di Luca Barbieri
Mi pare che, assieme al Covid, in queste settimane stia circolando diffusamente anche il virus della retorica, soprattutto nei discorsi sulla scuola. Vorrei fare un po’ di ordine. Premetto che le considerazioni che svolgo vengono dalla mia attività di insegnante di liceo, e ad esse fanno riferimento: gli studenti di cui parlo sono dunque i liceali, con cui da otto anni lavoro.
Che la scuola c’entri nella ripresa dell’epidemia, è palese: grafico dei contagi alla mano, si nota che la curva comincia a salire in maniera significativa dall’inizio di ottobre, e l’unica novità rilevante nei comportamenti collettivi mi sembra sia stata la ripresa delle lezioni, avvenuta circa quindici giorni prima.
Chiaramente va subito precisato che la scuola c’entra, sì, ma in maniera indiretta: non erano le aule a essere pericolose, quanto gli autobus scolastici e i treni regionali, scandalosamente pieni. Per il resto, i ragazzi hanno imparato a tenere indossata la mascherina, meno a stare distanti – ma è anche comprensibile, umanamente e fisicamente: nemmeno noi adulti ci riusciamo sempre; e d’altronde la scuola ha riaperto a settembre accettando una scommessa che è anche una sfida alla logica: riaprire con i distanziamenti un luogo che è invece per sua natura di assembramento e di contatto.
Di conseguenza, dire che la chiusura delle scuole riduce il contagio è semplicemente una verità. Non di molto (si stima intorno al 15%), ma è pur sempre una percentuale significativa in un momento in cui il sistema sanitario rischia il tracollo per la saturazione dei posti di terapia intensiva.
Certamente questa chiusura era tutt’altro che inevitabile, ma bisognava agire nei mesi scorsi, e farlo con interventi strutturali: il principale, a mio modo di vedere, avrebbe dovuto essere lo scaglionamento degli ingressi di circa mezz’ora; per ipotesi – e ricordo che parlo di scuole superiori –, le classi prime avrebbero potuto entrare alle otto, le seconde alle otto e mezza e così via fino alle quinte con ingresso alle dieci. Con una misura come questa si sarebbe quantomeno diminuito il sovraffollamento dei trasporti, con beneficio peraltro anche degli altri lavoratori. Si dirà: ma così le lezioni sarebbero durate fino a metà pomeriggio, per gli studenti e per gli insegnanti, senza considerare il problema della ristorazione! Vero, ma questo è un anno emergenziale: vanno messi da parte i corporativismi e le comodità, se si crede fermamente, come leggo da ogni parte, nell’assoluta necessità che la scuola sia in presenza. O meglio: che la scuola in presenza sia quella vera, mentre la d.a.d. un suo indegno surrogato malfunzionante.
Il che un po’ è vero, e ogni docente, me compreso, potrebbe a questo punto fare la lista delle stranezze e dei limiti di questo palliativo didattico spacciato per innovazione: dai gatti che passano davanti allo schermo, agli studenti che, interrogati, scompaiono nel cyberspazio o si alzano per andare ad aprire al corriere. Ma intanto bisognerebbe dividere, nei giudizi, la questione della valutazione online da quella dell’insegnamento disciplinare. La prima pone problemi oggettivi di sorveglianza, perlopiù irrisolvibili, la seconda di riorganizzazione mentale, perlopiù del docente; entrambe, ma soprattutto la prima, espongono l’insegnante a un’innegabile mortificazione del suo operato, di cui davvero non si sentiva il bisogno.
Tuttavia, a me non piacciono le demonizzazioni: non stravedo per le lezioni online, anche per concrete ripercussioni sul mio fisico (dolori muscolari, soprattutto cervicali), ma devo ammettere che, per le mie discipline, Lingua e Letteratura italiana e latina, tutto sommato funzionano. Altri contenuti, invece, sicuramente si adattano peggio a essere veicolati on-line, o forse proprio non si adattano: è il caso delle lingue, che richiedono presenza, interazione e prontezza, tutte abilità pressoché non esercitabili con la d.a.d.; mentre le materie scientifiche mi pare si situino in un limbo, essendo discipline per così dire molto empiriche nel loro svolgersi sostanzialmente tramite esercizi alla lavagna o esperimenti.
Ciò non vuol dire, però, che allora non si possa fare nulla di valido, in quelle materie, o che sia tutto tempo perso: in una d.a.d. di qualche settimana, si potrebbe ad esempio riscoprire la storia di una determinata lingua oppure anche quella della fisica, o della scienza e delle tecnica. Adattamenti, dunque, vale a dire guardare (e imparare a far guardare) la propria disciplina da un’altra prospettiva. Il discorso cambierebbe sul lungo periodo, indubbiamente, ma non sarebbe uno scoglio insormontabile.
Bisogna però ammettere che nessuno, alle superiori, insegna implantologia o chirurgia: si possono dunque spiegare le equazioni, il Decamerone e le leggi di Mendel anche on-line, previo un minimo di dimestichezza informatica – e mi domando allora se, piuttosto, non sia un po’ di sana alfabetizzazione tecnologica che manca, ai docenti italiani. Si possono persino fare le prove, previo saperle costruire per intercettare non solo le conoscenze, per le quali basta aprire una scheda di Chrome o proprio il libro che si ha davanti, ma le tanto famigerate competenze e abilità. Aggiungo pure che, con la possibilità di registrare le lezioni (in presenza o in modalità asincrona), si offre agli studenti con Bisogni Educativi Speciali o Disturbi Specifici dell’Apprendimento, la possibilità di stoppare la spiegazione per prendere appunti e addirittura di rivedersi l’intera lezione. E questo è un indubbio vantaggio, e un passo avanti nella didattica inclusiva.
