di Federica Gregoratto
In un articolo pubblicato su Le Parole e Le Cose2 da Anonimo/a[1] lo scorso 25 novembre, nel giorno dedicato alla lotta contro la violenza di genere, si sostiene che l’uomo violento e femminicida non è un malato da curare, ma un vizioso da deplorare.
Questa tesi potrebbe riscontrare favore a una condizione, scegliendo cioè di valorizzare il senso performativo alla base del pezzo, al di là del suo obiettivo polemico più immediato. L’occasione per l’intervento è fornita dai due disegni di legge depositati in Senato che chiedono il rafforzamento e il finanziamento statale dei cosiddetti “Centri per uomini maltrattanti”, strutture finalizzate alla “riabilitazione psico-educativa degli uomini autori di violenza”[2]. Ma l’effetto ricercato da Anonimo/a sembra più ampio e generale, e, generalmente, condivisibile: indurre i suoi lettori (forse più che le sue lettrici) a smettere di cercare giustificazioni e attenuanti. Colui che molesta, abusa, uccide una donna in quanto donna – secondo una definizione standard, anche se non perfetta, di femminicidio[3] – non va compreso, ma giudicato, senza appello. “Solo stigma e condanna”. Questo tipo di approccio mi sembra tuttavia manchevole, ancorché controproducente, e vorrei ora provare a dire perché.
La riduzione di un fenomeno così complesso, e a quanto pare in espansione, a una questione puramente e unicamente morale non è solo problematica concettualmente, ma anche inefficace. Che il femminicidio sia moralmente inaccettabile non mi sembra possa risultare controverso. Ma a che pro interpretarlo esclusivamente come vizio? Come tutti i vizi, non è anch’esso inscritto in una costellazione di norme e strutture culturali, sociali (per esempio economiche e giuridiche) e morali più ampia e ramificata? E cosa si può fare per estirparlo? Diverse cose. La rieducazione degli uomini maltrattanti è un’idea, che ad Anonimo\a suona però moralmente sospetta. Un’altra idea, la sua idea, è la condanna morale del singolo. Ad occhio, l’utilità (per quanto non comprensiva) della misura istituzionale non mi sembra paragonabile all’efficacia di una predica morale. E più benevolmente: perché una deve escludere l’altra (e molte, molte altre ancora)?
Tralasciando l’aspetto perlocutorio, va detto che l’argomentazione del testo si dipana in modo bizzarro.
Il lungo paragrafo iniziale non introduce, stranamente, la questione della violenza di genere, ma è dedicato al pregiudizio razziale. Del razzismo viene fornita una “spiegazione evoluzionistica”, presentata come “del tutto” “ovvia”, secondo cui gli esseri umani sarebbero portat* a selezionare partner di cooperazione sulla base della paura per il diverso. Prescindendo dal fatto che l’ovvietà non pertiene ad alcuna teoria scientifica, la similitudine con la spiegazione dei pregiudizi di genere, della cultura patriarcale e della misoginia viene accennata nel paragrafo successivo, molto più breve, e reiterata successivamente ma solo come presupposto. L’ipotesi che vi sia un’analogia strutturale tra razzismo e sessismo è succosa, ma rimane vaga. (Più plausibile, perché ampiamente discussa nella letteratura di riferimento, è che vi sia non tanto una somiglianza, ma un’intersezione tra oppressione basata su fattori di razza ed etnicità e oppressione basata su fattori di sesso e genere, laddove una forma di oppressione si alimenta e rafforza in virtù dell’altra – ma di questo non si fa parola).
