a cura di Massimo Gezzi

 

[Settima apparizione per “Visite allo zoo”, la rubrica a cura di Massimo Gezzi costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco Targhetta, Marco Balzano, Marilena RendaGian Mario Villalta e Paolo Febbraro, oggi risponde Tommaso Di Dio].

 

1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?

 

Insegno da quando avevo 23 anni. Per 12 anni ho lavorato in un istituto non parificato di Milano, finché quattro anni fa non ho vinto il concorso e sono entrato in ruolo nella scuola pubblica con orario pieno (18 ore frontali, più un numero  nebuloso e assai variabile di ore di preparazione delle lezioni, riunioni e gestione burocratica, correzione dei compiti e colloqui). Attualmente insegno in un istituto tecnico della provincia di Milano.

 

2) Ho intitolato un recente contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?

 

Sì, Massimo, sono d’accordo con quanto scrivi. Sento però di dover subito sottolineare un imbarazzo. Che è anche la ragione per cui ci ho messo così tanto tempo a rispondere a queste  tue domande. Ti chiedo scusa: non mi sento a mio agio a scrivere queste righe. Non so: non ho idea a che titolo stia parlando qui. Da un lato in me c’è l’insegnate, dall’altro lo scrittore e l’operatore culturale. Fra i due ambiti, non c’è praticamente dialogo. Non so se è colpa mia (forse fondamentalmente sì), ma credo che la questione vada oltre me e le mie nevrosi che mi portano a separare l’ambito del lavoro salariato da uno spazio che tengo libero e liberato da ogni tipo di costrizione sociale. E credo che il problema non riguardi neanche soltanto la poesia. Ormai, da quanto vedo, da quanto sento, si è consumato un divorzio definitivo fra cultura e istituzioni scolastiche.

 

A me pare che, sempre con più forza, chi provi a fare cultura (se con questa parola intendiamo il lavoro di coloro che provano a trasformare se stessi e la propria consapevolezza), sia tendenzialmente tenuto a distanza dalla scuola. Si cercano sempre più i produttori di prodotti, si cercano gli informatori, gli esperti: i professionisti. Due cose, la perizia e le informazioni, che non hanno nulla a che fare con l’essenza della cultura: che è la capacità (e il coraggio) di essere in crisi e di costruire così una dimensione dell’agire e del pensare che non sia ripetizione meccanica, ma consapevolezza. Questa dimensione non trova posto nella scuola se non per la buona volontà dei professori, per l’incontro fortuito e del tutto casuale con qualcuno che ha cuore la vita umana e sa, magari, anche, coltivarla. Spesso, se un professore prova a far entrare la sua domanda, la sua interrogazione dentro la scuola, deve farlo a titolo puramente personale: come fosse una propria fissazione, una specie di malattia. Viene guardato male, con sospetto. La scuola accetta soltanto ciò che è rassicurante, certificato e normato, solo informazioni ed esperti: ovvero, solo ciò che è già preventivamente pensato e adattato per la scuola. E questa è la morte di ogni formazione: manca  l’impatto con il diverso.

 

Ma c’è un secondo aspetto che vorrei sottolineare, che forse è più subdolo ancora. Per una legge di cui non so distinguere i confini, ciò che viene svolto in classe sembra non poter minimamente entrare nella vita degli studenti: rimane confinato in un recinto psichico, più che fisico, e da lì non esce. Dalla mia impressione, fra la scuola e il mondo c’è scarsa porosità. Per quanto i docenti e i genitori cerchino di creare continuità (e ci provano davvero), sono i ragazzi che la rifiutano: la scuola è la scuola e la loro vita è altrove: è sempre altrove. E questa mancata porosità non riguarda soltanto le materie letterarie. Insegnando in una scuola tecnica, lo vedo con ancora maggiore forza: le stesse materie di indirizzo sono spesso lontane dallo svolgimento reale che queste discipline hanno nel mondo del lavoro. Tanto che spesso, dopo uno studio tecnico, per chi non voglia fare l’università, si rende necessario affrontare un ulteriore corso formativo o un aggiornamento sostanziale di ciò che ha studiato. Senza parlare dei molti (sono davvero tanti), che hanno compreso ormai troppo tardi che la scuola che hanno scelto era assai diversa da ciò che avevano immaginato: dopo cinque anni, pur avendo un diploma di perito, scelgono deliberatamente di fare tutt’altro. Ed è legittimo sì, ma si ritrovano spesso carichi di anni di frustrazioni e portatori di una schizofrenia fra vita privata (di cui non si parla mai) e di una vita scolastica, fatta per lo più di convenzioni e stereotipi. La scuola ha solamente spappolato il loro cervello. Proprio questo tipo di ragazzi, che sono portatori di una domanda, che non stanno nei cassettini preconfezionati degli indirizzi, sono quelli maggiormente puniti dal sistema. In quattro anni di insegnamento con la pubblica e in 12 di insegnamento in una scuola di recupero ti assicuro che ne ho visti a decine. Sono studenti sensibili, profondi, con delle domande grandi, che magari si ritrovano isolati per le ragioni più varie: la scuola li abbandona totalmente. Ti faccio solo due esempi.