In questo articolo mi interessa riflettere soprattutto sulla percezione che i ragazzi hanno della d.a.d., perché molta della retorica che ho sentito in queste settimane nasceva da un fraintendimento di essa. Ho appena corretto un pacco di temi d’italiano di una seconda, di cui una delle tracce era inerente la pandemia di Covid-19 e le sue ripercussioni sulla vita quotidiana. Tutti gli studenti che hanno svolto il tema hanno ammesso che la didattica in presenza è diversa e preferibile, ma nessuno ha demonizzato la d.a.d.: semplicemente, i miei alunni ne hanno riconosciuto e accettato l’uso emergenziale, e senza usare toni da pasionarie. E certo, non farebbe cambio con la lezione in presenza, come nemmeno io, ma, insomma, si sono adattati senza traumi di sorta.
Ho scritto sopra che non mi piacciono le demonizzazioni e ora aggiungo che non soffro neanche le idealizzazioni. Vengo dunque al nocciolo della questione: davvero gli studenti sentono una mancanza così forte della scuola in presenza?
Occorre fare attenzione. Credo che noi adulti ci siamo dimenticati cos’è stata la scuola, per noi: veramente era la cosa più bella del mondo? Davvero non andarci, d’estate, ci mancava? Se rispondiamo di sì, probabilmente è per due motivi: (1) perché il tempo che passa porta con sé una certa edulcorazione degli eventi, depurandoli dei loro lati negativi e cristallizzandoli invece in immagini perlopiù positive; e se questo si combina poi con la malinconia del tempo che passa e l’avanzare inesorabile degli anni, è facile che si idealizzi il periodo della propria gioventù, in cui la scuola gioca un ruolo fondamentale; (2) perché forse quello che ci mancava era il lato socializzante della scuola, in un’epoca in cui Internet non esisteva e non si era dunque sempre connessi; non ci mancava certo il lato educativo, di cui, all’età delle superiori la maggior parte dei discenti non percepisce appieno il valore.
Ma si potrebbe semplificare ulteriormente la questione. La scuola non ci mancava semplicemente perché studiare NON è bello. Bisogna avere il coraggio di dirlo. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Casomai è bello l’oggetto dello studio, ma non certo l’azione dello studiare. E tanto meno è bello alzarsi all’alba per nove mesi all’anno, nell’età della vita in cui a letto non andresti mai e in cui dormiresti fino a mezzogiorno. A chi è piaciuto, a chi piace mettersi curvi su un libro e leggere, rileggere, sottolineare, sforzarsi di capire, riassumere e mandare a memoria? E poi essere interrogati e valutati, subendo gli inevitabili confronti con i compagni… a chi manca tutto questo? A nessuno che non sia un masochista. Certamente, al di là di questo muro sta la gratificazione dell’avere imparato, dell’essere diventati più colti e del sentirsi un po’ meno ignoranti, e non è cosa da poco. Ma non scambiamo il fine con il mezzo: studiare NON è bello. Richiede fatica, impegno, costanza, lotta contro la pigrizia, abnegazione di sé… e non c’è una sola azione invitante in quelle che ho appena menzionato. E non dipende dal fatto di essere adolescenti, e quindi ancora immaturi: ho preparato, trentacinquenne, il concorso straordinario per insegnanti e posso assicurare che non mi sono divertito. Mi sono acculturato, sì, ma certamente non divertito.
Mi chiedo allora: davvero gli studenti dei collettivi che stanno facendo sit-in fuori dalle scuole in questi giorni rappresentano il sentire dello studente medio? Solo io non ho praticamente mai percepito nei miei studenti tutta questa voglia matta di studiare e acculturarsi? E preciso che i miei alunni sono dei bravi ragazzi e delle brave ragazze, non degli scarti di riformatorio. Persone perbene, normali, che hanno diversi gradi di intelligenza e abilità, e a cui auguro tutto il bene possibile, ma che, appunto, nel loro essere normali, capiscono che una lezione su Marco Polo o sulla discesa di Carlo VIII è fruibile anche sotto forma di videolezione. E forse anche quella inerente la risoluzione delle disequazioni, a condizione però che il docente sappia usare i mezzi informatici (… ma appunto, questa non è una pecca dei ragazzi).
A me la scuola è sempre parsa il luogo dove si entra meno volentieri e da cui si corre fuori il prima possibile. Mi pare si facciano feste, l’ultimo giorno di scuola, non funerali. E che bigiare la scuola sia una delle azioni che ingolosiscono maggiormente gli alunni. E mi sembra anche che molti di loro vadano richiamati in classe per l’uso improprio dei cellulari mentre si spiega… e allora mi domando dov’è sempre stato tutto questo interesse smodato per l’apprendimento che oggi, all’improvviso gli studenti sembrano manifestare?
Più ragionevolmente, le cose stanno così: non c’è nessuno studente delle superiori che in questo momento sia a casa piangente perché non può andare a scuola. Credere il contrario vuol dire aver perso il senso della realtà, nonché avere una visione miope e idealizzata dell’essere studenti.