Il passo successivo è un salto argomentativo ancora più strano. Dalla discussione di spiegazioni evoluzionistiche, biologistiche, sicuramente riduttive, che possono indurre in fallacia naturalistica – quando la presunta “naturalità” di una cosa viene presa come ragione per la sua bontà – si passa a parlare di disturbi psicologici. È vero che i “centri per uomini maltrattanti” sembrano appuntarsi su questi. Ma perché la giustificazione di una violenza in forza di presunte necessità evolutive dovrebbe trasformarsi in attribuzione di malattia (individuale)? Perché i “lasciti della nostra specie” – che magari ci sono, e sono problematici – vanno visti come patologici? La patologia del singolo, da un punto di vista di razionalità evolutiva, sarebbe al contrario mera disfunzione, intralcio. In altre parole, se la violenza fosse veramente necessità evolutiva, la deviazione individuale dovrebbe apparire, da quella prospettiva lì, come rifiuto della violenza. Agli occhi di una cinica natura, la turba individuale risulterebbe proprio nel suo contrario – rispetto, cura, dedizione generosa.
Forse intuendo questa impasse, Anonimo/a scarta poi bruscamente di lato, introducendo una spiegazione ulteriore, che mi pare azzeccata: Nel momento in cui la violenza naturale diventa socio-economica e sociale – “in un mondo dove tutto sommato la violenza generica (quella di tutti contro tutti) scema drasticamente, sostituita dalla violenza sottile del commercio o dell’iniquità economica” – quella di genere si fa allora “reazione”. Le sevizie, psicologiche e fisiche, sono dette ora espressione di un’incapacità di confrontarsi con e accettare l’emancipazione femminile. Le streghe vanno bruciate, si sa, le donne libere, ribelli, devono essere rimesse al loro posto. Interessante: qui è proprio lo spirito punitivo della violenza a colorarsi di moralità. Nell’ordine sociale, economico ma anche morale imperante, immorale è la donna autonoma, soggetto economico e sessuale (quando per esempio mette l’indipendenza e la carriera davanti alla famiglia, o può decidere come, con chi e a quali condizioni fare sesso). Invece che rispondere a una qualche supposta logica biologica, la violenza è dunque strumento per ristabilire l’ordine morale minacciato dalla patologia del femminismo, o peggio, della famigerata ‘teoria del (!) gender’.
Purtroppo, non è questa la strada percorsa nel resto dell’articolo.
Anonimo/a preferisce fare un passo indietro, incaponirsi sul fatto che la violenza non possa essere considerata una semplice “reazione nevrotica”, o una “sindrome”. Il problema, secondo me, non starebbe tanto nel proporre una nuova morale di contro alla morale patriarcale – per esempio una morale fondata sull’autonomia della persona, o un’etica della cura e dell’amore. Il problema è che l’ordine morale difeso da Anonimo/a vuole ergersi a prospettiva astratta, separata da considerazioni di altro tipo (“o abbandoniamo del tutto questo linguaggio, e non ci sono violenti e vittime, ma malati e persone che la loro malattia danneggia, oppure non possiamo perdere di vista gli aspetti morali.”) Neppure Kant avrebbe sottoscritto un dualismo così assoluto.
Vediamo il paragrafo seguente:
“Ma rimane il dubbio: un errore morale, un vizio, la cui genesi si possa spiegare, di cui si possa mostrare che è stato utile, confortevole, anche adattivo in un passato più o meno recente, per gruppi anche numerosi di persone, un giudizio morale distorto e perverso che ci era sembrato ovvio, e la cui ovvietà è naturale, o quasi inevitabile, è per questo meno vizioso? Le piccole meschinità, la violenza spicciola, del tutto prevedibile, sono più perdonabili forse del misfatto grandioso o della violenza gratuita? Forse sono più fascinose. Ma l’immoralità banale non è meno immorale.”
