Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
[Questa rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, nasce dal desiderio di entrare in dialogo con altri poeti, scrittori e chissà, in futuro, anche artisti, chiamati a rispondere a un identico questionario.
La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.
Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.
L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).
Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.
Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro? (Laura Pugno)].
Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Metto qui, in questo spazio, un’analogia, allo stesso tempo precisa e imperfetta come tutte, che la situazione della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Cosa te ne sembra? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?
Per rispondere a questa domanda sono andata a ripescare la mia copia del Manifesto, che incontrai nel 2013. Nel punto che citi (“Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente”) avevo appuntato: “anche la poesia è uno di questi luoghi”. Questo punto di contatto profondo non basta a rispondere alla domanda, perché il tempo passato nel mezzo ha in parte modellato questa intuizione. Al momento, ho provato a mettere in discussione la questione del Terzo Paesaggio. Sono entrati nel mentre, nel discorso collettivo, concetti ulteriori, ben riportati in alcuni dei dialoghi che sono raccolti qui (rimando alle risposte per esempio di Meschiari o Morresi) e questioni urgenti a livello mondiale (prima ancora della pandemia, e qui rimando alle risposte di Cimatti, il movimento dei ragazzi ispirato da Greta Thunberg). C’è anche una specie di fascinazione mistificatoria verso il selvatico, il paesaggio aperto da attraversare per esempio a piedi, con un filone che inneggia al valore del cammino in sé, dell’inselvatichimento in quanto tali. La mia esperienza dei luoghi di margine mi riporta che essi non per forza sono valore in sé, perché nell’incuria (sia essa nella forma dello sfruttamento estremo di un territorio, sia essa nella forma dell’abbandono) sta, più che la libertà, il caos. Un disordine che va poi a toccare non solo gli esseri umani, perché i passaggi di virus tra specie diverse, o i disastri idrogeologici, coinvolgono naturalmente non solo noi (se solo di noi volessimo occuparci). Se poi vogliamo fingere che non ci importi di poter abitare il mondo, e che esso farà meglio senza di noi, possiamo farlo; ma continuo a credere che ci piacerebbe evitare di far estinguere la terra e con lei noi stessi, e che tutto questo parlare di collassi e tracolli non sia altro che un tentativo di evitarli. C’è un libro di Laura Zampieri, docente di Architettura del paesaggio, in cui si sottolinea come qualsiasi azione si depositi sempre in una forma, e quindi si rende necessario interrogare il segno quale unità capace di definire la dimensione dell’azione rispetto al suo esito di trasformazione dello spazio. La relazione con la forma e il segno mi richiama naturalmente la poesia. Il modo in cui posiamo il nostro sguardo, pensiero e agito nel mondo, la nostra relazione profonda con l’altro, trova un parallelismo nella poesia quale frutto di pensiero, sguardo, azione e naturalmente relazione con l’alterità più assoluta. “Questi piccoli boschi ci sembreranno sempre abitati, non fosse che da un’assenza” scriveva Jaccottet. La poesia è la condizione in cui ogni paesaggio appare per come è ed essendo al contempo oltre se stesso. È il bosco di Hansel e Gretel, senza di cui la loro piccola storia non potrebbe accadere.
E la letteratura, l’arte più in generale? Che tipo di paesaggio occupano intorno a questo incolto, residuo, friche?
Penso al teatro. Sicuramente potrebbe essere un’arte residuale, se intendiamo con questo quello che Clement definisce ‘ciò che deriva dall’abbandono di un’attività’. Cos’è che viene abbandonato esattamente? Ovviamente la questione economica è solo l’aspetto esteriore della faccenda (e come tutte le questioni esteriori, anche fondante e rivelatoria). C’è uno stato d’abbandono generale, per certi aspetti, anche da parte degli artisti stessi a volte, che abdicano al loro ruolo di pensiero e creatività e cura dell’invisibile per sottostare ad altre logiche e preoccupazioni. Io mi auguro un senso contrario, che il teatro, e la poesia, abbandonino la retorica della Resistenza, reso ormai evidente che è del tutto inadeguata e persino nociva allo stato dei fatti. Io mi auguro che si dedichino all’altro senso della parola abbandono, che si abbandonino definitivamente alla loro alterità assoluta, si contaminino sempre più con l’esterno in senso lato, smettendo di trovare nel resistere a tutti i costi un valore. Opporre resistenza significa in qualche modo porsi nella condizione di farsi carico della pressione di un certo modo di vivere e interpretare il mondo, per difenderne un altro opposto. Ma il tutto resta nello stesso sistema, nello stesso paesaggio devastato. L’arte secondo me può essere un modo in cui si presenti, o quantomeno si prefiguri, una possibilità ulteriore, che tenga in considerazione spazio, tempo, persone umane e non umane, dèi, il regno dei vivi e dei morti. La grande possibilità di attraversare questo nel corpo dell’attore, ad esempio, un corpo che è la sparizione del corpo nella presenza, all’interno di una comunità viva nel qui-e-ora, mi sembra straordinaria. Tutto questo riguarda fortemente la poesia, anche. Se riesce per prima cosa a stare nella dimensione dell’ascolto, del mettersi a disposizione.
E uscendo dalla letteratura? Dove ci conduce questa conversazione. Verso quali campi? Verso quale politica nel senso più ampio di questa parola, che riguarda non solo il politico come è normalmente inteso ma anche (oltre) l’umano?
L’azione più politica che si possa fare oggi è trovare le parole giuste.
Che cos’è che non ti ho chiesto, e che vorresti dire?
Un accenno esplicito sul futuro. L’arte e la poesia non possono non prenderlo in esame, così come non dovrebbe escluderlo la politica, che invece sappiamo essere del tutto miope. Se poniamo la poesia come ambiente in cui il nostro più profondo accadere può (eventualmente, anche se non necessariamente, diciamo come speranza) trasformarsi in azione che si fa segno sul mondo, la pratica di questa consapevolezza va percorsa ogni giorno, con tutti, a partire dai bambini. Per tale ragione vorrei concludere con le prime due strofe di una filastrocca di Carol Ann Duffy che si intitola Le parole delle poesie (traduzione mia).
Le parole delle poesie sono chiodi
che appendono il vento a una pagina,
così che l’ora andata
quando l’aquilone ti strattonava sul prato
soffia ancora nei tuoi capelli.
Sono specchietti, le parole di una poesia,
che trattengono le lacrime versate,
come un borsellino fa con gli spiccioli
o il sussurro che disse le cose.
[Immagine: Foto di Matias Abel Pera].