Allo studente medio, infatti, la scuola come ambiente di apprendimento non manca (e forse nemmeno come ambiente di socializzazione, visto che ormai oggi esso coincide bene o male col web), almeno per tre ragioni: (1) la prima è che è sospesa la didattica in presenza, non la didattica tout-court; con tutte le riserve che si possono avere sulla d.a.d., bisogna ammettere che, per una parte delle discipline del curriculum, essa può replicare abbastanza bene la lezione frontale; si dirà che la lezione frontale è superata e inefficace; direi che, adattata nei tempi e corretta con una sana interattività, per un mese o quanto durerà la quarantena, si può tranquillamente riesumare, visto che con essa sono cresciute generazioni di persone e non mi pare siano venute su male; si dirà che i ragazzi si distraggono, si disconnettono per sottrarsi alle interrogazioni e via dicendo… ma bisogna ricordare che è pur sempre il docente ad avere le redini della classe, anche online, e che forse lì, più che nel contesto in presenza, sorvegliabile, è messa veramente alla prova la sua capacità di coinvolgimento dei ragazzi, perché deve essa deve combattere contro il potere distraente del computer; probabilmente è una battaglia persa, bisogna ammetterlo; del resto, che i ragazzi siano inclini alla distrazione se non sorvegliati e non siano tendenzialmente in grado di autodisciplinarsi, lo si sa; ma la maturità è a diciott’anni, appunto, e gli adulti (cioè i maturi) sono gli insegnanti, nella partita educativa; (2) il secondo motivo sta nella comodità dello studiare a casa, i cui vantaggi sono inutili da riassumere perché intuibili da tutti; è pur vero che si tratta di comodità diverse per ognuno: non tutti hanno case grandi e confortevoli, non tutti hanno una stanza tutta per sé dove potersi concentrare, e in questo senso, sì, è grave la chiusura delle scuole: perché essa favorisce l’uguaglianza degli alunni a livello di strutture, tempi e mezzi di apprendimento; (3) l’ultimo motivo – e che però è anche il più interessante e significativo secondo me – è che gli studenti, diversamente da ministri, insegnanti e opinionisti vari, non idealizzano né l’istituzione-scuola, né chi ci lavora.
La scuola è un’istituzione, appunto: non è un mondo fatato che deve salvare l’umanità dal suo sfacelo. Tantomeno è il paradiso dei bambini o degli adolescenti (e bisognerebbe parlare con chi ha subìto, a diversi gradi e stadi del percorso scolastico, il bullismo, per sapere se è poi così bello stare a scuola; e mi pare che questo fenomeno sia ormai una piaga endemica). La scuola, dicevo, è un’istituzione, e cioè un ente più o meno funzionante, più o meno delegittimato e sgangherato a seconda dei contesti, in cui alcune persone, pagate per farlo, trasmettono un sapere e aiutano i ragazzi a costruire, usare e implementare la loro intelligenza, affinandola in modi e con materie anche molto diverse tra loro: per questo è giusto passare i pomeriggi tanto a leggere il Decamerone quanto a cercare di capire la meccanica dei fluidi. Certo, non è poco, anzi, è molto, moltissimo. Ora tutto questo mi pare si possa fare anche on-line, per quanto non in maniera ottimale come lo si farebbe in presenza. D’altronde il contesto è emergenziale, e la risposta non può che essere della stessa natura: si deve tamponare in qualche modo, è ingenuo pensare di poter riprodurre sulla rete il contesto-scuola ordinario.
Ritengo però esagerato parlare, come ho sentito più volte nel dibattito, di “danni irreparabili” sui ragazzi per alcune settimane di d.a.d., foss’anche per un semestre: questa è retorica bell’e buona. Come tanti colleghi, ho visto per l’ultima volta in presenza i miei studenti liceali in febbraio (un centinaio di persone), ritrovandoli poi nel settembre scorso: erano intellettivamente identici, nel bene e nel male; emotivamente, pure.
Dicevo che gli studenti non idealizzano nemmeno chi ci lavora, nella scuola, e cioè gli insegnanti. Semmai sono gli insegnanti stessi che, complici anche certe fiction e certi libri scritti proprio da ex professori, finiscono per idealizzare se stessi. Libri e miniserie sciagurati che presentano il lavoro del docente come una Missione di Vita, spingendo l’opinione pubblica a voler credere che sia così. La cosa inquietante è che adesso anche molti professori sembrano indulgere in questa idealizzazione, trovandoci magari quella gratificazione che la società non dà loro più: e si compiacciono dunque di sentirsi parroci del loro gregge di alunni, disponibili 24h su 24 e sette giorni su sette, nel timore che, se staccano per un momento, ne consegue la perdizione umana, sociale e intellettuale dei loro studenti. Per i quali, invece, i professori restano, certo, delle persone fondamentali, ma tutt’altro che insostituibili. Del resto, con la supplentite acuta che affligge la scuola italiana, è già un miracolo se riescono ad avere lo stesso insegnante per la stessa materia per più di uno o due anni.
Insomma, la pluricitata “alchimia profonda” tra docente e studente, fatta di fiducia incondizionata, sguardi e intesa emotiva, di solito esiste solo nella testa del primo, o andrebbe comunque ridimensionata, riconoscendole una prevalente unidirezionalità: è in buona sostanza un efficace palliativo che serve all’insegnante per autogratificarsi e dare senso al proprio lavoro. All’indomani del DPCM che annunciava il ritorno in d.a.d. per le superiori, ho visto al telegiornale una docente di inglese infervorata fino alle lacrime che esclamava: “Eh no, non li lasceremo soli, i nostri studenti, a costo di metterci a leggere tutti assieme Shakespeare nei parchi”. Mi sono dunque domandato: ma te l’hanno chiesto loro o sei tu che speri/vuoi/vorresti che te lo chiedessero? Perché c’è una bella differenza. Hanno una vita, gli studenti: vedono, dal vivo o su Internet, altre persone; e hanno interessi che sono lontani mediamente anni luce da quelli dei loro prof. È ingenuo pensare che l’insegnante sia il perno delle loro esistenze: quello è L’attimo fuggente, non la realtà. E se lo è, lo è per il tempo che dura la lezione, o poco più.
