di Mario Pezzella

 

[Esce in questi giorni in libreria Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi di Kristin Ross, a cura di Mario Pezzella e Sebastiano Taccola, nella collana La critica sociale edita da Rosenberg & Sellier. Pubblichiamo a seguire la postfazione al volume].

 

«Diciannove marzo 1871: la più bella aurora che mai abbia dato luce a una città, l’alba più splendente in cui si compivano le attese, i presentimenti, gli annunci dei tempi nuovi: i sogni, le “utopie”»[1]. Con queste parole Henri Lefebvre ricorda la nascita della Comune e possiamo chiederci cosa gli detti un tale entusiasmo: in fondo la Comune ha avuto breve durata e si è conclusa in una triste tragedia. Il libro di Kristin Ross dà una risposta a questa domanda; per quanto sconfitta, essa ha dato voce a un possibile, che si è impresso per sempre nella memoria storica degli oppressi: è concepibile una vita senza rapporti di servitù e sfruttamento, senza il dominio esclusivo del danaro, senza Stato e senza capitale? Con tutti i limiti e le contraddizioni che hanno contribuito alla loro sconfitta, gli uomini della Comune hanno tentato di dissolvere le strutture burocratiche dello Stato-nazione centralizzato: la Comune fu più «un insieme di azioni di sabotaggio che una vera e propria forma, la critica in atto dello Stato burocratico; una critica che, nelle parole di Marx, mirava all’abolizione dello Stato. I comunardi non avevano decretato o proclamato l’abolizione dello Stato; piuttosto, nel poco tempo a loro disposizione, avevano preparato, passo dopo passo, lo smantellamento di tutte le sue basi burocratiche»[2]. Ciò che sembrava fantasma e immagine di sogno si mostrava invece come utopia concreta. La Comune ha realizzato una rivoluzione e una riorganizzazione della vita quotidiana, nella sua pratica sociale, molto più rilevante di qualsiasi atto di governo: essa è in tal senso l’indicazione di uno stile di vita alternativo a quello del capitale: «Estendere la dimensione estetica alla vita quotidiana, come richiesto sotto la Comune dalla Federazione degli Artisti, non solo rende l’arte accessibile a tutti, ma la rende anche parte integrale di qualsiasi processo creativo. Si crea una nuova relazione sensibile con i materiali – la loro consistenza, densità, malleabilità, resistenza – e con i processi lavorativi propri di ciascuno, con le tappe necessarie per la loro realizzazione e, d’altro lato, con la nuova riproduzione delle abilità di chi vi ha partecipato»[3]. Il lusso comune è una riconfigurazione della vita quotidiana in cui – al di là di ogni separazione di classe – l’arte e la pratica del lavoro si fondono in una nuova unità vitale, in uno stile di vita che Fourier ebbe a chiamare «gioco armonico», una formazione politecnica, capace di superare la divisione tra attività manuali e intellettuali.

 

La Comune ­– e il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale – è certo un possibile sconfitto, ma leggibile a partire dal nostro presente: la realtà storica è composta da una pluralità di possibili coesistenti e non segue la linea univoca del progresso imposta dai vincitori. L’evento è in se stesso un nodo di possibilità inesplicate, una serie di biforcazioni che si attualizzano in corso d’opera; alcune di esse cadono nell’ombra, ma non è detto che solo per questo siano meno significative o importanti[4].

 

Tra gli obiettivi della Comune, c’era la riappropriazione della città e del suo centro che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a estraniare agli strati popolari. La Comune fu una critica pratica e generale della separazione degli spazi, dei lavori, degli universi simbolici imposta dal capitale: essa investe anche la città come luogo in cui il simbolico si fa materia e la materia prende forma simbolica. La Parigi insorta ha ancora la forza di combattere il predominio dei monumenti e degli edifici del potere centrale e statuale, di difendere la dispersione, il decentramento e il caldo tumulto dei quartieri popolari. Non è un caso che proprio i quartieri siano le cellule costitutive dei comitati rivoluzionari: sia quello dei venti arrondissements, sia quello della Guardia Nazionale.

 

La Comune gettò le basi di un urbanesimo rivoluzionario, cosciente della connessione tra strutture statuali e politiche, separazione delle classi e divisione dello spazio urbano. Critica distruttiva della gerarchia esistente, prima di tutto; ma anche trasformazione degli spazi separati in luoghi di incontro e riconoscimento reciproco, in occasioni di gioco e di festa, piuttosto che in funzione degli scambi e delle merci: l’utopia di una vita in cui il riconoscimento e l’eros come legame sociale sostituiscano le relazioni dominate dall’astrazione dello scambio e del danaro ha trovato così un’espressione indelebile. Come i traumi dolorosi e le sconfitte, anche le feste collettive e le insorgenze lasciano una traccia nella memoria collettiva. La Comune fu tra l’altro un tentativo di riappropriarsi dello spazio, che Haussmann aveva sottratto ai ceti popolari. In questa chiave va letta la «scandalosa» distruzione della colonna Vendôme, che celebrava la gloria militare di Napoleone: «In effetti entrambe le cose – la demolizione della colonna e l’appello del manifesto per un’arte pubblica e comune in grado di trasferire le iniziative creative da una élite isolata al popolo intero – ebbero successo nell’aggirare lo spazio nazionale. Nel creare arte vissuta al livello dell’autonomia municipale, il lusso comune lavora contro l’organizzazione centralizzante dello spazio monumentale (nazionale)…»[5]. Una lotta decisiva e anch’essa piena di insegnamenti per il futuro, se è vero che «il bonapartismo è […] la forma tendenziale o strisciante dello stato d’eccezione nello Stato moderno»[6].

 

Nel loro scritto collettivo Sulla Comune G. Debord, R. Vaneigem e A. Kotanyi hanno inserito come elemento costitutivo dell’articolazione dello spazio urbano sognata dalla Comune una faglia di vuoto: «Tutto lo spazio è già occupato dal nemico […]. Il momento di apparizione dell’urbanismo autentico consisterà nel creare, in certe zone, il vuoto da questa occupazione. Quello che noi chiamiamo costruzione comincia lì. Può comprendersi con l’aiuto del concetto di buco positivo forgiato dalla fisica moderna» [7]. L’urbanistica rivoluzionaria immagina un ambiente rivolto a creare un continuo snodo di incontri possibili, non condizionato dalla separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tempo di lavoro e tempo libero

 

La costruzione di situazioni di gioco liberato («armonico» nel senso in cui lo intendeva Fourier) richiede un’architettura e una articolazione degli spazi che tengano conto dell’effetto psichico esercitato sugli abitanti, fin dal momento progettuale. «Nel suo senso più ampio, il “lusso comune”, alla cui nascita il comitato lavorava, implicava la trasformazione delle coordinate estetiche dell’intera comunità […]. L’idea che la bellezza dovesse prosperare negli spazi pubblici e non solo in quelli privati forniva le basi di una trasformazione in cui l’arte diveniva qualcosa di perfettamente integrato nella vita di tutti i giorni […], qualcosa di vissuto […]»[8].

 

Negli appunti preparatori al suo Passagenwerk, Benjamin definì il rapporto tra forme simboliche e modo di produzione capitalistico col termine di espressione (e non con quelli tradizionalmente marxisti di struttura e sovrastruttura). In questa prospettiva egli considerò la relazione tra l’architettura dei passages e la fantasmagoria delle merci nel Secondo Impero. Un metodo simile è necessario per studiare le «strutture comuni della vita quotidiana –l’immaginario sociale dello spazio e del tempo»[9] durante l’esperienza della Comune; essi articolano in un nesso simbolico le speranze e le contraddizioni, che la percorsero.