Innanzitutto, viene tracciata qui una distinzione tra violenza macroscopica e violenza microscopica. Ai miei occhi, rimane un mistero perché la seconda, come si dice anche nel paragrafo successivo, sarebbe quella “fascinosa”. (Fascinosa?) Probabilmente, qui l’obiettivo (giustamente) critico è la credenza falsa per cui un femminicidio sarebbe un atto isolato, un fulmine a ciel sereno. L’atto di violenza più estremo è invece senza dubbio il risultato di un processo, si radica in una storia. Il bagno di sangue conclusivo sarebbe in realtà prevedibile (ed evitabile), anticipato da tutta una serie di segnali che vengono invece sistematicamente ignorati, in un contesto come il nostro, in cui gli abusi e le manipolazioni sottili fanno parte del mobilio di ogni casa che si rispetti, borghese o proletaria che sia. Se fosse questo il punto, ben venga. Del resto, questo è il punto su cui sia studios* che attivist* hanno insistito e continuano a insistere con più determinazione. Perché la continuità tra violenza quotidiana, strutturale, invisibile, e l’exploit da titoli di giornale diventi palese, tuttavia, puntare il dito sulla condotta disdicevole del singolo non aiuta, e anzi travisa, che lo sguardo continua a zoomare sul momento, sul fatto isolato, sul particolare, mentre le connessioni d’insieme sfumano e si perdono sullo sfondo.
Ecco qui, allora, il nodo centrale della mia obiezione. Anonimo/a è convinto che la violenza di genere possa essere affrontata solo in due modi: o spiegata in senso evoluzionistico/biologistico, (violenza naturale, e perciò necessaria), o condannata moralmente. Ma tertium non datur solo nella ricostruzione che sto mettendo in discussione. Spiegare la “genesi” della violenza non significa darla per scontata, vederla come inevitabile, al contrario. La comprensione delle radici dell’immoralità mira all’avanzamento cognitivo, e il suo fine, il superamento della violenza, è pratico. “E non c’è forse un dovere di reagire alla maledizione?” Appunto, non si può essere all’altezza di questo dovere se ci si limita a uno sguardo morale che non può che diventare moraleggiante o moralistico.
La maledizione smette di essere tale solo grazie ad un approccio strutturale, impegnato, cioè, a ricostruire il fitto intreccio di radici che sostengono e nutrono quello che si vede in superficie. Queste radici non sono mai del tutto “naturali”, ma una rete, sottostante a tutti gli ambiti di interazione sociale, fatta di regole, leggi, riti, valori, convinzioni, costrutti identitari, pattern affettivi, istituzioni. Per esempio, quelle identità tradizionali di genere – o sei uomo o sei donna (tertium non datur), se sei uomo devi essere indipendente, farti valere, saperti procacciare le cose che desideri a qualsiasi costo, etc., se sei donna devi saperti prendere cura delle debolezze altrui, delle loro dipendenze, accondiscendere, evitare il più possibile i no, etc. – che sono sopravvissute imperterrite alle fluidità postmoderne e neoliberali. O ancora, per esempio, la credenza, nonché abitudine pratica, per cui libertà dell’altr* sarebbe un limite alla e non una condizione per la nostra libertà. Per esempio, quelle idee secondo cui la gelosia, la follia, il deragliamento fungerebbero da indicatori positivi dell’intensità di una passione, il desiderio sarebbe solo desiderio di possesso e fusione, l’amore coinciderebbe con l’esclusività. Per esempio, quelle dinamiche sociali e non solo emotive di interdipendenza, in cui la difficoltà di lasciare il proprio aguzzino non è solo una questione di sentimenti, ma anche di sostentamento materiale, o di praticità logistiche. Per esempio, etc. etc.
Forse l’uomo violento e femminicida non è un malato, ma la società che si riproduce (malamente) in forza di strutture di questo tipo lo è, e va cambiata. Quello che la persona singola (anonima o no – e in alcuni discorsi l’identità, per esempio di genere, o quella data dal colore della pelle, o dalla classe sociale, non è qualcosa che si possa nascondere facilmente) prova o fa – odio o compassione, desiderio di vendetta o istinto di cura, puntare il dito, cercare di comprendere e spiegare – è determinante, ma lo è nella misura in cui lo scopo è la trasformazione strutturale, non il lavaggio di coscienza.