Ma quindi chi sono gli insegnanti? Sono uomini e donne che cercano di tamponare, fungendo un po’ da psicologi e un po’ da genitori, le falle di una società che ci vuole sempre più atomizzati e ignoranti per essere meglio eterodiretti. E sono persone che, fuori dalle pareti scolastiche, hanno una vita evenemenziale e affettiva che dà loro tutto il diritto di staccare e di non farsi coinvolgere troppo da quello che accade sul posto di lavoro. Il diritto di non sentirsi responsabili per ciò che loro non possono controllare nella vita emotiva dei loro alunni, di cui loro occupano una minima parte. E anche il diritto di mantenere una certa sana distanza da quello che fanno, che è un lavoro, non una vocazione monastica o una scommessa di vita.
In definitiva, dunque, a chi manca la scuola in presenza? Sicuramente a noi docenti, sicuramente a buona parte degli adulti che ne sfruttano il lato accuditivo, ma assai meno agli studenti che, in situazioni emergenziali, sembrano essere più pragmatici di noi adulti e anche in grado di adattarsi ai cambiamenti senza ricorrere ogni volta alla stampella della retorica.
(Luca Barbieri è docente di italiano e latino nella provincia di Trento).
Riflessioni chiare, realistiche e libere da pregiudizi. È chiaro – anche leggendo alcuni nomi dei firmatari dell’iniziativa Condorcet pubblicata recentemente su questa piattaforma – che quanti celebrano retoricamente la scuola in presenza non lo fanno certamente per motivi culturali, ma solo per salvaguardare quel “capitale umano” che dalla presunta chiusura ritengono possa essere intaccato: confermano così la deriva in atto da tempo, la subordinazione della scuola alla dimensione economica neoliberistica che vuole tutti gli esseri umani ridotti a merce.
I docenti non sono certo esempi di tecnoentusiasmo e loro malgrado hanno imparato a usare il digitale, ma hanno spirito di adattamento, quello che ad ogni essere vivente consente la sopravvivenza, quello che va insegnato ai giovani: la dad è un sistema emergenziale e se il covid è un’emergenza la dad è un’ottima risposta, temporanea e utile.
In classe si tornerà se e quando si potrà. Se il governo ha fatto poco per garantire effettiva e concreta sicurezza, è fuorviante e idelogico continuare a dire che si deve riaprire la scuola (che non è chiusa e resta attiva in dad): come può riaprire la scuola se nulla è stato fatto per renderla un posto sicuro? I trasporti sono sempre gli stessi, i tracciamenti sono in tilt ovunque, gli spazi restano angusti, il numero degli alunni è invariato, non ci sono sistemi di riciclo dell’aria, il distanziamento ridotto a 1 m. tra bocche è ipocrita e insufficiente per evitare i contagi. Dunque? Con quale coraggio, sic stantibus rebus, si proclama la riapertura delle scuole?
Per quanto l’attitudine realistica e scantata, antiretorica, difesa nel post sia del tutto da apprezzare, e molte considerazioni siano per me pacifiche, a me colpisce come la generazione più giovane di colleghi sia tutta interna a una concezione trasmissiva, frontale, nozionistica della didattica. Si percepisce che manchi qualsiasi accenno e interesse alla sperimentazione didattica, e qualsiasi convinzione e pratica – fosse anche con un poco di (sano) velleitarismo – che si possa (e debba) essere in aula in modi diversi dalle pratiche invalse e prevalenti.
Studiare è fatica? Dipende, lo è come per alcuni fare sport, e per altri essere seducenti e sociali. Vi è la fatica da cui rifuggere, e quella che fa sentire appagati e orgogliosi di se stessi. Da quel che capisco tra l righe, Luca è per la maggior parte nel meccanismo infernaledel docente che racconta un riassunto della materia, studio a memoria su appunti di lezione e/o libro di testo, ripetizione nell’interrogazione.
Per la DaD: una opportunità, e un passaggio tecnologico inevitabile. Ma direi -come per molte se non tutte le tecnologie – neutra rispetto a come si possa usare: amplificatore a distanza di tele-nozionismo passivo, aiuto a distanza per pratiche di didattica attiva. La discussione è sempre su come sfruttare le opportunità, non su come soffrirle meno.
Prosit!
sono d’accordo sul Come. Non abbiamo scelto la dad ma possiamo scegliere Come usarla. Conta la relazione tra discente e docente che impara dalle circostanze e nonstante le circostanze come costruire o mantenere o rinnovare quel rapporto senza il quale non passa e non succede niente nè in presenza nè in distanza
Devo ammettere che non mi sarei aspettato di trovare un articolo di questa caratura su Leparoleelecose. Sono molto sorpreso da un numero così elevato di asserzioni, che faccio fatica a mantenere toni accettabili. Provo a farlo nella speranza di aprire una breccia e di non trovare modalità oppositrice. In generale ho timore che la mal sopportazione della retorica, sensazione che posso anche condividere, non basta per sostenere le argomentazioni di questo articolo.
Parto da un punto che credo possa unirmi all’articolo: la scuola è indifendibile. È vecchia, tarata su un altro mondo, produce e riproduce una violenza di cui non siamo fino in fondo consapevoli. E, aggiungo, è escludente. La mia esperienza (superiori professionali) differisce di molto da quella descritta e qui però c’è un primo elemento da cui mi dissocio per forza di cose.