 

Un ragazzo anni fa: scriveva racconti bellissimi, carichi di violenza contro l’ipocrisia sociale, con un gusto per le clausole ad effetto spiazzante, lucide, taglienti; pur divorando ogni libro che citavo in classe (da Nietzsche a Chuck Palahniuk), per anni è stato ritenuto dai miei colleghi (e dai compagni) una sorta di minus habens: finalmente quando si è diplomato era talmente scoraggiato e distrutto, dopo anni di demoralizzazioni, tribolazioni e isolamento, che gli era impossibile immaginare che fuori dalla scuola sarebbe stato diverso: ha scelto di non continuare gli studi e di fare un lavoro diametralmente opposto a tutto quello che aveva studiato.

 

Un altro: lettore di narrativa, appassionato di cinema underground, intelligente, libero, un ragazzo che si poneva delle domande, a cui non bastava la prima risposta (alzava sempre la mano), con una famiglia modesta, senza la possibilità di accedere agli strumenti per coltivare la sua sensibilità. È finito bocciato più volte e infine si è perso: ora lavora in un’azienda di pulizie notturne. Com’è possibile? Due lettori, interessati alla cultura e a formarsi un’opinione personale, due ragazzi che cercavano se stessi: entrambi praticamente espulsi dalla scuola pubblica. Altri invece mai un libro letto, operatori metodici e triviali, sempre muti come muli, promossi e portati in palmo di mano come i migliori studenti dell’anno. Insomma: meno problemi dai, meglio vai a scuola.  A me pare che ci sia un problema.

 

Insomma, la scuola non è minimamente strutturata sull’unica, reale domanda che ha senso affrontare negli anni di formazione. La domanda che chiede: chi sono io? Ancora meglio: cosa è io? Ancora di più: di cosa è fatto questa cosa che chiamo io? Come faccio a costruirlo? Come faccio a portare un ragazzo a capire e a costruire quell’io? A questa domanda risponde integralmente l’esempio di chi prova a muoversi nel campo della cultura: a questa domanda allena la poesia. A scuola, nessuno pone questa domanda.

 

3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?

 

