di Pietro Maffettone
[Pubblichiamo il sesto intervento della rassegna intitolata Chi ha ucciso la critica? Un’indagine indiziaria, a cura di Mariano Croce, in cui autrici e autori si confrontano sulla recente contrapposizione, dialettica o meno, tra critica e postcritica. I primi interventi possono essere letti qui, qui, qui, qui e qui].
Voglio iniziare con un avvertimento assai chiaro: non sono un esperto di postcritica. Mi approccio ad essa con una postura dettata dalla curiosità intellettuale, non dalla lunga frequentazione accademica. Nel suo scritto, Lorenzo Bernini dice di voler entrare nel dibattito ‘in punta di piedi’; ispirandomi a lui, vorrei fare lo stesso. Ciò premesso, vorrei sostenere due tesi in quanto segue. La prima riguarda un parallelo che, a detta di chi scrive, può risultare assai fecondo di contaminazioni fra diverse tradizioni intellettuali. Partendo dall’interpretazione della postcritica offertaci da Mariano Croce e Natascia Tosel, cercherò di mostrare che esistono dei punti di contatto fra postcritica e la critica di Bernard Williams al cosiddetto ‘morality system’. La seconda tesi riguarda il nodo della normatività’ postcritica evidenziato da Federico Zuolo. Una forma di normatività da esplorare, almeno così vorrei suggerire, risiede nel tentativo di evitare alcune forme di moralismo. Se le mie due tesi risulteranno plausibili, esse contribuiranno, almeno così spero, ad illuminare la discussione fatta da Mariano Croce dell’approccio postcritico suggerendo uno sviluppo teoretico nell’ambito della filosofia morale.
Partiamo quindi dalla critica di Williams al morality system nel suo splendido Ethics and the Limits of Philosophy[1]. Il morality system, a detta dell’autore inglese, è costituito da una serie di tesi (alcuni ne contano nove)[2] che si intrecciano. Descriverle e spiegarle tutte esula dagli scopi di questo breve scritto, per cui mi limiterò ad evidenziarne tre. Il fatto che ogni obbligo morale è necessariamente costruito di prescrizioni generali dalle quali è possibile dedurre come agire in casi particolari. Il fatto che gli obblighi morali non possano confliggere. Il fatto che essi, se reali, non possano essere invalidati da considerazioni che non siano di natura morale. Williams era un attento conoscitore della filosofia e cultura classiche e quindi non sorprende il suo modo di costruire il morality system come un tentativo di dimenticarne alcune lezioni centrali. Nell’impeto illuministico volto a ricreare una morale cristiana senza Dio, suggerisce Williams, si finisce con il perdere per strada pezzi assai importanti della nostra umanità. Pensiamo al valore che gli esempi di virtu’ possono avere sul processo educativo, alla struttura delle tragedie, al problema dell’akrasia o dell’esistenza di altre importanti fonti che motivano ad agire (come quelle che possiamo definire ‘vocazionali’; per intenderci, l’arte).
Il punto centrale non è tanto che il morality system, che Williams associa principalmente, anche se in modi differenti, alla tradizione kantiana e a quella utilitarista, ci costringa ad abbandonare una parte importante delle nostre origini culturali. Piuttosto, il punto risiede nel comprendere che una filosofia della morale che neghi, ad esempio, l’esistenza di conflitti fra obblighi morali sinceramente sentiti non ha nulla a che fare con la morale come vissuta dagli esseri umani. Senza arrivare ai picchi tragici elegantemente discussi da Martha Nussbaum nel suo The Fragility of Goodness,[3] la maggior parte di noi sa che l’imprevedibile alternarsi di circostanze, scelte, e accidente di rado si presta ad una composizione lineare o priva di attriti.