 

In un suo libro precedente dedicato alla Comune, Kristin Ross segue un metodo simile per mostrarci il legame tra l’opera di Rimbaud e la Comune di Parigi: «Per comprendere profondamente la poesia come prodotto di un’immaginazione storica»[10], bisogna leggerla in modo sincronico, in connessione coi linguaggi non letterari che la circondano. I versi di Rimbaud non enunciano l’ideologia della Comune: essi ne sono l’espressione, e cioè ne traducono in ritmo significante le tensioni e i desideri. Senza articolazione linguistica lo spazio sociale resterebbe muto. Esso è simultaneamente dato come ordine economico e simbolico e attraversa tutte le pieghe della vita quotidiana, disegnandone l’orizzonte di senso. Perciò Marx definiva la Comune come «esistenza in atto»: secondo Ross, «essa sposta la dimensione politica sui problemi apparentemente periferici della vita quotidiana: l’organizzazione dello spazio e del tempo, i mutamenti dei ritmi di vita e degli ambienti sociali»; «La lotta rivoluzionaria è insieme diffusa e orientata con precisione […], si esprime in conflitti specifici e nelle numerose trasformazioni degli individui, piuttosto che in un’opposizione rigida e binaria tra capitale e lavoro»[11].

 

Il termine spazio sociale va inteso in senso proprio. Le strutture di potere e il modo di produzione dominante (così come le esperienze che intendono combatterli) si inscrivono simbolicamente e materialmente negli spazi urbani, nella maniera in cui sono divisi e amministrati, nella forma biopolitica entro la quale sono distribuite le vite individuali e le loro relazioni all’interno di essi. L’«esistenza in atto» della Comune è una rivoluzione della geografia della città, che ha comportato, secondo Henri Lefebvre, la «scomparsa dei luoghi privilegiati, a favore di uno scambio permanente tra luoghi distinti, di qui l’importanza del quartiere». Durante l’assedio, compaiono «nuovi ambienti, nuovi modi di incontrarsi e di riunirsi»[12], conseguenza e causa di diverse condotte e comportamenti.

 

Nei romanzi di Balzac – come ha ricordato Jacques Rancière[13] – le descrizioni lunghissime di case, mobili, arredi, quartieri urbani, corrispondono alla convinzione dell’autore che emergano in tal modo le strutture sociali profonde che dominano la vita. L’architettura, si potrebbe dire, è l’inconscio materializzato dell’ordine simbolico e del suo sistema di potere e lo scrittore è l’interprete di questo rapporto espressivo, nel quale lo spazio si configura come prodotto collettivo. La rivoluzione dello spazio sociale, che implica relazioni altre tra i soggetti, comporta anche una modifica della percezione del tempo. Innanzitutto la rivolta induce l’intuizione di un «tempo saturo», in cui ogni istante acquista la potente densità di un possibile punto di svolta della storia e l’intensità «messianica» che Benjamin attribuiva ad esso: snodo e biforcazione del senso, che può modificare retrospettivamente la memoria del passato e redimere ciò che in questo è frantumato e incompiuto.

 

Il rapporto tra il linguaggio poetico di Rimbaud e lo spazio sociale della Comune non si può definire come se il primo fosse un passivo rispecchiamento del secondo: neanche si può ricondurre all’«autonomia dell’arte» o a una reciproca estraneità. La sua scrittura non è estranea all’evento, ma allo stesso tempo non è una sua illustrazione e non si riferisce sempre e necessariamente a episodi reali.

 

La poesia fa parte delle strutture linguistiche in cui lo spazio sociale entra nell’orizzonte del dicibile e del sensibile. Usando un termine di Benjamin si potrebbe definire tale rapporto come somiglianza immateriale; riferendosi invece alla teoria estetica di Adorno diremmo che nella forma poetica e non nell’enunciazione dei contenuti sta il nesso essenziale con la situazione data. La poesia non è solo riflesso dell’esperienza, ma è attiva (dà forma ad essa, rende riconoscibile la sua unicità). Si dà un’omologia di struttura tra poesia e spazio sociale, e non un rapporto causale: essi interagiscono nel definire l’ordine simbolico (ciò che avviene anche per l’arte, l’architettura, in generale i fenomeni di linguaggio.

 

 La mimesi delle strutture sociali operata dall’arte, coesiste del resto con l’atto immaginativo con cui essa produce uno scarto e un trascendimento rispetto alla situazione data. Se Rimbaud può esser detto «il poeta della Comune» ciò non vuol dire che ci sia solo un rapporto mimetico tra i suoi versi e l’evento storico: essi trasfigurano inoltre, utopicamente, le forme di vita della Comune, al di là della sua stessa sconfitta e della sua imperfezione politica.

 

Alcuni esempi significativi mostrano in cosa consista la «somiglianza immateriale» o l’omologia di struttura tra lo spazio sociale della Comune e la poesia di Rimbaud. Se la colonna Vendôme è espressione verticalizzante e gerarchica del potere imperiale, una forma di vita definibile come sciame caratterizza sia l’esperienza rivoluzionaria della Comune sia lo stile di Rimbaud. Lo sciame è la pluralità della moltitudine assunta positivamente, così come il termine plebe serve quasi sempre a indicarla negativamente. Lo sciame è una plebe divenuta connessione simbolica di differenze. Esso ha la molteplicità polimorfica del desiderio, ma è anche un movimento coordinato di diversità: «La poesia di Rimbaud è la musica dello sciame: un’agitazione, una vibrazione, rapide e ripetute, un campo di forze di frequenze oscillanti tra la minaccia e la quiete»[14].

 

A sciame, non come colonne militari, si muovono le masse di Parigi, «in fraterno disordine», nei mesi della Comune. A ciò corrisponde un movimento ritmico della poesia di Rimbaud. L’ordine gerarchico delle frasi è rovesciato e sostituito dal montaggio paratattico del disparato. La paratassi di Rimbaud è il montaggio di materiali inizialmente incongrui. Con una certa audacia, Ross la considera come l’equivalente stilistico delle barricate erette nelle vie di Parigi, e lo sconvolgimento della sintassi sarebbe in analogia col rifiuto delle gerarchie sociali: «Le poesie sono organizzate in modo paratattico, a immagine dell’organizzazione militare adottata dai Comunardi, “fantasia guerriera” – per riprendere l’espressione di L. Barron – che moltiplica talvolta il disordine […]. Le proposizioni sono “associate” le une alle altre, ma la loro associazione non è gerarchica»[15].

 

Non a caso Rimbaud attinge i suoi materiali linguistici agli slogan, a forme argotiche, o a detti popolari, che si ribaltano improvvisamente in cifrario esoterico della rivolta, ma che con essa mantiene comunque una relazione definibile. La poesia trasforma, ma non rinnega i suoi contenuti reali. Si può forse intendere come una paratassi allusiva della Comune questa illuminazione di Rimbaud: «Fiori incantati ronzavano. I declivi lo cullavano. Circolavano bestie di un’eleganza favolosa. Le nubi si ammassavano al largo del mare, fatto di un’eternità di calde lacrime» (Infanzia II). Ovviamente il rapporto è più diretto nel Canto di guerra parigino: «Thiers et Picard sono “Zeroi”, /rapitori d’eliotropi;/fanno Corot al petrolio:/esercito di maggiolini, i tropi»[16].  Qui è evidente l’uso di slogan ironici o poetici sottoposti a un montaggio, che opera un détournement, uno spiazzamento, del loro senso originario.

 

Nella poesia di Rimbaud avviene un continuo ri-uso, détournement di termini inizialmente usati per denigrare l’operaio pigro, insolvente, renitente al lavoro. Così ivresse non indica più l’ubriachezza molesta dell’ozioso, ma l’esaltazione della rivolta e l’impulso dionisiaco dell’essere in comune. La «pigrizia» diviene un momento di riappropriazione del corpo, di dilatazione del tempo, in opposizione radicale al tempo di lavoro cronometrato e astratto del capitale. Il rifiuto del lavoro astratto e parcellizzato è del resto una delle intenzioni più profonde della rivolta della Comune. L’operaio «lussurioso» diventa il profeta di un corpo utopico, capace di prefigurare una indefinita potenza vivente.

 

Il Bateau ivre diviene allegoria della liberazione dalle merci che appesantiscono il battello («portavo grano fiammingo e cotoni inglesi») e dagli «equipaggi», che lo costringono nel percorso prefissato dal potere: «Io ero incurante di tutti gli equipaggi […]. Quando coi miei trainanti[17] lo schiamazzo è finito/ i fiumi mi hanno lasciato scendere dove più volevo».