Certamente sì. La causa è che i ragazzi che ho di fronte, a parte davvero pochissimi, non sanno come funziona un’opera d’arte. Conoscono benissimo i prodotti, come funzionano le merci e sono a loro agio con le merci e con i servizi, ma come si inneschi l’efficacia di un’opera d’arte no: niente. Di fronte ad una poesia (ma anche un quadro un film una musica) non vedono niente: cercano il pulsante start e non lo trovano. Ricordo una classe quarta: ho mostrato loro per la prima volta nella vita un’opera lirica. Nessuno di loro sapeva dell’esistenza né che cosa fosse un’opera lirica. Parliamo di 25 italiani di 17 anni, nella regione più ricca di Italia. Spesso mi sono ritrovato a dover partire dall’inizio, dalle grotte di Lascaux, dallo stupore del cielo stellato, ecc., ma alle superiori è già molto tardi, troppo tardi. Il funzionamento del linguaggio simbolico-associativo, ovvero la capacità di creare e di sentire emotivamente immagini interiori a partire dalle parole che si leggono, va allenata fin da bambini: se ha ovvie basi naturali, non è di certo naturale il suo altissimo sviluppo legato alla scrittura alfabetica. La poesia (come l’ascolto della musica, la visione di un’opera di pittura) richiede una tecnica di lettura altamente specializzata, frutto di una precisa acculturazione sociale. Se non avviene nelle famiglie, non avviene nelle classi, è difficile recuperarla alle superiori: non c’è il tempo. In quinta, alla fine del percorso, iniziano ad intravedere qualcosa. A lezione, dedico diverse ore ad aiutarli a “vedere” e a “sentire”. Per esempio quando leggiamo Pascoli e il suo celebre «campo mezzo grigio mezzo nero», cerco di fermarli e di non farli procedere oltre, fintanto che tutti non abbiano una propria immagine interiore davanti. Molti mi dicono: “prof. è difficile!” Capisci Massimo? A 18 anni non sanno vedere: non vedono niente, non sanno formarsi un’immagine interiore delle parole che leggono, figurati rapportarla alla propria sfera emozionale. Come si fa a fare Sereni, Caproni, Zanzotto? Ci si prova, con imbarazzo e rammarico per quanto non hanno fatto alle elementari, con la speranza che passi qualcosa: ed è giusto provare comunque a farli.

 

Ma il problema non è il mio imbarazzo, figurati. Il problema è politico. Quelle competenze simboliche danno accesso ad un livello di informazione e di riflessione che è prezioso per comprendere i messaggi impliciti della pubblicità, dei leader politici, dei contratti di lavoro, ecc.: se non li possiedi, sarai un lavoratore fragile, un cittadino dimidiato. Per non parlare della questione relazionale: conoscere il linguaggio dell’arte significa allenare l’empatia, ovvero la capacità di sintonizzarsi su di un’emozione altrui, saperla fare propria anche se non nasce dal proprio sé. I ragazzi per lo più non sanno farlo, nessuno li allena a farlo. Ci lamentiamo quando sentiamo i casi di violenza, i femminicidi e i reati transfobici, l’odio immotivato per gli immigrati e i diversi: ma qualcuno ha insegnato ai ragazzi a sentire con profondità le emozioni di una vita che non è la loro? Nessuno, Massimo, nessuno. Quando vedono sui loro schermi l’immagine di un barcone rovesciato, con i bambini affogati che affiorano dalle onde, non sentono nulla: questo è il problema fondamentale di cui nessuno parla. Lo chiamerei “analfabetismo simbolico”. Non bastano le leggi che puniscono i colpevoli e non basta dare informazioni. Se le persone si convincessero con le informazioni non fumerebbe più nessuno e Trump non sarebbe presidente degli Stati Uniti d’America. Nessuno si è convinto mai a fare nulla con le informazioni: bisogna allenare a sentire la vita degli altri, il dolore e la gioia altrui, altrimenti sarà sempre più barbarie.

 

4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittore e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?

 

Come ti ho già scritto, la relazione è poca, debole, non strutturale. Non molti a scuola sanno che scrivo e la cosa comunque sarebbe per lo più indifferente. È giusto così? Forse sì: scrivere non è insegnare. Sono due attività molto diverse e non per forza collegate. La mia passione per la letteratura e per la poesia è sicuramente importante quando mi avvicino ai testi della nostra tradizione e mi è utile per la trasmissione di alcune competenze di lettura. Ma non credo che in quanto scrittore sia un insegnante migliore. Alcuni ragazzi che hanno scoperto che ho pubblicato qualche libro e che mi seguono sui social mi hanno confessato che pensano addirittura che io mi arricchisca con l’attività di scrittore. Purtroppo li ho dovuti deludere subito. Ma sono curiosi soprattutto su come si fa a pubblicare un libro: mi chiedono cosa significa, come si fa materialmente a scrivere un libro, come funziona l’editoria. Il mondo del libro per loro è completamente esotico.

 

5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.