Per comprendere sino in fondo la prospettiva di Williams bisogna certamente ricordare la sua potente critica all’utilitarismo. Iper-razionalista, e dall’eleganza teorica impeccabile (rare sono le teorie morali che si limitano all’utilizzo di un unico principio e che offrono una connessione tanto chiara fra il giusto e il bene), l’utilitarismo classico, da Bentham a Sidgwick, rappresenta l’esempio più puro del morality system. L’utilitarismo ci chiede di massimizzare, tramite le nostre azioni, l’utilità, o benessere collettivo. In esso non vi è nessuno spazio per le prerogative individuali degli attori morali: ogni soggetto deve tendere ad uno scopo unico, ed impersonale. Il punto di vista dell’utilitarismo è, parafrasando una celebre dicitura, quello dell’universo.
La natura prettamente consequenzialista dell’utilitarismo lo ha esposto, sin dai suoi albori, ad un divertente esercizio di ispirazione kantiana che può essere così descritto: troviamo un caso dove un utilitarista convinto farebbe cose assurde e che risulterebbero ripugnanti a chiunque ritenga che esistano mezzi non leciti per raggiungere fini nel complesso condivisibili. Il gioco è divertente, apprezzato dagli studenti, e può essere foriero di grandi sforzi immaginativi. Il caso del medico che estrae coercitivamente un rene (oppure tutti gli organi) da una persona sana e magari avanti con gli anni per donarla ad una (oppure più di una) morente e molto più giovane, è uno dei topoi più ricercati. La questione di fondo che questi controesempi non colgono, e che io credo abbia segnato il lavoro di Williams in profondo, è come si arriva a pensare alle scelte morali in un certo modo. Il punto non è tanto che esistano dei controesempi all’utilitarismo (cosa che probabilmente vale per tutte le teorie, su questo punto è illuminante pensare al lavoro di Derek Parfit[4]) ma come si sentirebbe un essere umano se dovesse davvero accettare di pensare come l’utilitarismo gli suggerisce di fare. Il punto, in sintesi, non è tanto che non si estraggono organi dalle persone senza il loro consenso (cosa che alla maggior parte dei medici, per fortuna, sembra pacifica), ma piuttosto come si potrebbe o dovrebbe sentire un medico che si ponesse seriamente la questione nei termini in cui l’utilitarismo gliela raffigura.
Non a caso, Williams decide di illustrare la sua critica alla visione utilitarista portando come esempi centrali casi in cui, magari a malincuore, ma l’utilitarismo ci spinge a fare la cosa giusta, o quantomeno, ci spinge verso conclusioni lontane dall’essere assurde. Nel primo caso ci viene proposta una situazione di questo tipo. Immaginiamo di essere costretti a fare la seguente scelta: accettare di uccidere qualcuno che chiameremo X o essere sicuri che, se non lo facciamo (e proprio a causa del nostro rifiuto), qualcun altro ucciderà sia X che tutta la sua numerosissima famiglia. Che fare? Probabilmente accettare il macabro compito. Eppure non è questo il punto. Il punto è come descriviamo la situazione. Per l’utilitarista, di fondo, la scelta è priva di dilemmi e sofferenza interiore (giustificata) perché è una scelta facile, moralmente parlando. Che senso ha provare rimorso, senso di colpa, e financo orrore, per quello che si è fatto se l’alternativa era moralmente peggiore?
Passiamo al secondo caso. La sua struttura è la seguente. X è in grande difficoltà economica e gli viene proposto un lavoro che va contro le sue convinzioni etiche più profonde; X è pacifista e gli viene offerta un’occupazione in una fabbrica di esplosivi. Se lo rifiuta, il lavoro verrà svolto da una persona che non condivide le convinzioni etiche di X, e che, tramite lo svolgimento delle mansioni connesse al lavoro in questione farà di certo più danni di quanti X ne farebbe; costruirà esplosivi molto più efficaci e distruttivi. Possiamo inoltre supporre che la visione pacifista di X collimi con i dettami dell’utilitarismo (raramente le guerre, e quindi gli esplosivi che servono a combatterle, contribuiscono al benessere generale). Ancora una volta, potremmo chiederci come comportarci. E ancora una volta questa sarebbe la domanda sbagliata da porsi. In questo caso ci pare meno chiaro che vi sia una scelta ovvia da privilegiare, anche solo intuitivamente, come nel precedente caso preso in esame. Ciò premesso, il punto non sta nel come agire, ma nel come pensare e sentire. Per una persona la cui coscienza è intrisa di una visione pacifista, passare l’esistenza a costruire armi rappresenta una forzatura enorme. Se è questo ciò che è moralmente giusto fare, allora la morale sembra davvero capace di chiedere moltissimo agli esseri umani.