 

Oltre che un conflitto politico e sociale, la Comune è stata anche lotta tra due opposti regimi del desiderio. Quello del capitalismo del Secondo impero si fondava su due poli coesistenti e in certa misura contraddittori. Da un lato la fantasmagoria delle merci, con la sua ingiunzione a un godimento illimitato e a un consumo in continuo incremento; dall’altro l’incatenamento dei molti all’Uno verticale e centralizzato dello Stato. Il contrasto tra l’imperativo al godimento e l’accrescersi della disuguaglianza sociale, avrebbe dovuto essere contenuto dall’apparato fantasmagorico e immaginario del bonapartismo – che si presenta come «terzo» e arbitro neutrale tra le classi – e in secondo luogo gestito dalla sua polizia e dall’esercito. Senonché tale immaginario – per reggere alla contraddizione reale – dovette rilanciarsi in modo illimitato anche sul piano politico-militare, fino alle più disperate, improbabili e infine distruttive avventure.

 

Lo spazio stesso del Secondo impero è dominato da un regime gerarchico del desiderio, che si può definire – con un termine di Lefebvre – visuale-fallico: una «dittatura dell’occhio», che celebra la propria potenza in verticalità del genere della colonna Vendôme, che non rinviano ad alcuna trascendenza, ma solo all’immanenza illimitata e impositiva del potere. L’altezza dei monumenti in cui si configura e si raccoglie l’autorità dello Stato e della finanza esalta gli «sguardi sovrani della presenza statuale. Controllo. Dominio astratto sulla natura che implica e cela il dominio concreto sugli uomini riuniti in società»[18]. La colonna stessa rappresenta l’erezione di una brutale forza fallica sulla terra.

 

A tutto questo si oppone l’immaginario sciamante, disordinante e fraterno della Comune, così ben espresso dalla poesia di Rimbaud, dove ogni parola, scardinando la gerarchia della sintassi e delle strofe, viene percossa da una ricerca desiderante del senso: «Dagli umani suffragi / dagli slanci comuni / là ti disciogli / e voli a tuo piacere. / Da voi soltanto, / braci di seta / si esala il dovere / che mai dice: infine» (L’eternità). L’indeterminatezza interpretativa che convoca il lettore a trovare per sé quali siano le «braci di seta» che animano il proprio desiderio è uno spazio vuoto, e insieme libero. Il regime del desiderio si oppone al regime del godimento, gerarchico e mercificato, del Secondo impero, in cui la mitologia della libertà è solo una maschera della circolazione del denaro.

 

Postille

 

1. La Comune resta in sospeso tra il non più e il non ancora, tra l’immaginario e il simbolico, tra la ripetizione e l’evento. I suoi protagonisti sono divisi tra coloro che sono posseduti dal ricordo e dai fantasmi della Grande Rivoluzione e coloro che comprendono la novità irriducibile della rivoluzione sociale del 1871 (questa divisione corrisponde a quella tra maggioranza e minoranza all’interno dell’Assemblea della Comune). Così afferma un anonimo oratore di Belleville: «Ciò di cui abbiamo bisogno è un ’93. Bene, il ’93 ritornerà, siatene certi, cittadini, ritroveremo i Robespierre e i Marat»[19]; un altro oratore durante una riunione del 23 novembre in preparazione delle elezioni municipali, nel XX arrondissement, esprime uno stato d’animo diffuso, affermando che «ci occorrono gli uomini del ’93 […], dei Marat, dei Danton, dei Robespierre»; e un altro, il 19 dicembre: «Abbiamo bisogno della Comune, essa ci restituirà il ’93 e il ’93 ci darà la vittoria»[20]. Contro la ripetizione di questa pura immagine di sogno, è significativa, a nome della minoranza, la posizione di Courbet: «Vorrei che i titoli e le parole che risalgono alla Rivoluzione dell’89 e del ’93 non siano applicati alla nostra epoca. Oggi essi non hanno più lo stesso significato e non possono essere usati con esattezza e precisione»[21]. Ed è proprio il giacobino Delescluze a criticare il primo Comitato di Salute Pubblica, istituito dalla Comune, con le parole più dure: «Il vostro Comitato è annichilito dal peso dei ricordi»[22]. Di questo peso fa parte anche quello dell’abitudine e cioè la ripetizione non elaborata di ideologie e miti appartenenti al passato: «Per tutta la durata del potere della Comune, la Banca è rimasta un’enclave versagliese dentro Parigi, difesa da alcuni fucili e dal mito della proprietà e del furto. Le altre abitudini ideologiche sono state in tutti i campi disastrose (il risorgere del giacobinismo, la strategia disfattista delle barricate in ricordo del ’48, eccetera)»[23] (Debord, Vaneigem, Kotanyi).

 

2. Una rivolta dominata dalla ripetizione del passato cade sotto la critica che Marx ne ha compiuto ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: «La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia»[24]. È come se una rivoluzione spettrale si sovrapponesse alla presente e viva, deformandone le aspirazioni, le strategie, le finalità, non permettendole di cogliere la contraddizione determinata in cui effettivamente si trova immersa, condannandola così a errori fatali e alla sconfitta.

 

Per quanto riguarda la rivoluzione del 1848, Flaubert ha notato un fenomeno simile, nell’Educazione sentimentale: «Siccome allora ogni personaggio si uniformava a un modello –uno copiava Saint-Just, l’altro Danton, un terzo Marat –, lui [Senecal] s’era sforzato di somigliare a Blanqui, il quale a sua volta imitava Robespierre»[25]. La rivoluzione del 1848, che pure ha profonde ragioni e grandi passioni a giustificarla, tende a rappresentarsi come una ripetizione parodica del 1789. Tanto è vero che il protagonista, Frédéric, prova fin dall’inizio un’acuta sensazione di irrealtà, quasi che gli sfilassero davanti un sogno o un’esibizione teatrale: «I feriti che cadevano, gli ammazzati per terra non parevano veri feriti, veri morti. Era come se assistesse a uno spettacolo»[26]. Egli «si divertiva un mondo»; «i vinai erano aperti, ogni tanto ci si andava a fare una pipata, a bere un bicchiere, poi si tornava a combattere. Un cane perduto ululava. Era una cosa che faceva ridere»[27].

 

In effetti, diceva Marx, la ripetizione appare spesso nella storia come parodia: i grandi fatti e i grandi personaggi si presentano «la prima volta come tragedia, la seconda come farsa»[28]. L’aspetto parodico consiste nell’inadeguatezza stridente tra il linguaggio e l’apparato immaginario degli attori e le situazioni che dovrebbero effettivamente affrontare. Essi mancano al tempo stesso di una vera attualizzazione del passato e di presenza di spirito verso l’ora.

 

3. Benjamin ha un atteggiamento meno negativo di Marx e Flaubert rispetto al fenomeno della ripetizione nella storia. Gli spettri del passato costituiscono anche un’immagine di sogno, una sorta di stadio immaginario dello specchio, di cui i rivoluzionari hanno bisogno per iniziare a riconoscere e a distinguere la propria identità, un presentimento utopico del nuovo che hanno da compiere; certo poi l’immagine di sogno deve diventare immagine dialettica, cioè rinunciare al suo aspetto mitico-apocalittico e passare dall’immaginario al simbolico, riconoscendo la differenza della situazione presente e la specificità delle contraddizioni e del conflitto attuali. Questo è il contributo che lo storico materialista (Benjamin stesso), può dare all’azione politica consapevole. D’altra parte il passato non è omogeneo; nel fatto compiuto coesisteva una pluralità di possibili conflittuali, di «biforcazioni» – come le definiva Blanqui –, che uno di essi sia stato sconfitto non ne decreta per ciò stesso l’inesistenza o l’inconsistenza; nella prospettiva di una ripetizione rivoluzionaria del passato può essere che un possibile ritrovi attualità, forza e leggibilità, più di quelli che hanno un tempo prevalso.