Capisco l’esperienza personale e il partire da sé. Ma partire da sé per rimanere a sé non è una grande affare, soprattutto a 10 mesi dall’inizio del problema della chiusura. Intuisco che il numero di stranieri nelle classi di chi scrive è basso. Nel mio caso insegnare italiano in classi dove almeno il 50% degli alunni non parla italiano a casa e nella vita sociale è difficile. Farlo in DaD è impossibile. Nel loro caso, ovviamente, è impossibile che non abbiano sofferto della chiusura.
A loro manca la scuola? No, a quanto dicono… o meglio in alcuni casi sì, anche se non vanno in piazza, ma chiedono di tornare in classe sfruttando alcune normative di cui li rendiamo edotti. Questi dove li mettiamo? Nella minoranza retorica o nella maggioranza silenziosa?
Ma poi non capisco il riferimento polemico ai “danni irreparabili” di chi sta a casa in DaD: su che misura è fatto questo riferimento? Sulle chiacchiere tra colleghi? Io forse aspetterei a vedere i dati sulla dispersione, per fare solo un esempio.
In alcuni casi qualcuno è andato a misurare – per quanto problematico- gli effetti della chiusura delle scuole in
Germania: https://voxeu.org/article/covid-19-school-closures-hit-low-achieving-students-particularly-hard
Olanda: https://voxeu.org/article/collateral-damage-children-s-education-during-lockdown
Come si vede l’estrazione sociale ha un peso.
Non solo. Essere straniero si aggiunge una mancanza di linea telefonica o di mezzi adatti. “Ma ci sono quelli messi a disposizione dal ministero!”…che da noi sono arrivati solo ieri (dopo 40 giorni dalle prime chiusure). Non solo, chi lavora in questi contesti sa che l’esclusione non si risolve con un regalo. Banalmente, devi introiettare il fatto che il computer che ti arriva è un diritto…ma solo se compili il modulo, se lo compili correttamente, se lo invii entro una certa data, se rientri nelle graduatorie.
BES e DSA hanno la possibilità di vedere i filmati? Sì…se qualcuno glielo fa fare. Se no ciao ciao. E aggiungo esperienza personale: visti i problemi che si stanno generando da noi i BES per motivi socio-culturali stanno aumentando di mese in mese: classi che ne avevano 7 ora ne hanno 10 perché è evidente che in queste condizioni non ce la faranno. Alla faccia dell’essere intellettualmente sani, come prima della chiusura. E questa non è retorica, è la quotidianità.
L’altra cosa che mi convince poco è la premessa data per scontata. L’idea che i contagi c’entrano con la riapertura. I dati non ci dicono esattamente questo…o meglio, i dati non ci dicono un bel niente, visto che non ci sono dati su altri settori lavorativi che comunque sono meno monitorati. Non voglio aprire discussioni infinite, ma suggerisco un confronto tra la curva della Campania (scuole aperte a fine settembre e chiuse dopo 3 settimane) e altre regioni dove le scuole sono state aperte più tempo: https://coronavirus.gimbe.org/regioni.it-IT.html
Ma poi mi sembra che dimentichiamo che sempre, su queste questioni, ci si dimentica che quando parliamo di scuola parliamo di un diritto non di un vezzo da intellettuali: scommettiamo che se impediamo ai genitori di vedere figli i contagi diminuiscono?
Anche la lettura sul punto di vista degli studenti non mi convince. Studiare non piace? Va benissimo, su questo tocca ragionare e farlo bene.
Ma sul piatto delle riflessioni ci metto anche il fatto che la relativizzazione dei problemi della DaD con l’aggiunta di “La scuola non ci mancava semplicemente perché studiare NON è bello” proviene da una persona che dopo i cicli scolastici ha scelto di fare l’università e poi di insegnare e che ora scrive su Le Parole e Le Cose. Francamente, di cosa stiamo parlando? Possiamo rilevare, proprio sulla nostra esperienza di studenti che diventano docenti, che il problema è quantomeno più complesso di così? Che il nostro stesso rifiuto per la scuola, visto vent’anni dopo può essere riletto in modo più ricco?
E aggiungo una cosa. Per onestà intellettuale ammettiamo che l’equiparazione per il concorso della scuola (individuale, mnemonico, strutturalmente umiliante) con l’andare a scuola è francamente irricevibile.
Sul fatto che gli studenti che protestano davanti alle scuole non sono rappresentativi, posso anche essere d’accordo. Ma con una scuola ampiamente problematica, dopo mesi di bombardamento di dati sulla pericolosità del virus, con alle spalle anni di demonizzazione della scuola e di tutte le sue figure, cosa ci si può aspettare? A me sembra che il contesto di partenza, pre-Covid, in questo articolo venga tirato fuori un po’ troppo a piacimento. Anche perché andando a fondo nelle cose, il dato può essere rovesciato: che ci siano studenti che si organizzano per manifestare con questa costanza è un dato che nemmeno i Fridays For Future hanno messo in campo. Ci saranno state manifestazioni molto vissute, ma questo livello di organizzazione e di costanza (ogni settimana) i FFF non l’hanno mai mostrato. E faccio notare che i FFF sono anche ben più “retorici” degli studenti che vanno in piazza ora, dato che questi sanno di cosa stanno parlando dato che riguarda direttamente la loro quotidianità.