In entrambe i casi, il problema centrale ravvisato da Williams è legato al concetto di integrità, qui intesa non come virtu’ morale, ma proprio nel senso del ‘rimanere interi’, riferito al soggetto morale che agisce. Il rischio al quale ci espone l’utilitarismo è quello di una potente alienazione da noi stessi, da ciò in cui crediamo, e che riteniamo importante (i progetti, e valori, che danno significato alla nostra esistenza). Se lo si accetta si rischia, in altre parole, di divenire semplici ‘veicoli’ di una dottrina, senza poter dare nessuna importanza sui generis, anche se solo dal ‘nostro’ punto di vista, alle nostre convinzioni etiche più profonde; in sintesi, si finisce per chiedere al soggetto morale di guardare al proprio vissuto come un mero spettatore. E, se l’agire moralmente richiede la presenza di attori (e non semplici spettatori) morali, l’utilitarismo minaccia radicalmente la loro integrità e finisce per minare la loro stessa capacità di agire.
Diviene, questa morale utilitarista, appunto, un ‘morality system’: un costrutto che non ci parla di persone in carne ed ossa poste davanti a problemi e scelte, ma una serie di teoremi che vanno applicati alla vita stessa. La domanda centrale è quanto il morality system sia in grado di catturare dell’esperienza umana. E la risposta è, a detta di Williams, assai poco. Il rischio che si corre è che si arrivi ad un mondo in cui sono gli esseri umani a vivere per la morale e non quest’ultima ad essere concepita per farli vivere meglio. In questo orientamento generale, io credo, può risiedere un parallelo proficuo con l’idea di postcritica. Una tensione fenomenologica? Se non altro una maggiore attenzione a quella che Tosel chiama, prendendo a prestito (e modificandone il senso) da Arbasino, ‘vita bassa’. Come scrive Tosel:
“Se osserviamo la vita bassa, non possiamo che notare come essa si componga di inesauribili cambiamenti, adattamenti, relazioni, casi: nulla che si possa assurgere a rotonda verità. (…) La vita bassa, dunque, come piega del reale, come micro-realtà da intendersi non dell’ordine del più piccolo, ma del più dettagliato.”
La vita dell’agente morale è vita bassa. In altro modo essa semplicemente non si può dare, pena lo sconvolgimento del suo significato, e della sua funzione. Significa forse, questo porre l’accento sul vissuto e sull’esperienza epidermicamente quotidiana, che i concetti generali non servano? Le ‘teoria’ è inutile? La risposta, a mio modo di vedere è ‘no’. Osservazione questa che, se comprendo bene il loro incedere argomentativo, condividono sia Tosel che Croce. Bisogna, ancora una volta, così come per i due casi discussi appena sopra, spiazzare il nostro orizzonte di pensiero. Il punto non era, negli esempi, quello di porsi la naturale domanda ‘cosa fare?’, ma piuttosto chiedersi come si possa pensare quando a tale domanda si cerca di rispondere. Allo stesso modo, io credo che la questione centrale non sia ‘concetti generali: si/no’. La questione è invece per cosa e come li si voglia usare.