 

Questa concezione di Benjamin traspone nell’ambito della storia la differenza stabilita da Kierkegaard tra ripetizione e ripresa. Se la ripetizione è dominata dall’illusione che i fantasmi del passato possano rivivere identici, la ripresa richiede almeno lo scarto minimo, che muta la lettura dei fatti e li disloca verso un senso diverso, un possibile complementare. Si scioglie così la coazione a ripetere il sempre uguale e l’inamovibilità del passato, del destino inciso come per influsso astrale: «Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda, è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo»[29]. La ripetizione passiva guarda al passato come un già stato da imitare tale e quale; la speranza guarda al futuro come un mai stato; la ripresa si pone su un altro terreno, riattualizzando un possibile incompiuto e racchiuso nel passato, trasformandolo in un’anticipazione del futuro. Certo, morti sono i figli di Giobbe e quelli nuovi non potranno riportarli in vita; la ripresa permette però di mettere in dubbio la necessità di ciò che è stato, leggendo il passato nella dimensione del noi-ora, tende ad arrestare la storia della volontà di potenza, nella sospensione dell’attimo presente e nel suo conflitto indeciso.

 

Il richiamo ai fantasmi della Grande Rivoluzione poté essere – durante la Comune – sia l’immagine di sogno di una ripetizione passiva del passato, sia la ripresa di un possibile rivoluzionario sconfitto ma ora riattualizzabile in una contingenza storica completamente diversa. Questa ambivalenza attraversa tutta la storia della Comune. Nessuno può negare però che il suo lascito migliore consista nell’aver trasformato l’immagine di sogno della tradizione rivoluzionaria nell’immagine dialettica della rivoluzione sociale (e non più solo politica) richiesta nel momento del suo presentarsi come evento. Lefebvre cita a tal proposito la frase di Engels, secondo cui «bisogna rendere coscienti le tendenze inconsce della Comune», che corrisponde quasi totalmente alla trasformazione benjaminiana dell’immagine di sogno in immagine dialettica.

 

4. Occorre dire che anche Marx non si limita a condannare il richiamo al passato come un incombere di spettri. Questo fenomeno dev’essere valutato in modo diverso a seconda dell’occorrenza storica. Nel 1848-1851 – come abbiamo visto – «della vecchia rivoluzione non circolò altro che lo spettro» e un popolo intero «si vede bruscamente ricacciato in un’epoca scomparsa»[30], asfissiato da vecchie date e vecchi nomi, come l’inglese maniaco di Bedlam – dice Marx – che crede di vivere al tempo dei faraoni e di lavorare schiavo nelle loro miniere (e non in quelle dell’Inghilterra contemporanea).

 

Non così si può dire per il richiamo al passato nella Rivoluzione Francese del 1789 o in quella inglese di Cromwell: «La resurrezione dei morti servì dunque in quelle rivoluzioni a magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; a esaltare nella fantasia i compiti che si ponevano, non a sfuggire alla loro realizzazione; a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma»[31].

 

Nel primo caso si ha dunque una ripetizione fantasmatica e passiva del passato; nel secondo la sua ripresa, che stimola invece di impedire la comprensione delle urgenze del presente. Da una pura immagine di sogno si passa dunque a un’immagine dialettica del passato. Dallo spettro della rivoluzione al suo spirito, dall’immaginario al simbolico.

 

A ciò si deve solo aggiungere che probabilmente un momento immaginario non può essere assente in nessun evento al suo inizio; e nessun evento è del tutto esente dal rischio di perdersi nella nebbia dei sogni. Che prevalga l’una o l’altra di queste alternative dipende – senza alcun determinismo precostituito – dai protagonisti storici dell’ora e dalla loro capacità critica, cioè da un elemento irriducibilmente politico e psichico.

 

5. Esiste un mito e un fantasma della Comune che rischia di «incombere» su di noi, per usare il termine di Marx, e suggerire una ripetizione passiva. La Comune sarebbe in tale fantasia la realizzazione del comunismo consiliare, opposto al modello centralistico e autoritario del leninismo, che poi è prevalso nella rivoluzione d’Ottobre, proprio come antidoto al fallimento del 1871. Noi oggi, alla ricerca di un «altro» comunismo, rispetto a quello che ha condotto al disastro del totalitarismo staliniano, ci rivolgiamo allora alla Comune come a un’alternativa, a una via tentata e radicalmente diversa. Ora è bene ricordare che la Comune dei consigli e dell’autogestione sociale non si è realizzata che molto frammentariamente e non solo a causa delle condizioni terribili in cui si è trovata a operare: ma anche perché questa posizione era minoritaria rispetto alle tendenze giacobine e blanquiste (queste ultime del resto, su alcuni punti, non prive di assonanze proprio con la teoria leninista dell’avanguardia).

 

La Dichiarazione al popolo francese del 18 aprile 1871 o il Manifesto del Comitato dei venti arrondissements di Parigi, che delineano con una certa precisione gli orientamenti della «Comune sociale», sono solo un possibile della Comune quale realmente è stata, nella complessità dell’evento. Entro certi limiti tale possibile prevaleva nei provvedimenti e nei comportamenti che riguardavano l’organizzazione dello spazio e della vita quotidiana, come hanno sottolineato Lefebvre e Ross. Non così nella rappresentazione politica, che sbanda sempre più profondamente nella ripetizione delle forme di emergenza del 1792 e nella costituzione di un Comitato di salute pubblica, voluto dalla «maggioranza», pallida copia di quello originale, e del tutto inadatto alla situazione contemporanea. La scissione tra la rivoluzione sociale e le espressioni politiche del suo governo è stata una delle cause della sconfitta.

 

Se noi ora ci rivolgiamo al possibile sconfitto della Comune sociale, cercandone ispirazione per un comunismo presente o futuro, dobbiamo comprendere la sua debolezza di fronte alle tendenze autoritarie e giacobine, la sua parzialità nell’interezza dell’evento. Non è proprio il caso di sostituire l’immagine mitica della rivoluzione d’Ottobre con l’immagine altrettanto mitica di una Comune, dove ci sarebbero state solo istituzioni consiliari e libertarie. In entrambe le immagini dobbiamo rimemorare e riprendere le possibilità emarginate, nella misura in cui esse sembrano offrire indicazioni per il presente. La nostra intenzione non dev’essere la ripetizione di un fatto, ma la liberazione di un possibile.

 

6. Stringente e sintetica la definizione che Badiou dà della Comune: «L’esistenza di un inesistente». Questo è quel che permette di definirla come un evento: il fatto che «il 18 marzo avviene, sotto la spinta dell’essere, un rovesciamento immanente delle leggi dell’apparire»[32]. Ciò che era muto, escluso, «senza parte», letteralmente inesistente per l’ordine dominante del discorso, improvvisamente prende parola, sporge dall’opacità dell’esistenza e si afferma come esistente. L’evento della Comune rappresenta dunque una rottura della temporalità asservita e omogenea del dominio del capitale. Tuttavia, nel modo in cui lo presenta Badiou, il sorgere dell’evento appare quasi come un miracolo teologico-politico, l’improvviso cristallizzarsi di un’alterità di cui nulla era formulabile fino a poco prima. L’evento è per lui l’opposto della durata. In effetti lo scarto con cui si presenta sulla scena della storia può dare questa impressione di superficie e il suo prodursi è certo caratterizzato da un atto di trascendimento dell’esistenza data. Tuttavia la sua cristallizzazione si produce in una durata che non è l’opposto dell’evento ma il suo presupposto.

 

Innanzitutto c’è la lenta erosione del Secondo impero, e la rapidità con cui poi questo si disfa in poco più di un mese è effettivamente impressionante, «come una massa fragile e friabile, che aveva esterni brillanti e interni di cenere»[33]. La «disfatta», tuttavia, sarebbe incomprensibile senza la scissione sempre più profonda che il bonapartismo, per la sua stessa natura politica ed economica, introduce tra l’essere e l’apparire: la contraddizione tra la sua utopia mitico-immaginaria, «l’età dell’oro» demistificata da Benjamin nel Passagenwerk, e i conflitti sociali reali che non si fanno più contenere nel significante vuoto del populismo bonapartista. A questa erosione negativa corrisponde il sordo ma avvertibile crescere del pensiero e dell’azione critica, nei club, nelle associazioni, nelle sezioni legate all’Internazionale, che poi trovano un punto di emergenza e di condensazione nella sporgenza rivoluzionaria del 18 marzo 1871[34].