[L’immagine in copertina è una scena del film Gaslight (George Cukor, 1944), in cui il protagonista maschile si impegna a far credere progressivamente a sua moglie di essere pazza, finendo così per farla anche quasi impazzire, con lo scopo di derubarla. “Gaslighting” è il temine usato per definire un tipo particolarmente efficace di abuso psicologico (ma non solo), e ha una connotazione fortemente di genere. Una donna non è una vittima, ma lo diventa, non solo quando diviene oggetto di violenza, ma anche e soprattutto quando viene portata a dubitare di se stessa, a mettere in discussione il suo punto di vista sulle cose, la veridicità delle sue impressioni ed emozioni.]
[1] Si noti come la formulazione dell’anonimato non mette qui in discussione il binomio di genere: il pezzo è scritto o da un lui (anonimo) o da una lei (anonima). A parte la limitazione dell’anonimato stesso, l’esclusione dei generi non conformi al dualismo non è senza strascichi, nel contesto di un discorso sulla violenza di genere. Ma non insisterò su questo.
[2] Si veda l’articolo uscito su Repubblica il 23 Novembre 2020, “Più centri per uomini violenti”. La nuova sfida contro I femminicidi, a firma Viola Giannoli.
[3] Si veda per esempio Diana E. H. Russell e Roberta A. Harmes (a cura) Femicide in global perspective. New York: Teachers College Press 2001;Barbara Spinelli, Femminicidio: Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale. Milan: Franco Angeli 2008; Claire Laurent, Michael Platzer, and Maria Idomir, Femicide: A global issue that demands action, Vienna: Academic Council on the United Nation System (ACUNS) 2012. Per altri riferimenti, ho scritto un articolo su queste cose qualche anno fa.
Grazie! Da quando sono comparse le teorie “volatili” di anonimo/a ho sfiorato il pulsante per cancellare l’iscrizione a questo sito almeno una decina di volte. Una risposta ponderata come questa, che contiene seri spunti di riflessione ma anche ovvietà (nel senso buono del termine, cioè ragionamenti che dovrebbero essere ormai ovvi, sebbene evidentemente non lo siano) mi trattiene e mi rasserena. Non capivo come si potesse dare spazio a voci di così “sottile” consistenza e limitata logica in un contenitore di spessore come mi è sempre parso essere leparoleelecose.it
Ora mi rincuoro. E stimo la sua pazienza, la sua precisione, il suo “gesto educativo” (anche fosse involontario).
Femminicidi e violenze fatte alle donne
Di femminicidi si parla molto in Italia, e lo si fa con uno stato d’animo che rasenta l’isteria. I dati statistici ci dimostrano che non esiste un boom di femminicidi. Inoltre il triste fenomeno è molto meno diffuso in Italia che in altri paesi europei, considerati molto avanzati e progrediti.
Dacia Maraini invece, e con lei vi è l’intera élite intellettuale italiana (lo fa anche Federica Gregoratto), per spiegare questo presunto boom di femminicidi sostiene che gli uomini non sopportano piu’ le donne autonome, emancipate, ormai uguali all’uomo: “È la reazione contro l’indipendenza della donne. Più si rendono autonome, più la violenza contro di loro aumenta.” Il maschio, insomma, reagirebbe con la violenza alla sua precipitosa perdita di prestigio e di potere.
L’uomo di ieri, “padre padrone”, si è reso responsabile senz’altro di molte violenze, anche nell’ambito familiare. Il fatto aberrante che si possa considerare l’essere amato una sorta di proprietà privata è un fenomeno complesso. Ma la reificazione dell’altro non conosce limiti di genere. Abbondano infatti le donne che considerano l’uomo un puro strumento (io ne sono uno dei tanti testimoni diretti, e la mia non è una battuta).
Del modello “uomo tradizionale”, che noi abbiamo conosciuto dal vivo grazie a nostro padre, oggi si tende a dare una rappresentazione caricaturale, dimenticando di menzionare il pesante fardello che gli imponevano le responsabilità famigliari e sociali; il suo ruolo distinto, insomma.