Senza potermi dilungare sulla questione quanto essa lo meriterebbe, vorrei proporre un’ulteriore analogia. A cosa servono i famosi ‘thought experiments’ che spesso animano la filosofia analitica contemporanea (basti pensare alla nota ‘original position’ di Rawls)? Una caratterizzazione possibile è che essi servano a ottenere risposte corrette alle domande che ci poniamo. Io ritengo che non sia questo il modo più proficuo di pensare alla loro funzione. Il valore che essi possono avere risiede in gran parte nel rendere più trasparente il nostro modo di pensare ad un dato problema. Più che arrivare a risposte corrette, essi ci portano a non dimenticare alcune considerazioni che ci sembrano, anche solo intuitivamente, importanti quando deliberiamo sulla correttezza di una data risposta ad un dato problema. Ci aiutano a rendere più trasparente e comunicabile il nostro pensiero. Sono pezzi di un edificio le cui fondamenta ci aiutano a rendere visibili anche quando l’edificio stesso è già in piedi e tenderebbe, per forza di cose, ad occultare le basi sulle quali poggia. Uscendo fuor di metafora, potremmo dire che la filosofia morale non si può fare senza i concetti generali (anche Williams, d’altro canto, parla di integrità, virtù, etc.), ma che tale filosofia non possa essere davvero efficace se quei concetti non conservano uno stretto legame con la nostra esperienza quotidiana, ‘bassa’, della vita morale.
Eppure, arrivati oltre le spoglie dell’utilitarismo, si pone, imprescindibile, come ci ricorda Zuolo, la questione della normatività. Essa sembra tanto più rilevante se ci concentriamo, come ho deciso di fare in questo scritto, sulla filosofia morale in senso lato. Oltre la critica del ‘morality system’ che cosa resta? Possiamo decidere di lasciarci alle spalle quella che Williams provocatoriamente chiamava la ‘peculiar institution’, con riferimenti nemmeno troppo velati al modo in cui la schiavitù veniva descritta negli stati confederati, e poi? Non credo che vi sia, lo dico con grande franchezza, una risposta univoca. Nè cercherò di proporre quella di Williams. Quello che mi interessa è capire se, contaminando la critica del ‘morality system’ con la discussione della postcritica che ci propone Croce si possa arrivare ad un inizio di risposta. Risposta che io credo debba partire dall’importanza degli ‘affetti’. Come scrive Croce:
“(…) nella postcritica risuona questo elemento di attività e di presa di posizione: allorché si osserva un oggetto – che si tratti di un libro, di una pianta, di un minerale, di un individuo, di un gruppo di individui, di una comunità –, si forma un’alchimia affettiva che elimina qualsiasi pretesa di distanza e di neutralità. Il canale connettivo, mediante cui si esperisce, è proprio l’affetto, nel senso degli effetti che vengono destati su chi osserva e che la/lo colloca in un certo modo rispetto all’oggetto. La profondità e il sospetto, di cui parlavo sopra, nonché la dominanza del linguaggio come unico accesso alla realtà, anestetizzano il contatto e introducono un elemento di distanza che recide i legami. Presenterò quindi la postcritica come un passaggio dalle mediazioni cognitive alle mediazioni connettive: la cognizione non è che collocazione in una rete di affetti.”
Chiaramente la postcritica è programma assai più vasto e radicale di quello che ho discusso finora e non è facile cercare di proporre una normatività che si possa plausibilmente intrecciare con tali aspirazioni. Forse, e questo è un risultato non implausibile, l’idea stessa di voler ritrovare normatività, se non addirittura di voler dividere la postcritica per aree tematiche, è destinata a fallire. E però a me pare giusto tentare. Se gli ‘affetti’, la chiusura delle distanze, la connessione, sono centrali, allora possiamo recuperare, io credo, una normatività minimale e negativa che risiede nell’invito a fuggire alcuni vizi tristemente noti. Mi riferisco, in particolare, ai vizi che spesso accompagnano certe forme di ‘moralismo’. Come possiamo definire il moralismo? Che rapporto c’è fra il moralismo e la critica di Williams al cosiddetto morality system? Quali vizi morali ad esso (il moralismo) sovente si accompagnano? E in quali situazioni ne sperimentiamo meglio gli effetti nefasti? In quanto segue prenderò spunto da un recente scritto di Paul Russell.[5] Russell definisce il moralismo nel modo seguente:
“When I speak of moralism, in this context, what I am concerned with, in general terms, is the misuse of morality for ends and purposes that are themselves vicious or corrupt. Moralisers present the facade of genuine moral concern but their real motivations rest with interests and satisfactions of a very different character. When these motivations are unmasked, they are shown to be tainted and considerably less attractive than we suppose.”