Ma in tutto ciò, quello che mi dà veramente problemi è che l’articolo è de-contestualizzato. E pure su questo leggo una certa retorica priva di complessità. Davvero si presuppone che il linguaggio delle emozioni di un/una quindicenne sia lo stesso di un trentacinquenne? Ho letto davvero dei giudizi sulla base di un tema e non sulla base di un processo di crescita? Davvero ho letto un articolo in cui si presuppone che la consapevolezza politica, relazionale, emozionale di un’adolescente sia la stessa di un adulto con una laurea e anni di insegnamento alle spalle? Davvero ho letto la pretesa che le forme retoriche di un quindicenne debbano essere ricche come quelle di chi ha fatto l’università e scrive su un blog culturale?
Francamente: “A chi manca la scuola in presenza?” è una domanda fuorviante e sparare un articolo del genere che prescinde dai motivi politici per cui la scuola viene chiusa mi sembra uno svarione. La scuola è oggi moneta che viene chiusa per far vedere che si fa qualcosa “mentre fuori c’è la morte”, come si dice in un famoso monologo di Boris. Solo che in verità non si sta facendo niente per frenare i contagi, occorre dirselo e ripeterselo. Offrire, su un blog di questo livello, analisi che si soffermano sulla superficie delle parole, senza scendere tra le “cose” è un bell’assist a coloro che della scuola farebbero volentieri un banchetto.
Vogliamo porci una domanda fuori di retorica: quanto male farà il fatto di aver capito che chiudere le scuole non scatena resistenze eccessive?
Concordo totalmente con le osservazioni di Plv. Mi limito a sottolineare due cose: a) il diluvio di retorica proviene da quelle istituzioni che, ad oggi, non hanno creato alcuna condizione per riaprire, in una qualche forma, la scuola superiore. Chiedere se uno studente abbia il desiderio di tornare in presenza, è certamente un elemento di riflessione per il docente che pone la domanda, ma non per il sistema educativo nel suo complesso; b) l’articolo sottostima qualche elemento di realtà: i dati sulla presenza dal 23/2/2020 al 2/12 degli studenti a scuola. In alcune regioni siamo nell’ordine dei 15 giorni, cioè alcuni soggetti hanno a che fare con la dad (o il nulla) da mesi non settimane. Che poi si possa discutere di didattica e tecnologia in termini così approssimativi senza considerare fenomeni quali la frammentazione dell’attenzione, il sovraccarico cognitivo lascia stupiti. Cervicale et similia non valgono solo per i docenti. Pur con il massimo rispetto per l’autore, l’articolo è cartina di tornasole di una categoria che non ha inteso spendere un pomeriggio di queste lunghe giornate per chiedere con fermezza al decisore politico quali azioni concrete, e non retorica, stesse promuovendo. Ha lasciato fare ad alcune 13 enni. A futura memoria un epocale fallimento politico e educativo. Nostro.
“L’articolo è cartina di tornasole di una categoria che non ha inteso spendere un pomeriggio di queste lunghe giornate per chiedere con fermezza al decisore politico quali azioni concrete, e non retorica, stesse promuovendo.” Ha ragione: infatti, mentre una parte (credo piccola, in realtà) dei docenti era impegnata in piagnistei vari, rifiutandosi ideologicamente di fare lezione, io spendevo i miei pomeriggi a fare quello per cui sono pagato: preparare lezioni e prove su Google Moduli, correggere temi, fare udienze, incontrarmi con gli studenti a tu per tu, recuperare verifiche e interrogazioni per chi aveva la connessione traballante, e lavorando insomma ben più di quanto facessi in presenza.
Ho fatto insomma il docente, preoccupandomi in prima battuta, e da subito, della formazione dei miei studenti, e stupendomi del fatto che addirittura sono riuscito a fare più cose di quante ne avrei fatte in presenza, e fatte bene, senza dimenticare i BES e DSA. Non mi sono adagiato in piagnistei ideologici, e con me per fortuna tanti altri colleghi. E i miei studenti si sono rimboccati le maniche e hanno fatto altrettanto, pur con tutti i problemi pratici che abbiamo avuto tutti.
E non più tardi di ieri sono stato contento di leggere sul giornale locale che i rappresentanti degli studenti della mia regione (scuole superiori) hanno commentato: “sì, non ci piace la d.a.d., ma ora viene per prima la salute, non è il momento delle proteste”, a riprova del buon senso che a certi adulti manca. L’andare a scuola, purtroppo, è motivo di contagio (e in verità anche gli edifici scolastici, inutile negarlo, che ospitano sempre più studenti e sono luoghi di concentramento di persone, e non può essere altrimenti): diamo priorità alla salute o all’istruzione? Anch’io vorrei che si potesse fare entrambe le cose, e penso che uno stato civile lo dovrebbe. Ma a oggi sembra non sia possibile, per incapacità che ci portiamo dietro da sempre. Come reagiamo, allora? La d.a.d. permette di dare priorità alla salute, sacrificando alcuni aspetti dell’istruzione; alcuni aspetti: non TUTTO, come molti vogliono a torto far credere.
Cosa significa, poi, la “DAD o il nulla”? Non è dappertutto un terzo mondo scolastico, sapete? Si vada dunque a prendere quei docenti che non fanno nulla, e si diano loro le debite sanzioni. Allo stesso modo, è auspicabile che la classe docente italiana si aggiorni al più presto in termini di competenze informatiche, visto che, in questo ambito, c’è un’ignoranza inaccettabile a oggi 2020.
Che ci voglia una gran cultura tecnologica per usare teams mi sembra discutibile, spesso i prof lo conoscono meglio degli studenti; che agli studenti non manchi il contatto col prof (senza gonfiare le ali della retorica, siamo d’accordo) mi sembra altrettanto discutibile. Soprattutto non si considerano gli effetti a lungo termine di un insegnamento esclusivamente a distanza i quali, senza scomodare Mcluhan, si situano a un livello ben più profondo di sapere o non sapere la Guerra dei trent’anni.