Le femministe hanno voluto spogliare l’uomo dei suoi privilegi, veri o presunti che fossero, con il risultato pero’ che nella sua nuova versione di “uomo-donna” l’ex “uomo tutto d’un pezzo” si è trovato alleggerito dei tanti obblighi e responsabilità, e dei condizionamenti che le regole connesse al suo ruolo tradizionale gli imponevano.
L’amore, sentimento tanto esaltato, quando basato sull’attrattiva sessuale è un sentimento irrazionale e anche egoistico, puo’ invece condurre ad eccessi anche fatali. Inoltre, l’esaltazione dei sentimenti, la spontaneità, la libertà anarchica, il piacere, il rifiuto dei ruoli tradizionali e delle loro regole, non possono che spingere certi uomini, già di per sé complessati e violenti, e ormai pienamente liberati dal giogo della tradizione e dei suoi interdetti, a comportarsi da predatori. E cosi questi nuovi maschi liberati quando sentono il bisogno impellente, vogliono accoppiarsi, senza troppo aspettare, con questa donna-uomo tanto piu’ debole fisicamente di loro.
Non c’è che dire: molte donne occidentali, grazie al femminismo, sono scese al livello dell’uomo. Presso le nuove generazioni, questa “parificazione” ha posto la donna in una posizione di vulnerabilità date le grandi differenze, che, non dispiaccia alle femministe, caratterizzano i due generi nell’impietoso mondo della natura. Inoltre questa “donna-uomo” continua ad essere provvista di quel prezioso bagaglio che è il suo speciale apparato sessuale, complementare al nostro. E cosi’ si diffonde sempre di piu’ il fenomeno di giovani che stuprano in gruppo, nel corso di una festicciola, un’« amica », anzi un “amico con la f…a”, dato che non esistono piu’ altre differenze connesse al “genere” che non siano le differenze anatomiche. Il che mostra i frutti tossici di questa “liberazione” dalle sovrastrutture culturali condizionanti attraverso obblighi e tabu’ il maschio tradizionale, depositario di privilegi ma anche di una lunga serie di comportamenti obbligati nei confronti della donna; della quale l’immagine virtuosa era allora quella di una madre, di una madonna, di una sorella, di una figlia, di una moglie. Immagine fatta bersaglio di incessanti pernacchi da parte delle nostre femministe.
Come accostare il poliziotto o la guardia giurata che, con l’arma in dotazione, uccidono la moglie, al gruppo di adolescenti o giovanotti che violentano una amica occasionale? Cosa c’è in comune tra una violenza di impronta patriarcale (pretesa di possesso, rabbia susseguente a frustrazione) e una violenza di uguali (i Fratelli che l’autorità del Padre non la riconoscono più), violenza predona che si impone su deboli occasionali? Non solo la violenza sull’amica, ma sul poverocristo mendicante, sul disgraziato che li incoccia per caso…
La violenza maschile è sfaccettata, in epoca post-patriarcato. Eppure… è maschile! Ma, senza partire dalle sue sfaccettature non se ne esce,
Una cecità, un ricorso alla violenza *in quanto* soluzione: per un piacere, per noia, per una frustrazione, per una rabbia, per imporsi, per “fare giustizia”. E del resto che cosa trasmettono quotidianamente le guerre e l’immaginario se non la violenza come soluzione definitiva?
Concordando ancora una volta con Claudio Antonelli, non mi resta che chiedere perché un articolo incentrato sulla violenza che i maschi usano alle donne ricorre al termine “genere”, il quale ha un senso solo se non si riconosce la bipolarità dei sessi ?
Grazie a tutt* per i commenti.