Che legame intercorre fra morality system e moralismo? In un volume postumo dal titolo In the Beginning Was the Deed: Realism and Moralism in Political Argument,[6] è lo stesso Williams ad usare il termine ‘moralism’ per descrive una certa specie di teoria politica che si accontenta, a detta dell’autore inglese, di essere etica applicata e così facendo perde di vista il suo reale compito; generare una normatività della politica, non semplicemente una che ad essa si può applicare. Il punto di contatto fra l’uso che del termine fa Williams e la definizione di moralismo mutuata da Russell, e citata poche righe orsono, non è, almeno di primo acchito, evidente. La si può scorgere in un parallelo. Sia quello che potremmo chiamare, con Williams, ‘political moralism’, che il moralismo descritto da Russell, vedono un certo tipo di argomenti morali come irrimediabilmente in contraddizione con gli scopi dichiarati (anche solo implicitamente) per i quali essi vengono impiegati. Il moralismo politico non può far presa sulla politica perché con essa non ha nulla a che fare – si limita ad avere una postura applicativa. Il moralismo tout court non mira alla reale denuncia e correzione di situazioni moralmente discutibili perché la sua ragion d’essere è da trovare altrove, ossia nelle motivazioni assai poco nobili che spingono i moralisti ad agire. Moralismo politico e moralismo tout court sono, in sostanza, due facce di una stessa medaglia, se così si può dire, visto che entrambe ci promettono qualcosa che sono costitutivamente inadatti a produrre. Questo, nelle mie intenzioni, il motivo di aprire lo scritto con un quadro del periodo maturo di Francisco de Goya, Los Disciplinantes.
Se il political moralism di Williams sembra essere generato, a detta dell’autore, da un eccesso di ingenuo idealismo, viene da chiedersi quali possano essere gli antecedenti reali del moralismo tout court. E, sempre sulla scia della discussione offertaci da Russell, possiamo rispondere che due delle motivazioni centrali che spingono i moralisti ad agire sono la vanità e la crudeltà. La prima compresa come il desiderio di esibire la superiorità delle proprie (del moralista) virtu’ morali. La seconda da interpretare alla stregua di un utilizzo strumentale della sofferenza e umiliazione altrui come mezzi per dominarli e su di loro esercitare potere. Alla prima possiamo associare vizi come l’ipocrisia, e il bigottismo. Alla seconda spesso si accompagnano vizi come l’essere vendicativi, dogmatici e autoritari. In entrambi i casi, va notata una caratteristica comune. Sia la vanità che la crudeltà lavorano sulla distanza, proprio quella distanza che la postcritica di Croce, forse con intento più ontologico, vuole azzerare. Distanza dagli altri membri della comunità morale ai quali ci vogliamo mostrare superiori, per favorire la nostra reputazione (vanità), o per controllare il loro destino (crudeltà). L’universo morale diventa così un gioco a somma zero, nel quale si acquisiscono punti, a scapito degli altri, esaltando il nostro agire, oppure sottoponendo coloro che, putativamente, compiono errori a varie forme di umiliazione. La vanità esalta lo splendore del moralista, la crudeltà degrada, rendendoli financo moralmente ‘intoccabili’, colpevoli (o presunti tali). La distanza, in sintesi, diviene alienazione.