 

Sì, in seconda superiore regolarmente: nel programma scolastico c’è proprio il testo poetico e spesso leggo contemporanei. Negli altri anni, non in maniera strutturata. Così, se capita: a volte se posto in una storia una poesia, mi chiedono cosa significa, oppure magari un argomento di cui parliamo si lega particolarmente ad una poesia che ho nello zaino e allora la prendo e la leggiamo insieme. Poi ho fatto per due anni di fila, durante la cogestione, due ore di approfondimento sulla poesia contemporanea. È stato bello: diversi ragazzi della scuola si sono iscritti (ma anche alcuni docenti) e sono uscite cose interessanti. Poi mi è capitato – e lo farò ancora – di invitare ogni tanto qualche poeta a parlare alle mie classi. Sono sempre occasioni belle: i ragazzi ne escono sempre con qualcosa. Si fa quel che si può, insomma, senza eccedere. A scuola comunque preferisco leggere articoli scientifici, approfondimenti storici, sociali. Penso sia per loro più facile avvicinarsi ad una parola sapiente da questo lato. In linea generale però mi ha stupito come piacciano testi poetici fra loro molto diversi, che la critica tende a ritenere opposti e inconciliabili: per esempio ho riscontrato che Claudio Damiani e Nanni Balestrini risultano molto facilmente comprensibili, più di molti altri scrittori. Si fanno un sacco di risate sulla Signorina Richmond e capiscono subito la tecnica del montaggio. Damiani invece proprio per l’orizzontalità della sua scrittura e per i temi che sono molto forti e diretti.

 

Mi fa piacere raccontarti due episodi minimi, niente di affascinante o di particolare, ma sono due episodi che mi hanno lasciato qualcosa dentro e a cui ogni tanto ripenso. Il primo è di molti anni fa. Come ho già raccontato, lavoravo in una scuola di recupero anni scolastici. I ragazzi che frequentavano erano i più diversi. Da sportivi impegnati in tornei internazionali, semplici scansafatiche, a chi invece aveva malattie croniche che gli impedivano di studiare regolarmente e poi c’era chi era agli arresti domiciliari. Uno di questi, ricordo, era impenetrabile: non riusciva a fare nulla, non voleva fare nulla. Un ragazzone pallido: era impossibile fargli lezione. Il suo umore malinconico e refrattario, lievemente paranoico ossessivo, era anche governato dai farmaci che assumeva continuamente. Subiva infatti gli effetti di anni di abusi di droga e viveva tutto il giorno a casa con la madre, a seguito di una condanna per un brutto furto. Usciva solo per andare a scuola e ti lascio immaginare come viveva la sua situazione. Beh, una mattina, disperato, ho deciso di rinunciare del tutto a seguire il programma e gli ho letto integralmente il libro La scolta di Gian Maria Annovi. Non so cosa gli abbia preso, ma quel libro lo aveva risvegliato. Gli piacque moltissimo l’idea del confronto fra la badante e la signora anziana: parlammo del senso di straniamento che l’uso di quella lingua falsamente povera significava, parlammo della solitudine prima della morte, della vita, dell’amore fra le persone. Ricordo che disse: “è questa la poesia contemporanea?” Non aveva mai sentito una roba del genere. Da quel giorno, avevamo trovato una connessione. Non diventò mai un ragazzo studioso e suoi problemi non finirono, ma si creò una sorta di rispetto reciproco che ci portammo dentro fino alla fine dell’anno.

 

L’altro episodio è invece accaduto più recentemente. Seguo dalla prima una classe che proprio non ha niente a che fare con l’arte: bravi ragazzi, ma per formazione e contesto sociale completamente estranei, se non fosse per la scuola, alla lettura e alla cultura. Un giorno uno studente di questi, di famiglia umile (il padre lavora con le mucche), mi chiede a bruciapelo una cosa del tipo: “Prof., lei come vive i suoi ricordi?”. A volte queste cose accadono: gli studenti perforano strati e strati di convenzioni, pigrizie e silenzi, e pongono la domanda centrale, così, in una mattina d’inverno. Capisco che la domanda è sincera e allora mi metto in gioco. Avevo quella mattina per caso un libro di Antonella Anedda nello zaino: Dal balcone del corpo. E proprio durante il viaggio che mi porta a scuola ero rimasto su di una poesia bellissima: il Coro che inizia con il verso «Vediamo da fessure indietreggiando dove la calce scende dai portoni». La poesia poi procede con il verso «una parte di noi ghiaccia quanto di più caro le rimane». Era una poesia difficile per loro. Ci siamo stati sopra due ore, tutti insieme: cercavano di capire, di entrare, di vedere, di dare interpretazioni per quelle immagini così potenti ed enigmatiche. Abbiamo parlato di noi, delle nostre vite e dei nostri ricordi personali grazie alle parole della poesia. È stata una mattina di scuola, di quelle semplici mattine che non si dimenticano e che mi fanno capire perché, a discapito di tutto, amo questo lavoro.