 

 Il Secondo impero mantiene intatta la facciata monumentale del suo edificio, quando già questo è incrinato in ogni punto dalla fragilità delle sue fondamenta. La sua apparenza resiste al vuoto che si propaga all’interno, finché la sua architettura immaginaria si sgretola e crolla. Nel frattempo lo spirito critico che si è lentamente diffuso come opinione, lotta sociale, scherno e ironia e comportamenti sovversivi, pur senza essere pienamente cosciente di se stesso, trova la forza e l’occasione per tradursi in parola e in azione. In realtà il 18 marzo è l’evento in cui si cristallizza la durata delle «lotte di classe in Francia», almeno a partire dalla caduta dei Borboni nel 1830.

 

Se questa relazione tra l’evento e la durata è attiva guardando al passato, non lo è di meno guardando al futuro, alla propagazione dei suoi effetti diretti e indiretti. L’evento della Comune agisce nell’immaginario e nel simbolico come produttivo di altri eventi, un possibile che può essere riattivato, un fantasma da temere: «I proclami della Comune, primo potere operaio della storia universale, compongono un esistente storico, la cui assolutezza manifesta è che è accaduta al mondo una disposizione interamente nuova del suo apparire, una mutazione della sua logica»; «gli inizi sono misurati dalla loro possibilità di ricominciare»[35]. Tuttavia, anche questi nuovi inizi non avvengono per irruzioni improvvise e spontanee, ma si riattivano da una memoria latente che agisce profondamente nell’essere e nella psiche di chi vive nelle generazioni successive.

 

Nell’intensità crescente del nuovo conflitto, l’immagine della Comune risorge come il simbolo di una vita senza oppressione, in cui chi è privo di parola può prenderla. Forse che questo non è già accaduto? In questa durata si afferma un legame non fantasmatico e non ripetitivo col passato: non sono gli spettri a tornare, ma la possibilità di un atto che trascende un’esistenza divenuta intollerabile. L’evento del passato viene ripreso non come modello statuario, ma quale metro di misura dell’operare in corso.

 

7. Lefebvre ha messo in rilievo il momento della Comune e della Rivoluzione in generale come Festa: «Fu una festa, la più grande del secolo e dei tempi moderni». La rivoluzione come festa non vive di celebrazioni e ricorrenze istituite, ma si presenta con l’intensità di un essere-per-l’inizio e di un momento aurorale. In questo senso la festa è immediatamente successiva o contemporanea di una disfatta. Nella situazione di crisi, la festa e la dissoluzione dell’ordine simbolico sono i poli opposti di uno stesso fenomeno. Il disfacimento da cui è investito il Secondo impero comporta una critica radicale della presenza. Il primo sentimento che accompagna un evento così traumatico è il divenir nulla di tutto. La crisi determina il crollo di ogni gerarchia di potere, di ogni articolazione dello spazio e del tempo, così come erano state codificate dal vecchio regime, fino a suscitare l’illusione di essere eterne, immutabili[36], abitudini divenute storia naturale.

 

Il divenire nulla di ogni ordinamento, insieme all’angoscia, comporta una percezione inedita del possibile. Questa pervade l’essere-per-l’inizio della festa rivoluzionaria, che non coinvolge soltanto le relazioni tra gli individui, ma anche quelle con lo spazio, il paesaggio e il tempo. Nell’indeterminatezza simbolica «lo sguardo erra, libero, all’infinito». «La vita, la natura, i rapporti tra gli uomini divengono mutevoli, effimeri, plurali. Sfuggono alle condizioni dello spazio e del tempo perché generatori di spazi e tempi multipli, senza origine e senza fine, inafferrabili come il sogno»[37]. È il trionfo del possibile sul necessario e per quanto rapidamente possa svanire questo momento esso è tuttavia “presenza utopica della comunità e del mondo, della comunità al mondo»[38]. Queste parole si riferiscono alla Rivoluzione del 1789 e al modo in cui Michelet parla della festa; Pasternak ha scritto nel Dottor Zivago pagine simili sull’inizio della rivoluzione in Russia. Si capisce che questo momento di splendore comporta anche il pericolo di rovesciarsi nel suo contrario, perché è l’affermazione incondizionata dell’immaginario sul simbolico, è l’adolescenza di un evento storico. È immagine di sogno che dovrebbe divenire immagine dialettica senza tradire se stessa. Il problema di ogni rivoluzione è come passare dalla sua festa utopico-anarchica a un ordine simbolico che non la tradisca, che non restauri semplicemente l’ordine infranto o crei un autoritarismo di nuovo conio; come tener vivo il rinnovamento dei possibili, pur dovendo separarsi – come dal grembo di una madre – dalla felicità dell’indeterminatezza simbolica.

 

 

8. Il programma più avanzato della Comune, quello della «minoranza», è stato esposto compiutamente nel libro di Arthur Arnould[39]. Il prefatore Noel ne ha così riassunto i termini essenziali: «Il comunalismo si costituisce intorno a quattro concetti: associazione, autonomia, federazione, unione. Il modo più chiaro di articolarli è di opporre la “federazione” allo Stato perché essa è l’“unione” per libera “associazione” di collettività “autonome”, mentre lo Stato si fonda su una autorità centralizzatrice e costrittiva. La parola “unione” è qui l’antonimo della parola “unità” […]. A questo fine, si impongono necessariamente misure “socialiste”: soppressione dell’esercito permanente e della polizia, laicità e gratuità dell’insegnamento, separazione della Chiesa e dello Stato, responsabilità e revocabilità dei funzionari, diritto al lavoro e certezza per i lavoratori di essere i beneficiari della ricchezza prodotta, libertà di stampa, protezione dell’infanzia, della salute, della vecchiaia, sistema di garanzia comunale contro la disoccupazione, il fallimento, la miseria e le diverse cause di oppressione e di conflitto […]».

 

La federazione dissolve lo Stato dal basso, perché lo decentralizza in unità autonome su base locale e lavorativa (i quartieri, i consigli) e verso l’alto, perché l’associazione si estende, per gli interessi comuni, ad aggregazioni più vaste di quelle dello Stato nazionale (Arnould pensava a una federazione europea). Il termine federalismo ha assunto per noi, negli scorsi anni, una tonalità cupa, reazionaria ed escludente; ma si tratta di una rivoluzione passiva del suo significato originario, che mirava ad associazioni sempre più ampie, non al respingimento dell’altro. Arnould collocava questa prospettiva politica a una visione cosmologica e teologica, opposta – per il suo ottimismo – a quella disperata che Benjamin attribuisce a Blanqui e alla sua concezione dell’eterno ritorno: «Partendo dal fatto immutabile della diversità degli esseri “dal filo d’erba e dall’insetto fino all’uomo” egli ritiene che questi esseri usciti dalla “matrice immensa che si chiama la terra”, hanno “legami comuni” e devono “unirsi, ma non unificarsi”, perché “il piano generale dell’universo non prevede affatto l’unità, ma la diversità nell’unione”» [40]. In queste parole sembra risuonare l’accento libertario di La Boétie, che nel suo libro sulla servitù volontaria distingueva la fusionalità indistinta dell’unirsi «tutti-in-Uno», da un essere sociale di «tutti unici», che riconoscono e ammettono la differenza dell’altro. Vale la pena di ricordare che il principio federale conserva secondo Lefebvre una stringente attualità, e da questo punto di vista la Comune sembra indicare un possibile da realizzare, leggibile a partire dal nostro presente: «L’Europa di domani si decentralizzerà, o sarà insopportabilmente autoritaria, inaccettabile economicamente, socialmente, politicamente»[41].

 

Durante l’esperienza della Comune l’influenza di Proudhon[42] e di Bakunin è stata più forte di quella di Marx sulla minoranza socialista dell’assemblea: è noto del resto che la tendenza consiliarista e federalista è stata osteggiata e combattuta dai partiti comunisti giunti al potere. Ciò non toglie, come dice Lefebvre, «che la teoria marxista dello Stato e della politica abbia “preso forma” riflettendo sugli eventi della Comune»[43]. Il cui programma è stato riassunto con efficacia da Marx: «[…] La Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato ad un mandat impératif […]»[44].