Le pagine di Mandeville e di Montaigne ci hanno, in passato, ricordato l’importanza motivazionale della vanità (il primo) e i rischi che si corrono quando atteggiamenti crudeli diventano dominanti (il secondo). Una visione distopica si staglia minacciosa all’orizzonte. La comunità morale si trasfigura in una competizione fra individui che mancano di comprensione reciproca: la simpatia (nel senso smithiano) e la gentilezza periscono assieme. Gli esempi nella vita di tutti i giorni non mancano, ma vorrei soffermarmi, brevemente e a mero titolo di esemplificazione, sul concetto di ‘gogna social-mediatica’. L’espressione viene spesso usata da coloro che vogliono difendersi da accuse che ritengono essere, nel merito, infondate. Io credo invece che la sua vocazione naturale, se mi si passa l’espressione, sia meglio evidenziata proprio quando, nel merito, si hanno buone ragioni per credere che un dato soggetto abbia davvero commesso qualcosa di moralmente improprio. Esempi concreti e reali di certo non mancano. Pensiamo al politico che metta a rimborso spese una cena con la famiglia, all’imprenditore che gioisce allorquando una catastrofe naturale fa prevedere maggiori introiti, alla persona che si professa pubblicamente come ferventemente religiosa e viene poi ‘scoperta’ mentre è dedita alla frequentazione di prostitute e al consumo di droghe, al professore universitario che intrattiene relazioni amorose seriali con i suoi studenti.
Al netto dei profili legali (presenti o assenti che siano) non sembra difficile riscontrare delle deficienze morali in questi comportamenti. Il politico fa uso privato di risorse pubbliche, l’imprenditore vede nelle altrui disgrazie soltanto il proprio tornaconto, la persona religiosa ci offre un marcato esempio di ipocrisia, il professore sembra tradire un codice deontologico non scritto che suggerisce la sua missione essere assai diversa. Tutti questi casi sono, in maniera più o meno marcata, degni di una qualche forma di condanna. E specialmente nei paesi anglosassoni, ma in modo crescente anche in Italia, darebbero certamente adito a quella che ho chiamato ‘gogna social-mediatica’: una campagna di stigmatizzazione pubblica senza quartiere. Se la condanna è giustificata, in cosa consisterebbe il moralismo? In alcuni tratti che, a mio modo di vedere tendono ad essere associati alla condanna stessa. Poco sopra ho accennato l’idea di una stigmatizzazione ‘senza quartiere’. Con questa espressione intendo fare riferimento proprio alle caratteristiche negative che certi giudizi social-mediatici tendono ad avere. Senza avanzare alcuna pretesa di completezza, vorrei soffermarmi su alcuni di essi perché, a mio avviso, meglio ci fanno comprendere il carattere moralistico di questi episodi.
In primo luogo, si deve notare che la condanna pubblica tramite mezzi di comunicazione come quotidiani, televisioni, e social media, è sempre, o quasi sempre, portata avanti senza un confronto diretto con gli interessati e, in alcuni casi, coperta dall’anonimato di coloro che la effettuano (il tema della distanza ritorna prepotente…). In secondo luogo, si può notare il carattere di aggressione di gruppo che spesso si accompagna a questi eventi: come se l’odore del sangue del peccatore generasse un richiamo potente per il branco di coloro che intendono stigmatizzarne i comportamenti. Vi è poi una tendenza ad associare alla condanna stessa una certa visione manichea del mondo morale. Mondo quest’ultimo che appare d’improvviso facile da dividere fra buoni e cattivi, puri ed impuri. Il che, per la poca esperienza che ho accumulato delle umane vicende, sembra assai difficile riscontrare nella vita di tutti i giorni. Gli esseri umani tendono, nella maggior parte dei casi, e in proporzioni certo assai differenti, ad associare momenti di nobiltà e bassezza, qualità umane ammirabili e forme di meschinità che non lo sono. I santi e i criminali, così pare di comprendere, sono l’eccezione, non una partizione efficace ed esaustiva del genere umano.
Va inoltre riscontrata una marcata perdita del senso di proporzionalità e della misura rispetto alle punizioni caldeggiate nei confronti di chi si condanna pubblicamente. Il colpevole deve essere licenziato, bandito, umiliato, esiliato, incarcerato, e, anche se questo non viene mai detto apertamente, viene da pensare che se il reo potesse letteralmente scomparire dalla faccia della terra in fondo non farebbe che un favore al resto dei suoi abitanti. Eppure, il principio di proporzionalità suggerisce che non sia plausibile vedere ogni forma di infrazione ad una qualsiasi norma, morale o legale che sia, come giustificazione di una pena uniforme e uniformemente elevata. E, sulla stessa falsariga, possiamo aggiungere che la perdita di misura sembra anch’essa problematica: i mostri morali esistono, e bisogna chiedersi come sarebbe opportuno rispondere alle loro gesta se abbiamo già dato fondo a tutta la nostra indignazione in casi meno gravi.