 

6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei uno scrittore: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?

 

Sicuramente può essere un tramite: a me è capitato di aiutare un paio di studenti ad avvicinarsi al mondo della scrittura in maniera più seria. Un mio studente è stato selezionato ad un premio di racconti dedicato proprio ai ragazzi delle superiori e spero tanto che continui a scrivere. A volte ti chiedono qualche consiglio, ti mandano le loro poesie. Dove sono adesso è più raro, ma chi può dirlo? Montale e Quasimodo hanno fatto una scuola tecnica, simile a quella dove insegno io. Però tutto resta molto sul piano personale: un incontro fortuito con un professore giusto, la presenza o meno di un buon giornale scolastico sono tutte cose che possono avvicinare alla scrittura e cambiare la vita. Sicuramente su questo fronte c’è molto da fare: sarebbe bello se le case editrici si riunissero in un consorzio per la promozione della lettura nelle scuole.

 

7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innestano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:

 

Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.

 

Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?

 

Capisco la provocazione di Mauro e quanto scrive sulla scuola è sempre molto stimolante. Nondimeno non mi ritrovo molto in queste parole: forse la sua esperienza nei licei lo porta a maturare una sensazione un po’ diversa dalla mia. L’esame di maturità non è già più da alcuni anni una stretta verifica sui contenuti. Il professore tace per lo più: propone un testo e ascolta come uno studente si muove. Ma si deve partire da una serie di testi che sono stati condivisi. L’esame è lo specchio di una relazione che si è costruita con lo studente e di quanto si è saputo trattenere di questo cammino insieme, non certo un quiz, ma neanche una chiacchierata senza direzione. Quest’anno, in quest’unica e strana maturità durante pandemia, ho avuto una sorpresa. Ad un ragazzo, che ho sempre ritenuto bravo, ma a cui quest’anno (come del resto ai compagni) è mancata l’occasione per dimostrarmelo in pieno, ho proposto un testo di Baudelaire: l’Albatro. In totale indipendenza, lui ha tracciato in dieci minuti un percorso eccezionale fra tutti gli animali che avevamo incontrato durante l’anno in letteratura e i rispettivi significati che potevano avere per gli autori in cui li avevamo trovati. L’albatro è stato allora accostata all’asino di Rosso Malpelo, alla capra di Saba, al «falco alto levato» e al «cavallo stramazzato» di Montale. Un percorso che mi ha lasciato senza parole: non avevamo mai svolto insieme queste riflessioni e mi ha davvero mostrato cosa significa avere acquisito una competenza. L’esame di stato è esattamente questo: la conferma di aver saputo costruire se stesso, a partire da una relazione materiale: da una tradizione che si è messa in comune.

 

8) Ultima curiosità: fai l’insegnante di lettere (o di altro) anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante di lettere (o di altro), da qualche parte nel tuo percorso?

 