 

La Costituzione comunale avrebbe così dissolto l’«escrescenza parassitaria» dello Stato-nazione centralizzato. La Comune ha tentato di immaginare e di realizzare politiche di rappresentanza diverse da quelle dello Stato democratico rappresentativo e adeguate a una produzione cooperativa che sostituisse quella capitalista. Non si trattava quindi di abolire ogni rappresentanza in un assemblearismo mitico o nelle forme acclamatorie del populismo; ma di articolare istituzioni di associazione federale responsabili e controllate, per quanto è umanamente realizzabile. La Comune ha fatto il grande sforzo di pensare le forme politiche di un comunismo possibile, indispensabili a dare durata all’emancipazione economica e a sostanziarla con un potere decisionale diffuso e permanente dei cittadini, col loro «senso comune».

 

Note

 

[1] H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, Paris, Gallimard, 1965, p. 289.

[2] In questo libro, p.

[3] In questo libro, p.

[4] Così anche D. Bensaid, «Politiche di Marx», in K. Marx, F. Engels, Inventare l’ignoto. Testi e corrispondenze sulla Comune di Parigi, Roma, Alegre, 2011, p. 83: «[…] Il possibile non è meno reale del reale». Bensaid rinvia anche al concetto di biforcazione, come compare nel pensiero di Blanqui, utilizzandolo come categoria di interpretazione della storia: «[…] Non tutto è possibile, ma esiste una pluralità di possibilità reali tra le quali c’è la lotta che separa» (ivi, p. 88).

[5] In questo libro, p.

[6] D. Bensaid, «Politiche di Marx», cit. p. 37.

[7] «Sulla Comune», ripubblicato in “Internazionale situazionista”, 12, [anno?], pp. 12 sgg.; trad. it. in AA. VV., Internazionale Situazionista 1958-1969, Torino, Nautilus, 1994. Gli autori citano il «Programma elementare di urbanismo unitario» (Internazionale Situazionista, p. 6). Cfr. ancora: «La Comune rappresenta fino ai nostri giorni l’unica realizzazione di un’urbanistica rivoluzionaria, che attacca sul campo i segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita […]».

[8] In questo libro, p. Cfr. anche G. Debord: «Parlando di bellezza, è chiaro che non intendo la bellezza plastica – la bellezza nuova non può che essere bellezza di situazione – ma soltanto la presentazione particolarmente emozionante […] di una somma di possibilità» [?].

[9] K. Ross, Rimbaud, la Commune de Paris et l’invention de l’histoire spatiale, Paris, Les Prairies ordinaires, 2013, p. 15. In questa edizione c’è un’introduzione nuova rispetto all’edizione americana, The Emergence of Social Space: Rimbaud and the Paris Commune, [?], University of Minnesota Press, 1988. Per il riferimento a Benjamin e ai passages, cfr. M. Pezzella, Insorgenze, Milano, Jaca Book, 2014.

[10] K. Ross, Rimbaud, la Commune de Paris et l’invention de l’histoire spatiale, cit., p. 185.

[11] Ivi, p. 56.

[12] Ivi, p. 68.

[13] J. Rancière, Il destino delle immagini, Cosenza, Pellegrini, 2007, p. 79: «La nuova misura comune, così opposta all’antica, è quella del ritmo, dell’elemento vitale di ciascun atomo sensibile separato che fa passare l’immagine nella parola, la parola nella pennellata, la pennellata nella vibrazione della luce o del movimento […]. La legge del profondo oggi, la legge della grande paratassi, è che non c’è più la misura, non c’è il comune. È il comune della dismisura o del caos che fornisce ormai la sua forza all’arte».

[14] K. Ross, Rimbaud, cit., p. 155.

[15] Ivi, pp. 187-188.

[16] Nell’originale, sont des Eros, gioca con un significante il cui suono può avere significati multipli: degli eroi, degli Amori, degli Zero. Hannetonner leurs tropes, gioca linguisticamente sull’assonanza tropes-troupes. le truppe di Versailles si muovono come tropi-insetti, che devastano insieme il territorio e il linguaggio.

[17] Sono quelli che trainano il battello dalle rive del fiume. Nella strofa precedente, «pellirossa chiassosi» li avevano inchiodati a «pali variopinti».

[18] H. Lefebvre, Spazio e politica…, cit., p. 117.

[19] C. Rihs, La Commune de Paris, 1871. Sa structure et ses doctrines, Paris, Seuil, 1973, p. 55.

[20] Ivi, p. 57-58.

[21] Ivi, p. 199.

[22] J. Rougerie, La Commune. 1871, Paris, Presses Universitaires de France, 1988 p. 76.

[23] Che la Comune sia soprattutto l’ultima propaggine della Rivoluzione del 1789 – e non il primo albore di una rivoluzione sociale – è la tesi di J. Rougerie, fondata sulle posizioni giacobine e blanquiste della «maggioranza» dell’Assemblea. Lefebvre sostiene la tesi contraria.

[24] K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 46.

[25] G. Flaubert, L’educazione sentimentale, Milano, Rizzoli, 1998, p. 281.

[26] Ivi, p. 266.

[27] Ivi, p. 267.

[28] K. Marx, Il 18 brumaio…, cit., p. 45.

[29] S. Kierkegaard, La ripresa, Milano, SE, 2013, p. 11.

[30] Marx, Il 18 brumaio…, cit., p. 50.

[31] Ibid.

[32] A Badiou, La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica, Napoli, Cronopio, 2004, p. 46.

[33] Testimonianza riportata da J. Rougerie, La Commune, cit., p. 21.

[34] Questa coappartenenza della durata del conflitto e della critica, e dell’evento che dirompe le apparenze dominanti, era stata intuita da Hegel a proposito della caduta dell’Ancien Régime in Francia.

[35] A. Badiou, La Comune, cit., p. 64 e p. 60.

[36] Per Bensaid, nella crisi «l’ordine fratturato si lascia sfuggire un fascio di possibili», in «Politiche di Marx», cit., p. 91.

[37] M. Richir, Du sublime en politique, Paris, Payot, 1991, p. 20.

[38] Ivi, p. 24.

[39] A. Arnould, L’Etat et la rèvolution, Lyon, Laffont et associés, 1981, con una prefazione di B. Noel.

[40] Per la citazione cfr. A. Arnould, Histoire populaire et parlementaire de la Commune de Paris, vol. 3, Bruxelles, Librairie socialiste de Henri Kistenmarkers, 1878, pp. 132-135. Cfr. C. Rihs, La Commune de Paris, 1871. Sa structure et ses doctrines, Paris, Seuil, 1973, p. 279.

[41] H. Lefebvre, La proclamation de la Commune…, cit. p. 403.

[42] Da Proudhon proviene senza dubbio l’ispirazione federalista della Comune e l’ideologia della minoranza socialista, «non solo come riformismo, ma anche come progetto rivoluzionario radicale: progetto decentralizzatore e federale, che voleva trasformare la società esistente in libera associazione di libere associazioni. Che fosse o meno realizzabile nelle condizioni esistenti, esso era comunque totale, stimolante e vivo. Indicava un possibile» (H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, cit. p. 408). Da Proudhon proviene però anche l’ideologia moderata, che impedì alla Comune di violare le riserve della Banca di Francia (e vincere probabilmente la guerra civile).

[43] Ivi, p. 136.

[44] K. Marx e F. Engels, Inventare l’ignoto, cit. p. 136.

 

 

[Immagine:  La Colonne Vendôme dopo l’abbattimento: la Comune di Parigi, Parigi, Bibliothèque nationale de France (BnF). Foto: Braquehais Bruno (1823-1875). ©BnF, Dist. RMN-Grand Palais/immagine BnF].