Infine, mi preme far notare la totale mancanza di empatia che, in genere, accompagnano gli episodi ai quali mi riferisco. Empatia che di certo va in prima battuta riservata a coloro che sono vittime, ma che non può mancare totalmente, anche se in forma assai attenuata, nei confronti di coloro che sono colpevoli. Prima di espellere qualcuno dalla comunità morale sarebbe opportuno riflettere a lungo. Anche perché, e questo non è aspetto di secondaria importanza, così facendo si finisce sovente con il danneggiare fortemente coloro che sono legati al reo e che, di solito, colpe non hanno. E tutto questo avviene, è bene ricordarlo, almeno nella vita reale, in casi dove al contrario di quelli che abbiamo creato ad arte spesso non vi è certezza assoluta degli atti imputati alle persone esposte al pubblico ludibrio. A cominciare dal loro reale svolgimento e dal contesto più ampio in cui esse accadono e che senz’altro contribuirebbe a dare significato alle vicende in oggetto.
Rimane spazio per giudicare oltre che per evitare di giudicare nel modo sbagliato? E, verrebbe da aggiungere, forse fuori tema filosoficamente, ma di certo non se ci relazioniamo al bel paese, è davvero questo il problema che preme affrontare visto il malcostume diffuso che non di rado osserviamo? Si può e si deve essere capaci di giudicare, anche pubblicamente, le azioni degli altri. Sempre però ricordando che ‘altri’ non significa ‘dotati di una genetica morale differente’, e che quanto più guardiamo dentro noi stessi prima di giudicare tanto più umana e sensata sarà la nostra condanna. La cosa può sembrare vaga, astratta, ma non lo è poi così tanto. Si può, ad esempio, partire da un caso specifico di malcostume per soffermarsi su di una questione più ampia che questo solleva, invece che insistere soltanto sul caso in quanto tale, ma soprattutto si può e si deve cercare di capire cosa abbia portato una persona ad agire in un certo modo anche mentre ci si accinge a concludere che essa ha sbagliato. Il caso italiano è emblematico di cosa può accadere quando gli atteggiamenti appena descritti vengono a mancare; l’impressione è quella di una vita pubblica che oscilla fra impunità e moralismo. Eccessi che, viene da pensare, si autoalimentano vicendevolmente.
Ritornando alla postcritica, cosa possiamo aggiungere? Io credo che, almeno per quanto riguarda la filosofia morale, la postura postcritica ci inviti a ridefinire il ruolo degli intellettuali. Esploratori, non tanto giudici; compassionevoli, non solo critici; vicini non imparziali e distanti. Guidati, in sintesi, da un desiderio di comprensione fenomenologica del vissuto morale e non esclusivamente dall’esigenza di denunciare questa o quella stortura; personificazione di ciò che Michael Walzer ha felicemente definito come ‘connected critic’.[7] Qualcuno vorrà sicuramente obiettare che la postcritica si presenta proprio come un tentativo di superare il mito dello svelamento che la Critica ci ha promesso. Il dubbio che essa ci porta a prendere in considerazione è che al termine del nostro ‘scavo’ nelle strutture dell’esperienza, ma anche politiche, economiche e sociali, non vi sia una realtà colma di senso che si possa cogliere come un tutto pregno di significato. Il viaggio che ho cercato di intraprendere assieme con il lettore in queste pagine ha percorso, almeno lo spero, una strada parallela. In un certo qual senso, è possibile vedere la critica di Williams al morality system come, appunto, una forma di ‘Critica’. Questo suo carattere di demolizione di teorie etiche consolidate potrebbe portarci a concepirne il senso alla stregua di un esercizio di ‘debunking’. Eppure il suo significato più profondo, almeno io credo, risiede nel tentativo di allertarci sui limiti che una teorizzazione compiuta e schematica della vita morale finisce con l’incontrare. Le strutture profonde del soggetto morale vengono liberate dalla morsa di confini alienanti e rigoristici non per essere ricollocate nell’alveo di altri schemi altrettanto formali, anche se più veri. Esse vengono invece rappresentate come multiformi, difficilmente codificabili.