Ci sono poi le questione dei ragazzi che già tendono a mollare e che magari mollano ancora più facilmente a distanza, la lettura in pubblico, il minor senso di mostrare video sul computer invece che alla lavagna e via decrescendo
Insomma, va bene smontare certa retorica, ma rendendosi conto che è uno smontaggio assai sofistico e che si poteva scrivere un articolo dai contenuti perfettamente opposti.
Da prof e padre di un liceale che sta bene a casa ma preferirebbe tornare a scuola.
@alcuino
Fare didattica a distanza non è però solo avviare un’applicazione di videochiamata; ma anche se fosse, le assicuro che non è così scontato che docenti di mezza età (che sono poi la maggioranza della classe insegnante italiana) lo sappiano fare. Vedo infatti molta “arretratezza”, per certi versi comprensibile, tra docenti e mondo dell’informatica, purtroppo anche a livelli base (impaginare in Word, uso del registro elettronico, saper inviare una mail, stampare decentemente…)
La d.a.d. richiederebbe inoltre modi diversi di interagire per tenere desta un’attenzione messa a dura prova; non sempre ci si riesce, va da sé; lo stesso discorso vale per la creazione di verifiche, che si possono costruire, ad esempio, con applicazioni apposite (e, a mio giudizio, molto valide e buone) come Google Moduli, predisponendo magari l’apposita griglia inclusa nell’applicazione. Non è un’operazione facile certo, ma non si può bollare tutto a priori, come fa qualcuno, come non-scuola, o fare finta che d.a.d. = scuola chiusa. Questo è intellettualmente disonesto, e una bella scusa per chi vuole rimanere arroccato sulle sue posizioni che spesso celano un’ideologia. Io e le mie classi abbiamo lavorato parecchio, glielo assicuro.
Quanto al legame studenti-docenti, non mi pare sia impossibile da avere, on-line. Sembra che la scuola sia chiusa e i professori scomparsi. Ai ragazzi manca il legame fisico, il vedere il prof in carne e ossa davanti? Non saprei, non principalmente, credo: penso che loro vogliano piuttosto un punto di riferimento didattico e anche umano, per carità, ma che si può avere (in tempi emergenziali, sottolineo) anche via internet, sapendo che si tratta appunto di un periodo eccezionale e che nessuno, me compreso, vorrebbe una scuola tutta on-line. Del resto che si fa, d’estate, quando la scuola è chiusa per tre mesi senza nessun contatto, di norma, tra docenti e alunni?
Aspettiamo tutti la ripresa della didattica in presenza, ma dire che nel frattempo c’è il vuoto scolastico (e la perdizione intellettuale e umana dei ragazzi) mi sembra alquanto ideologico e retorico.
Quanto ai ragazzi che tendono a mollare, è vero, ma ci sono anche studenti più in difficoltà che hanno trovato benefici dalla d.a.d…. se predisposta come si deve, certo (es. registrazione di videospiegazioni del docente che uno può rivedersi quanto e quando vuole). Mentre sono d’accordissimo che, purtroppo, non tutti hanno connessioni buone e stanze adeguate dove studiare. E’ una cosa grave e lo dico nell’articolo.
Infine, non penso di avere usato sofismi, anzi, mi sono mantenuto su un piano di sana pragmaticità.
Che la DaD sarà una componente importante della futura scuola io lo considero scontato e, per diversi versi, utile a una migliore didattica. Che la DaD possa essere il veicolo di una didattica di corsi/tutorial on line, prefabbricati da grandi aziende del settore, con risultati validati mediante test a crocette, il tutto a distanza (secondo le esperienze già oggi ben collaudate dei corsi di lingua straniera, del mondo della certificazione informatica, e mi dicono di alcuni ambiti professionali para-medici e forse di altri di cui non so) senza un reale rapporto personale studente-insegnante lo vedo come una possibilità, reale, nemmeno tanto lontana (sopratutto in forme ibride), ma del tutto non auspicabile.
Che questo dibattito sia scaturito da una emergenza extra-scolastica, e non perché tra i 600.000 del mondo della scuola italiana, negli ultimi 10/15 anni, un buon numero si sia dedicato seriamente e con buoni risultati a capire chi e come stava producendo idee, modelli, strumenti e prodotti, e dove il tutto potesse o dovesse essere indirizzato, non fa ben sperare.
Come in tanti altri settori della vita italiana, bisogna svegliarsi, studiare e proporre, anche obiettare e contestare (la Scuola italiana non può essere riformata dalla Microsoft e dalla Fondazione Agnelli), ma sopratutto non star sul pero a lamentarsi.
Allego qualche riflessione…
https://www.glistatigenerali.com/scuola/lideologico-entusiasmo-per-la-scuola-in-presenza/
Sono una studentessa di una grande città italiana; sin dal primo anno di superiori ho partecipato attivamente alla vita della scuola, frequentando assemblee scolastiche e municipali, ascoltando diverse opinioni di studenti e insegnanti provenienti da scuole di vario tipo. Ho assistito a numerosi dibattiti riguardo la d.a.d. e, come rappresentante di classe, assisto quotidianamente, attraverso il gruppo dei rappresentanti della mia scuola (che conta più di 1000 studenti), ai problemi quotidiani che causa la distanza.
Ritengo necessaria la chiusura delle scuole.