19 thoughts on “La Comune e la somma dei possibili

  1. “Domenica 28 maggio [1871
    …] Attraverso passaggi angusti, aperti in mezzo alle barricate che non sono state ancora abbattute, raggiungo l’Hotel de la Ville.
    La rovina è magnifica, splendida, inimmaginabile, è una rovina, una rovina colorata di zaffiro, di rubino, di smeraldo, una rovina accecante per la carbonizzazione che ha intaccato la pietra cotta dal petrolio. Questa rovina assomiglia rovina alla rovina di un palazzo incantato, illuminato, come a teatro, dal riflesso dei fuochi di Bengala. Con le sue nicchie vuote, le statue fracassate o decapitate, l’orologio a pezzi, i tagli nelle grandi finestre e i comignoli sopravvissuti per qualche ignoto miracolo statico e sospesi nel vuoto, come un brandello che si staglia nel blu del cielo, questa rovina è una meraviglia pittoresca da preservare, se soltanto questa nazione non fosse condannata senza appello ai restauri operati da Viollet-le-Duc.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome II, Laffont, Paris, 1989 p. 432

  2. @ Alessandro Taverna
    Il diario dei Goncourt: come minimo da ri-scoprire – ” Lunedì 2 febbraio 1998 – Mi piacerebbe essere il tipo che approfondisce il senso della circostanza che la lettura del (falso) Journal dei Goncourt è all’origine della Recherche. Mi piacerebbe ma non lo sono. “.

  3. @Adriano Barra
    “Lunedì 10 luglio [1871]
    Partenza per Bar-sur-Seine. Me lo sentivo. Oggi si fa crudelmente avvertire il vuoto della mia esistenza. La guerra, l’assedio, la carestia, la Comune: ogni cosa è stata una imperiosa e feroce distrazione dal mio dolore, ma è stata appunto una distrazione.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome II, Laffont, Paris, 1989 p. 453

  4. @ Alessandro Taverna

    “ Martedì 3 novembre 1998 – « 10 janvier 1862 – Ce temps-ci n’est point encore l’invasion des barbares, il n’est que l’invasion des saltimbanques. » (Jules e Edmond de Goncourt, Journal. Memoires de la vie litteraire) “.

  5. @ Adriano Barra

    “Domenica 9 novembre [1871
    …]
    Flaubert mi parla ancora, dell’ambasciata cinese piombata in mezzo al nostro assedio e alla nostra Comune, in pieno cataclisma, e alla quale per giustificarsi dicevano:
    – Sarete sicuramente sorpresi da quanto sta accadendo da noi adesso.
    – Ma no, ma no… voialtri occidentali siete giovani … non avete quasi storia … ma è sempre così…. e l’assedio e la Comune: è storia dell’umanità.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome II, Laffont, Paris, 1989 p. 489

  6. “ Sabato 15 aprile 2006 – « Samedi 7 janvier 1871 – […] Ce soir, au chemin de fer, je demande mon billet pour Auteuil. La buraliste me dit que le chemin de fer, à partir d’aujourd’hui, ne va plus qu’à Passy. Auteuil ne fait plus partie de Paris. » (Edmond et Jules de Goncourt, Journal. Mémoires de vie littéraire) “.

  7. “Mercoledì 18 aprile [1871…]
    A quanto pare, gli impiegati del Museo del Louvre sono nell’ansia più estrema. La Venere di Milo è nascosta, indovinate dove? Al distretto di polizia! È ben nascosta: per dissuadere gli eventuali saccheggiatori è stata sepolta sotto un cumulo di carte e di verbali di polizia. Si teme tuttavia che Courbet sia sulle sue tracce: i pavidi impiegati del Louvre temono, credo a torto, la ferocia moderna ai danni del capolavoro classico.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome II, Laffont, Paris, 1989

  8. @ Alessandro Taverna

    “ Giovedì 11 gennaio 2007 – « Parigi, 3 marzo 1942 – […] La sera da Ramponneau con Abt, che è stato alfiere insieme a Friedrich Georg. Dopo cena si avvertì un rumore, che mi parve d’esplosione; notai l’ora per iscritto. Seguirono altri boati e pensammo che fosse un temporale lontano, una di quelle tempeste di primavera piuttosto frequenti in questa zona. Quando Abt domandò al cameriere se aveva già cominciato a piovere, questi rispose: “ I clienti ritengono che si tratti di un temporale, io crederei invece che siano bombe “. Dopo di che decidemmo di andarcene. Usciti fuori sentimmo i tiri della contraerea; e vedemmo illuminanti giallo-arancione degli inglesi sospesi su quel mare di tetti. Di tanto in tanto apparecchi da bombardamento guizzavano sopra i tetti come pipistrelli. Ero a letto, la sparatoria continuò ancora per lungo tempo. E intanto leggevo un saggio di Du Bos sui Goncourt, e un capitolo del primo libro dei Re. La lettura aveva per sfondo questo scenario di fuoco. So godere di queste cose partecipandovi sempre più, senza parteggiare per nessuno. » (Ernst Jünger, Diario 1941-1945) “.

  9. @ Adriano Barra

    “Sabato 10 giugno [1871…]
    Ho cenato con Flaubert che non vedevo dalla morte di mio fratello. È venuto a Parigi per cercare un’ informazione per la sua Tentazione di Sant’Antonio. E’ rimasto lo stesso – un letterato prima di tutto. Questo cataclisma non sembra averlo per nulla sfiorato, non lo ha distolto dalla tranquilla fabbricazione del libro.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome II, Laffont, Paris, 1989

  10. @ Alessandro Taverna

    “ Giovedì 20 aprile 2006 – « Voici donc ces pages tranquilles et sans ambition que le graveur écrivait après le labeur du jour. Voici le livre où chaque soir il rangeait ses souvenirs, où chaque soir il se racontait lui-même; voici le compte scrupuleux qu’il tenait de sa vie. L’ami accueilli, le grand seigneur reçu, la promenade accomplie, la lettre écrite, la lettre arrivée, le fils marié, le tableau acheté, la maladie survenu, la planche terminée, le nouvel élève installé, le meuble même apporté le matin, l’évenement et le détail, la catastrophe et le rien de chaque douzaine d’heures, tout est marqué, rien n’est omis en cette autobiographie minutieuse, en ces confessions de bonne foi. L’heureuse fortune pour le curieux d’art! la maison de Wille, une maison de verre, et sa vie sauvée tout entière! » (Edmond e Jules de Goncourt, Préface, a Mémoires et journal de Jean-Georges Wille. Graveur du Roi. / Publiés […] par Georges Duplessis […], 1857) “.

  11. @Adriano Barra

    “Martedì 15 novembre [1861…]
    Talvolta penso che giorno verrà in cui i popoli moderni avranno a disposizione un Dio all’americana, un Dio con fattezze umane e sulle cui testimonianze faranno fede i giornali da due soldi; tale Dio sarà riprodotto nelle chiese, e non più con le fattezze arbitrarie stabilite dalla mente dei pittori, non più fluttuante sul velo della Veronica, ma fissato in un ritratto fotografico…
    Ecco, mi immagino un Dio in fotografia e con un paio di occhiali.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome I, Laffont, Paris, 1989

  12. @ alessandro taverna

    “ Venerdì 10 ottobre 2014 – Molto divertente scoprire che quando, nel ‘78, Modiano vinse il Goncourt, nella terna dei finalisti c’era anche Perec, La vie mode d’emploi, che però prese un solo voto. “.

  13. @ Adriano Barra

    “Infine di questo salotto tramutato in pollaio durante l’assedio e bersaglio per le palle di cannone e di obice durante la Comune, mi prese un giorno il capriccio di farne una sorta di museo dei disegni di scuola francese raccolti per tanti anni da mio fratello e da me. Arredare una camera nella mia casa: dopo la pubblicazione di un libro e con il denaro ricavato, ecco lo svago e la ricompensa che mi procuro. Se non facessi il letterato, mi sono detto tante volte, se non avessi di che mangiare, la professione che avrei scelto sarebbe quella di inventore di interni per gente ricca.”

