson, Le mythe de Tirésias: essai d’analyse structurale, Leiden, Brill, 1976; Ugolini, Tiresia e i sovrani di Tebe, cit., p. 10-11. Per una disamina in generale del mito di Tiresia nella storia letteraria occidentale, dall’antichità al Novecento, rinvio a E. Di Rocco, Io Tiresia. Metamorfosi di un profeta, Roma, Editori Riuniti, 2007.

(7) Cito da Omero, Odissea, a cura di V. Di Benedetto, Rizzoli, 2010, p. 584-85.

(8) Omero, Odissea, a cura di M. G. Ciani, commento di E. Avezzù, Venezia, Marsilio, 2000, p. 331.

(9) F. Hölderlin, Sul tragico, a cura di R. Bodei, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 95-96.

(10) Videopremessa alla lettura integrale del ‘Tiresia’, regia di F. Orecchini, voce narrante di G. Mesa, riprese F. Orecchini, M. Vitale, A. Dionisi, montaggio M. Vitale. Il video è visibile a questo indirizzo: https://giulianomesa.wordpress.com/video/.

(11) Un primo regesto delle possibili fonti greche del poema è leggibile in E. Persinotto, L’enciclopedia greca del Tiresia di Giuliano Mesa, in «Diacritica», a. ii fasc. 5, 2016, pp. 42-68.

(12) Vd. Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, traduzione di M. G. Ciani, Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori, pp. 227-29 (iii, 6).

(13) Cito dal commento all’inno di Alessandro Borgogno. Vd. Callimaco, Inni agli dèi. Seguiti da un frammento papiraceo dell’‘Aconzio e Cidippe’, a cura di A. Borgogno, Roma, Aracne, 2019, p. 121. Per un’analisi esaustiva del componimento vd. Callimachus, The Fifth Hymn, edited with introduction and commentary by A.W. Bulloch, Cambridge, Cambridge University Press, 1985.

(14) M. Palumbo, Foscolo e l’idea della lirica, in U. Foscolo, Poesie, a cura di M. Palumbo, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 5-30, a p. 24.

(15) Ivi, p. 30.

(16) Mi limito qui a citare G. Ugolini, L’Edipo tragico sofocleo e il problema del conoscere, in «Philologus», n. cxxxi 1987, fasc. 1, pp. 19-31; M. Bettini, Il detective è un re: anzi, un dio. A proposito dell’Edipo re di Sofocle, in M. Bettini, Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Torino, Einaudi, 2000.

(17) Cito da Sofocle, Antigone, Edipo re, Edipo a Colono, introduzione, traduzione, premessa al testo e note di F. Ferrari, Rizzoli, 1994, p. 191.

(18) M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Bari, Laterza, 1983.

(19) Sofocle, Antigone, cit., p. 133.

(20) Per un’analisi macrotestuale del poema, rinvio a G.L. Picconi, «Non vorrà venirmi a dire che Tiresia è Lei?». Tiresia, narratività e tragico, in «L’Ulisse», n. 15, 2014, pp. 69-81.

(21) «[Persefone] Coglieva le iris e il giacinto, e anche \ il narciso – insidia per le fanciulle – che la terra generò \ su richiesta di Zeus per compiacere il signore infernale: \ straordinario fiore splendente, prodigiosa visione per tutti \ quel giorno, sia per gli dèi immortali che per gli uomini mortali. \ Dalla sua radice erano sbocciate cento corolle, \ e al suo profumo fragrante sorridevano l’ampio cielo \ e tutta la terra e la salsa distesa del mare. \ Stupita la fanciulla protese entrambe le mani \ per cogliere il bel balocco; ma l’ampia terra si aprì nella pianura di Nisa, e ne uscì con i suoi cavalli immortali \ il signore che ha molti nomi e molti sudditi, figlio di Crono. \ Afferrò la ragazza e la condusse via sul suo carro d’oro», Inno a Demetra, in Inni omerici, a cura di G. Zanetto, Milano, Rizzoli, 2006, p. 69.

(22) «Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite, \ Percepii la scena, e predissi il resto», T.S. Eliot, La terra desolata, a cura di A. Serpieri, Milano, Rizzoli, 2007, p. 122-4.

(23) Per un parallelismo tra l’indovino della Wast land e quello del Tiresai vd. anche M. Giovenale, Voce, visione, dovere. Il Tiresia di Giuliano Mesa, in «Per una critica futura», n. 5, febbraio 2010, consultabile qui: http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/CRITICA/critica.htm.

(24) G. Mesa, “Ad esempio”. La scoperta della poesia, in La scoperta della poesia, a cura di M. Rizzante e C. Grubert, Pesaro, Metauro, 2008.

 

[Immagine: Biagio Cepollaro, I guardiani]

 

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