La d.a.d., unica alternativa possibile alla presenza, è uno strumento alquanto limitato, soprattutto nei casi in cui gli insegnanti non siano abbastanza pratici con gli strumenti informatici. Non solo: bisogna considerare che molti studenti in Italia non possiedono gli apparecchi materiali per assistere alle lezioni a distanza. Anche i fortunati che possiedono questi strumenti, risentono delle limitazioni che porta con sé la d.a.d. Il problema della sorveglianza, secondo me, costituisce un ostacolo non così grande. La sorveglianza che avviene durante il momento di spiegazione la trovo molto poco utile sia in presenza che a distanza, perché uno studente, anche se richiamato all’attenzione, non può essere fisicamente forzato ad ascoltare le parole dell’insegnante. La sorveglianza durante il momento di verifica, invece, è più importante e in d.a.d. risulta quasi impossibile. Esistono, tuttavia, modalità di interrogazione, come quella orale, che permettono al docente di fare domande tali che la risposta del discente rivela se si è davvero compreso e interiorizzato ciò di cui si parla. Detto ciò, posso dire che molti studenti non amano la d.a.d. e preferirebbero tornare nelle scuole. Passato il periodo iniziale di entusiasmo, dove era tutto nuovo e sembrava che sarebbe stato tutto più facile (periodo di una settimana forse), sono nati i primi problemi.
Sorsero roblemi per i ragazzi BES e DSA, che si trovavano da soli e lontani dalle loro guide, i professori; ci furono difficoltà per tutti gli studenti. La problematica maggiore è ovviamente quella di comunicazione con i professori. Mentre alcuni professori si sono resi molto disponibili, altri non hanno mostrato flessibilità e si sono chiusi, rendendo quasi impossibile il dialogo con loro. Questo distacco dai professori ha fatto sì che ci fosse meno empatia nei nostri confronti ed il risultato è stato un grande sovraccarico per noi studenti.
Quando si domanda: “davvero gli studenti sentono una mancanza così forte della scuola in presenza?” Io, da studentessa, le rispondo di sì.
Quando dice, parlando della sua generazione, che: “la scuola non ci mancava semplicemente perché studiare NON è bello” perché “richiede fatica, impegno, costanza, lotta contro la pigrizia, abnegazione di sé…” mi trova totalmente in disaccordo. Ciò che richiede lo studio, ossia fatica, impegno, ecc. è esattamente ciò che è richiesto in ogni attività umana che porta a raggiungere un obiettivo soddisfacente a lungo termine. Lo sport, la ricerca, lo studio, l’arte: tutte queste attività umane richiedono quegli sforzi. Sono queste le attività per cui l’uomo vive e progredisce. I ragazzi che studiano nelle scuole superiori, escludendo quelli che “hanno ricrvuto un calcio nel sedere”, sono tutti consapevoli di come stiano investendo il loro tempo per raggiungere un obiettivo a lungo termine. A 15 anni i ragazzi non sono più bambini, non cercano solo la gratificazione istantanea.
Lei afferma che: “Non c’è nessuno studente delle superiori che in questo momento sia a casa piangente perché non può andare a scuola”. Ritengo che l’affermazione non sia corretta. Molti studenti si sentono frustrati e soli a causa di certi aspetti della d.a.d.
Come ho detto prima, il distacco e la difficoltà nel comunicare con i professori ha creato un baratro tra quest’ultimi e gli studenti. Molto spesso accade che, a causa di questo, le classi si trovino caricate di compiti in maniera eccessiva. Azzardo un’ipotesi riguardo questa tendenza di alcuni professori che tendono ad assegnare moltissimi compiti: potrebbe darsi che, data la difficoltà nel controllare la qualità del lavoro dei loro studenti, i professori vogliano tenerli più possibile incollati alla loro materia, in modo da fargliela “trattare” per più tempo tempo possibile.
Afferma, inoltre, che: “allo studente medio, infatti, la scuola come ambiente di apprendimento non manca (e forse nemmeno come ambiente di socializzazione, visto che ormai oggi esso coincide bene o male con il web)”. Mi trovo di nuovo in disaccordo. Il web non ha mai costituito per noi ragazzi un luogo di socializzazione che sostituisse la vera socializzazione. In età adolescenziale è fondamentale la socializzazione ed è naturalmente ricercata da ognuno di noi. È proprio in questa fase della vita che si impara a costruire rapporti interpersonali in maniera non più infantile; il web non permette tutto ciò.
Secondo lei, la scuola non manca agli studenti per tre motivi. In risposta al primo motivo, posso dire che nonostante sia possibile la lezione frontale, risulta comunque più difficile creare dibattiti a seguito di una spiegazione. Il secondo motivo secondo lei riguarda la “comodità dello stare a casa”. Questa affermazione mi sembra abbastanza ridicola, poiché tiene in considerazione solamente di coloro che dispongono di spazi adeguati a casa. La maggior parte, però, non dispone di spazi comodi ed adatti per ospitare un o più membri della famiglia che devono studiare o lavorare. Il terzo motivo secondo lei consiste nel fatto che gli studenti non idealizzano la scuola. No, gli studenti non idealizzano la scuola perché la conoscono, così come la conoscono i professori. Ne conosciamo le potenzialità e i limiti, soprattutto quelli strutturali. Nonostante ciò, però, riconosciamo nella scuola uno spazio necessario ed insostituibile. La scuola non è qualcosa di opzionale ma è assolutamente fondamentale.
Senza la scuola, noi studenti non abbiamo più la possibilità di socializzare quotidianamente, di confrontarci con i professori faccia a faccia. In questo momento rimangono solo gli aspetti più “faticosi” della scuola (che non sono né brutti né odiati, semplicemente sono più piacevoli quando inseriti in un contesto sociale). Nonostante tutte le difficoltà della d.a.d., la quasi totalità degli studenti ne comprende la necessità.