Caro Massimo, queste cose si perdono nei labirinti dell’ereditarietà e del mistero. Innanzitutto mia madre è stata insegnante di italiano alle elementari. Anche il padre di mio padre – che non ho mai conosciuto però – è stato insegnante delle elementari. Forse qualcosa è passato da qui, dal sangue di famiglia. Il lavoro di insegnante mi è sempre sembrato fin da quando ero alle superiori quello a me più adatto. Già volevo scrivere e sapevo che non avrei campato con la mia scrittura: insegnare mi sembrava un buon compromesso di vita. Poi sì, certamente, ho incontrato due incredibili professoresse. Una proprio al liceo, Costanza Faraggiana: una donna di grande cultura, appassionatissima di filologia medievale, che nel tempo libero studiava russo e passava l’estate a seguire le conferenze a Oxford sul latino tardo antico. Una vita che non avevo mai visto, che non credevo possibile, che mi affascinava per la serenità che emanava. L’altra a cui devo tantissimo però è stata la mia insegnante di italiano delle medie: Rita Legnini. Una donna eccezionale, a cui ho continuato a fare visita per molti anni fino alla sua recente scomparsa qualche anno fa. Era una donna appassionata di musica classica (soprattutto barocca), di psicanalisi,  di cinema e di teatro. Mi regalava tanti libri. Ricordo le sue letture di poesia in classe: la prima emozione per le parole venne dalle sue labbra. Era una donna ricca e colta, che aveva scelto di insegnare alle medie in un piccolo paesino di provincia. Mi fece capire una cosa essenziale: studiare significa riuscire a parlare e a farsi comprendere da molti, non formulare idee per pochi. È un insegnamento che mi porto dentro.

 

Luglio 2020

5 thoughts on “Visite allo zoo /7: Tommaso Di Dio

  1. condivido il pensiero sulla scuola di Tommaso. l’arte è una sconosciuta, spesso perchè non si sa insegnare a guardare da diverse angolazioni un’opera. Spesso perchè non si mostrano i perchè che si celano in un’opera e, altresì, perchè moltissimi docenti sono più preoccupati del programma che del gusto della scoperta. I tempi dell’insegnamento dovrebbero essere lenti, dovrebbero essere i tempi della sedimentazione, della manipolazione anche ludica del linguaggio artistico. complimenti a Tommaso e al vostro spazio. (Teresa Radice, docente di disegno e storia dell’arte – prov. milano)

  2. Buongiorno. Mi è piaciuto molto questo articolo: sono una persona qualunque a cui piace leggere, pratica che ho scoperto dopo le superiori. Ricordo in seconda superiore dell’istituto tecnico che frequentavo, la professoressa d’italiano che ci leggeva ‘Il Maestro e Margherita’, in un caldissimo e sonnolento pomeriggio di maggio. Lì per lì non capivo nulla e non ero una studentessa modello, ma a distanza di trent’anni è il libro che ancora preferisco e mi ha fatto amare la lettura. Sono stata fortunata ad imbattermi in questa professoressa e ancora la ringrazio.

  3. Molto bello questo articolo. Raramente se ne leggono di così chiari e scritti con sobrietà e senza ricercatezza. Mi ha ricordato Giuseppe Pontiggia .
    Dà un po’ di respiro leggere parole che parlano agli altri

  4. Ringrazio Teresa, Patrizia, Francesca per i commenti e chiunque sia passato da queste righe e abbia dedicato del tempo alla lettura. Mi è sempre stato difficile parlare del mio rapporto con la scuola e l’insegnamento della poesia: questa rubrica ha il merito di spingere a mettersi a nudo. La scuola è un bene di tutti ed è bello che ancora susciti passione e desiderio di dialogo. Sarebbe bello che la conversazione su questi temi continuasse nelle aule, con gli studenti. Un saluto.

  5. “Non so se è colpa mia (forse fondamentalmente sì), ma credo che la questione vada oltre me e le mie nevrosi che mi portano a separare l’ambito del lavoro salariato da uno spazio che tengo libero e liberato da ogni tipo di costrizione sociale. ”

    Questa certo è l’esperienza di molti. Pochi sono coloro che pensano e/o praticano l’insegnamento come uno spazio libero e liberato da ogni costrizione sociale. O meglio, che così suona errato, come primo spazio e impegno personale e professionale per permettere che con lo studio ognuno abbia il proprio spazio libero e liberato. Insomma, sono pochi i docenti che siano, come dire, insegnanti dentro fino al proprio midollo (questo non succede per esempio con i medici e gli avvocati). Non saprei perché, ma è un elemento pervicace e non secondario di varie disfunzioni. Onestà a Tommaso a sentirlo come un proprio limite, compromesso, “sentirsi non a proprio agio”, e ammettere che tra i suoi ” due ambiti [insegnamento; operatore culturale], non c’è praticamente dialogo”, il che è francamente paradossale.

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