    Edmond Goncourt, La maison d’un artiste, Charpentier, Paris, 1881 p. 25

  14. @ Alessandro Taverna

    “ Mercoledì 28 aprile 2010 – « Agosto 1855 – Le statue di cera: non conosco bugia sulla vita più orribile. Questo gesto gelato, questa morte vivente, la fissità, l’immobilità, il silenzio dello sguardo, questa fisionomia solidificata, le mani maldestramente appese alle braccia, queste zazzere nere sulla fronte degli uomini, queste lunghe ciglia che rinchiudono l’occhio delle donne – una grata di seta in cui passa un uccello di velluto -, il bianco cereo delle carni: tutto ciò risulta macabro e straziante. Forse questo prodigioso plagio della natura è destinato a un grande avvenire: le due arti plastiche, pittura e scultura, riunite e fuse nella figura di cera. Quel giorno, i realisti resteranno senza lavoro. La figura di cera è nell’età della fanciullezza; la stessa età della commedia ai tempi di Tespi. Ma nella Repubblica che si profila, diventerà la grande arte popolare. Non v’è dubbio che le future democrazie della Francia costruiranno una nuova Versailles, un ritrovo dei capolavori celebrativi, accessibili all’universale intelligenza, che il popolo potrà leggere facilmente: una Versailles delle statue di cera. Anche i grandi eventi e i fatti memorabili della storia potranno essere fissati, immortalati nella loro forma, nel loro colore. Per questo ci sono già pronti i pittori. Per esempio i Delaroche disegneranno il bozzetto della messinscena: disporranno le poltrone, suggeriranno delle pose, piazzeranno il modello, detteranno le figurazioni. Gli si potrebbero affiancare dei registi, degli attori, etc. – gente la cui professione è di ordinare e rendere plasticamente fatti fittizi e fantastici. Forse ci si potrà spingere fino al punto di inserire nei personaggi storici delle manovelle che, azionate, faranno recitare delle frasi: A moi l’Auvergne… per Assas, Allez dire à votre maître… per Mirabeau, Du haut de ces pyramides… per Napoleone, Elle doit être à nous… per Bilboquet. L’illusione sarà allora totale e il popolo rapito. » (Edmond e Jules Goncourt, Journal / Memorie di vita letteraria, [2007]) “.

  15. @ Adriano Barra

    “Domenica 28 dicembre [1873] – Al funerale di François Hugo, all’uscita del Père-Lachaise, siamo avvicinati, Flaubert e io, da Judith.
    In un mantello piumato, la figlia di Théophile Gautier è bella, di una bellezza singolare. Ha l’incarnato bianco appena roseo, la bocca scolpita, come una bocca primitiva sull’avorio dei denti grandi, i lineamenti puri e quasi assonnati, i grandi occhi dalle ciglia ferine – ciglia dure e somiglianti a minute spine nere – non addolciscono il suo sguardo e alla creatura in letargo consegnano l’indefinibile e il mistero di una donna-sfinge, di una carne, di una materia, che non dà ricetto a nervi moderni. E per contrasto alla sfolgorante giovinezza, la ragazza presenta da un lato il cinese Tsing, dal volto piatto e il naso schiacciato, e dall’altro la vecchia Grisi, raggrinzita e sofferente.
    E perché in questo incontro infine tutto risulti bizzarro, eccentrico, fantastico, Judith si scusa con Flaubert per averlo mancato la sera avanti. Era uscita per andare alla sua lezione di magia, proprio così, la sua lezione di magia!”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome II, Laffont, Paris, 1989

  16. @ Alessandro Taverna

    “ Lunedì 8 marzo 2010 – « 13 febbraio 1874 – Ieri ho trascorso la giornata nello studio di un pittore bizzarro, certo Degas. Dopo molti tentativi, prove, ricerche spinte in tutti i campi, si è innamorato del moderno; e, nel moderno, ha messo gli occhi sulle stiratrici e sulle ballerine. In fondo la scelta non è tanto poi malvagia, c’è del bianco e del rosa, della carne di donna in un accappatoio e nel tulle, il più affascinante pretesto per colori biondi e teneri. Ci mette sotto gli occhi, nelle loro pose e nelle loro espressioni di grazia, stiratrici e poi stiratrici… parlando il loro linguaggio e spiegandoci tecnicamente il colpo di ferro “ appoggiato “, il colpo di ferro “ circolare “, ecc. Sfilano in seguito le ballerine… È il ridotto della danza e, contro la luce di una finestra, le forme fantastiche di gambe di ballerine che scendono una piccola scala, con la violenta macchia di rosso d’uno scialle in mezzo a tutte quelle bianche nuvole che si gonfiano, con il contrasto volgare di un ridicolo maestro di ballo. E si ha davanti a sé, colto nella realtà, il grazioso attorcigliarsi dei movimenti e dei gesti di queste piccole fanciulle-scimmie. » (Edmond e Jules Goncourt, Journal) “.

  17. @Adriano Barra
    “Domenica 7 aprile [1861
    …]
    Stasera, alla prova di un’opera sul palco di un teatrino del boulevard, un’opera stracolma di donne. Tutto funziona come la distribuzione di premi in una casa di tolleranza. Questo genere di teatro consiste unicamente nell’eccitazione di ogni basso istinto del pubblico, il miglior ritrovato per il genere è abbigliare le donne da militare: innestare sciovinismo con erotismo. Una donna con un bel c*** , con le gambe non troppo storte e che mette in salvo la bandiera francese: a questo non si può resistere.”

    Edmond et Jules Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire, tome I, Laffont, Paris, 1989

  18. “ Giovedì 3 agosto 2006 – « Lundi 30 décembre 1895 – […] En sortant de cette exposition, comme je ne pouvais m’empêcher de répéter tout haut dans la rue: “ Le délire… le délire de la laideur! “, un jeune homme s’approchant de moi, me dit: “ Vous me parlez, monsieur? “ » (Edmond et Jules de Goncourt, Journal / Mémoires de la vie littéraire, [Tome neuvième 1892-1895], ) [*] [*] È l’ultima frase dell’ultimo volume del diario pubblicato in vita da Goncourt. “.

    Caro Alessandro Taverna @,
    lascio a te l’ultima parola. Non prima però di averti detto che ho notato che hai sottomano la meravigliosa edizione in tre volumi, che uno di questi giorni mi adatterò ad acquistare, anche se per i miei gusti costa troppo. Per intanto ti invidio.

  19. “AVIS AUX ARTISTES ET ARTISANS.
    Au premier Octobre 1895
    il sera ouvert dans les Galeries de M. S. BING
    22 Rue de Provence à Paris sous le titre
    L’ART NOUVEAU
    une Esposition permanente de toutes productions artistiques sans distinction de catégories.
    Cette Exposition comprenda:
    LA SCULPTURE, LA PEINTURE, LE DESSIN ET LA GRAVURE, LES ARTS DU DÉCOR, DU MOBILIER ET DE L’OBJET UTILE.
    Seront admises toutes les oeuvres d’art qui manifesteront une conception en accord avec l’esprit moderne.”

    Ecco il manifesto con cui era presentata a Parigi l’esposizione da cui Edmond de Goncourt esce il 30 dicembre 1895, giorno in cui il Journal finisce. Ma non sarebbe il caso di correggere la data e di tornare indietro di due giorni? Quarantotto ore prima, a ottocento metri di distanza da dove Samuel Bing offre lo spettacolo dell’Art Nouveau, si paga per la prima volta un biglietto per un altro spettacolo di Art Nouveau che i fratelli Lumière proiettano su un lenzuolo.
    Grazie infinite ad Adriano Barra, per aver scelto di trascrivere questo stupefacente finale del Journal dei Goncourt, più stupefacente ancora in quanto il Journal finisce nell’istante in cui – pur solo per una brevissima durata eppure già con la risorsa del sonoro – comincia a funzionare come cinema. Con la scenetta dell’uomo che cammina e parla e con il passante che crede si rivolgano a lui le parole. il Journal funziona come l’ Art Nouveau che il 28 dicembre finiva su un lenzuolo. E sono bastati due giorni perché il Journal dei Goncourt, di quell’arte presentata a Boulevard des Capucines, assimili subito gli espedienti essenziali. Vero che il cinema arriva all’ultima pagina, proprio nelle ultime righe. Ma non sarà sempre cosi, che tutte le volte che qualcuno allungherà il passo per strada – come leggiamo nel Journal dei Goncourt – e che si metterà magari a correre, un film sta per finire?

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