Note
[1] Bernard Williams, Ethics and the Limits of Philosophy, (1985, London: Fontana).
[2] Si veda Chapell e Smyth, (2018, Stanford Encyclopaedia of Philosophy). https://plato.stanford.edu/entries/williams-bernard/#Bib)
[3] Martha Nussbaum, The Fragility of Goodness, (2013, 2nd ed., Chicago: Chicago University Press).
[4] Derek Parfit, On What Matters: Volume One (2011, Oxford: Oxford University Press).
[5] Paul Russell, Vice Dressed as Virtue, Psyche (May 2020, available at https://aeon.co/essays/how-the-cruel-moraliser-uses-a-halo-to-disguise-his-horns?utm_source=Aeon+Newsletter&utm_campaign=1a99f60521-EMAIL_CAMPAIGN_2020_05_22_12_50&utm_medium=email&utm_term=0_411a82e59d-1a99f60521-69672205)
[6] Bernard Williams, In the Beginning Was the Deed: Realism and Moralism in Political Argument (2005, Geoffrey Hawthorn, ed., Princeton: Princeton University Press). Va detto, per essere del tutto trasparenti con il lettore, che chi scrive ha sempre avuto maggiore simpatia per l’approccio di Williams nell’ambito della filosofia morale piuttosto che di quella politica. La critica del morality system sembra più efficace quando entrano in gioco le relazioni fra persone. Il messaggio di Williams non va però ignorato, e si deve certamente evitare di scollare completamente la filosofia politica, e la sua preoccupazione per gli assetti istituzionali, dalla realtà.
[7] Michael Walzer, Interpretation and Social Criticism, (1993, Cambridge, Mass.: Harvard University Press).
[Immagine: Francisco de Goya, Los Disciplinantes].
Grazie di questo bell’intervento ricco di spunti e di pacata umanità perché, oltre ad indicarmi alcune prossime letture, mi fa riprendere un poco di fiducia nel mondo delle Lettere e delle Scienze Umane nel quale, soprattutto dopo alcuni recenti movimenti di cancellazione sistematica della dissidenza, francamente ho perso ogni speranza, dedicandomi di conseguenza e definitivamente alle scienze.
Che la “critica” a un dato momento dovesse fiaccare, specie nelle sue versioni “french theory”, è logico e fisiologico. Ciò detto la postcritica non sembra altro che l’ultimo strato di totalitarismo spalmato su di una visione conflittuale della società. Mi riferisco naturalmente al totalitarismo dell “I care”, quello che punta a nascondere conflitti psichici e sociali, in molti casi le semplici realtà statistiche, dietro moralità (guarda guarda) e belle parole rigorosamente postcritiche. Insomma, per ragionare in modo vecchio e critico, mera sovrastruttura del soft power.
E siccome credo ai riassunti semplicisti (vox populi(sti), ecc. ), ecco una definizione piuttosto chiara che ho trovato della postcritica su wikipedia:
Bruno Latour, in his influential article “Why is Critique Running Out of Steam?” argues that critique is no longer able to offer politically progressive readings of texts, since its methods have been coopted by right-wing interests. He claims that the rise of conspiracy theories and conspiratorial thinking means that the dominant mode of enquiry entailed within the “hermeneutics of suspicion” can no longer be relied on to dismantle power structures.[14] Felski builds on such ideas to expose the many limitations associated with critique. In developing the set of ideas that comprise postcritique, Rita Felski has said that she has been “deeply influenced by the work of Bruno Latour.”[15]
Non sospettate, tutto va bene. Lasciateci guidare la macchina. A quando le post-elezioni ? O ci siamo già ?