Il commento di Antonelli, in realtà, non lo capisco bene, ma mi sembra di leggervi una conferma alle mie tesi: mettere in discussione le identità tradizionali di genere, l’emancipazione delle donne, da fastidio, fa paura. Qua mi viene la tentazione in effetti di lasciarmi andare a un moralismo sconsolato…
@ alcuino: io non userei la parola “maschi”, che riduce questo genere di essere umani a degli organismi unicamente biologici, e insomma, io non credo gli uomini siano solo delle bestie :) (con tutto il rispetto per le bestie…) In secondo luogo, la bipolarità del sessi è un problema, per me, è un problema che c’entra con la violenza in questo contesto (ed è pure un problema da un punto di vista biologico, che in natura ci sono molte differenze sessuali)
Gentile Frederica Gregoratto, resta il fatto che, nei fatti e ancor più nelle parole, la violenza in questione è catalogata e analizzata come quella fatta dai maschi nei confronti delle femmine -a tal punto che si è tanto insistito per coniare il termine “femminicidio”. Anche per me meglio usare uomini e donne ma la sostanza cambia ? Non direi. Dunque o si abolisce la bipolarità in toto, e non si parla più di violenze di un sesso nei confronti dell’altro; o la si mantiene in toto, e si parla di violenze tra i sessi, o qualsiasi altro termine che mantenga la suddetta bipolarità.
Sarebbe strano intitolare un saggio “L’ Economia mista nel Medio Evo”, per esempio, e poi impostare tutto il saggio sulla perfetta opposizione tra feudalesimo e capitalismo. Naturalmente non mi riferisco solo al suo articolo, anzi.
Si parla di violenza di genere perché c’è una specifica dimensione di genere che caratterizza tale violenza, ovvero una violenza commessa dai maschi ai danni delle femmine, osservabile in tutte le epoche, culture, classi sociali, eccetera. La questione dell’opposizione al binarismo di genere è irrilevante per tale paradigma. Non solo perché risulta essere un problema solo per una netta minoranza di persone. Nella realtà esistono due sessi e due generi. La violenza che subiscono le donne esiste per un motivo, è un portato del conflitto sessuale, conflitto presente in tutte le specie sessuate. Nella specie umana tale conflitto ha assunto le sue forme ed è stato culturalmente plasmato, producendo quello che è stato chiamato patriarcato, con le sue forme di misoginia e sessismo. Detto ciò, non tutta la violenza esiste per questo motivo. La violenza è infatti uno strumento, e tutti gli organismi viventi vi ricorrono, spesso approfittando della posizione di forza in campo. Nella vita di coppia tutti compiono violenza. In ambito internazionale infatti si parla di “intimate partner violence” in maniera neutrale. Ma c’è appunto la “gender based violence”. Per lo stesso motivo per cui ci sono violenze comuni e violenze di matrice razzista, quest’ultime culturalmente determinate in base al contesto. In linea di principio un nero razzista in Italia potrebbe compiere una violenza contro un bianco, nella pratica ciò non avviene. Avviene forse in Sud Africa, non sono bene informato. In Italia tali violenze le possono subire i neri e certi stranieri. In Italia si è sempre parlato di delitto passionale, nell’ambito delle relazioni sentimentali, abitudine dovuta a una mancanza analitica, che impediva di andare a conoscere davvero quei casi e di capire cosa c’era sotto, ovvero la violenza di genere. Poi, come avviene spesso, per contrasto adesso parlare di passione suscita scandalo, quando non sarebbe sempre sbagliato. Lo si vede nei casi di omicidi e violenze all’interno di coppie omosessuali, dove chiaramente non si può dare la colpa al patriarcato. Ma ciò non toglie che nella violenza compiuta dagli uomini nei confronti delle donne c’è tutta una ragione dietro, data dal mix di violenza finalizzata al controllo sulla donna, possibile maggiore predisposizione alla violenza negli uomini, e socializzazione maschile, ovvero il modello maschile che struttura i comportamenti dei futuri uomini. Lo si vede nelle interviste agli autori di violenze, che spesso neanche si rendono conto di quello che fanno, perché lo reputano normale, lo hanno visto fare dagli altri maschi, era un modello di comportamento richiesto, è un modo di crescere insieme da ragazzi, eccetera.