di Riccardo Frolloni
[Questo intervento è stato pronunciato durante il secondo Seminario annuale di poesia contemporanea (Università di Perugia, 17-18 Novembre 2020)].
1. Gap. La lingua, le generazioni e la poesia.
La parlamentare neozelandese 25enne Chloe Swarbrick, il 7 novembre 2019, mentre teneva un discorso sui problemi legati al cambiamento climatico, ha zittito un collega più anziano che l’aveva interrotta con un ok boomer per poi riprendere indefessa il suo discorso. Con baby boom si indica una improvvisa fase di crescita demografica, in particolare quella verificatasi nei paesi occidentali nel secondo dopoguerra, durata fino ai primi anni ’60 del Novecento[1]. Espressioni come cringe o boomer appartengono al linguaggio giovanile dei millennials, o più esattamente, della generazione Z, detti anche post-millennials, nativi digitali insomma, come parte dunque di un e-taliano[2] sempre più adoperato quale lingua comune.
Studiare la lingua significa studiare la società[3], per analogia o contrasto, e in questo caso specifico manifesta l’insofferenza e le incomprensioni generazionali generate da una realtà in continuo mutamento e che aumenta la distanza tra i più e i meno flessibili. I nuovi mezzi di comunicazione e di espressione sono i campi più ovvi dove ricercare il gap generazionale, a tal proposito la Treccani propone come neologismo perennial, ovvero persona in grado di adattarsi alle novità e ai cambiamenti, a prescindere dall’età anagrafica. Già da anni si parla di post–irony[4], Fortini l’avrebbe chiamata «cultura del nullismo»[5], e riguarda il rapporto tra i giovani, la cultura circostante e il ricordo, e dunque la storia e la tradizione: «tradizione è coscienza del passaggio dal passato al futuro […] fondazione del futuro attraverso una selezione dell’eredità. […] Se valore e tradizione sono nozioni contigue, criterio di valore è criterio di scelta. E si sceglie dal passato per il futuro»[6]. Il discrimine generazionale oltre ad essere tecnologico è anche storico, sociale ed economico. Il professor Marco Albertini dell’Università di Bologna ha pubblicato alcune elaborazioni basate su dati della Banca d’Italia che danno un’idea di come sono evoluti i rapporti economici fra giovani e anziani, in estremo sfavore dei primi. Se guardiamo infatti alla ricchezza media individuale, a seconda del periodo storico in cui si è nati, troviamo che la coorte dei post-1986 risulta come la più povera in assoluto: la ricchezza media individuale crolla a picco a seguito della crisi economica, e solo in anni recentissimi è cominciata una leggera ripresa che comunque dovrebbe proseguire a lungo prima di riportare questa generazione quanto meno dov’era un tempo. Al contrario, la generazione nata nel secondo dopoguerra e fino a metà degli anni ‘60 – grosso modo i sessantenni di oggi – risulta di gran lunga la più ricca: «Qualcuno potrebbe dire che la mancata crescita della ricchezza attorno ai 40 anni della “generazione dimenticata” dipenda dal fatto che sono usciti più tardi di casa rispetto alla generazione fortunata 1946-65. E che quindi quello che stiamo osservando sia uno scivolamento in avanti, ovvero un posticipo della stessa dinamica di crescita e non un peggioramento. Io però non credo proprio che questa sia la spiegazione corretta: questa spiegazione non regge, o spiega solo una piccola parte di quella differenza»[7]. In Pagare o non pagare Walter Siti ritiene che il ritardo economico delle nuove generazioni si riflette sul piano cognitivo, queste faticano ad affermarsi in una società in cui sembra impossibile migliorare la propria condizione economica: «la dignità che è indispensabile per un uomo in formazione si cerca altrove che nel lavoro; la catena socialmente consapevole che cinquant’anni fa appariva infrangibile, lavorare-essere pagati-pagare-comprare, è evaporata in una nebbia di delusioni e speranze in cui sembra che il denaro abbia perso la propria funzione di perno, in quanto collegato al lavoro». Nella tempesta economica contemporanea, ognuno di noi cede gratis la propria anima di consumatore: «che fare, se si continua a desiderare il massimo quando a disposizione non c’è che il minimo?». La finanza ha cominciato ad essere incontrollabile, provocando da una parte le illusioni di ricchezza, che continuamente rimbombano nei personaggi televisivi e digitali che se ne fanno portavoce, e dall’altra la sensazione opposta di aver perso tutto, di non saper più controllare il proprio denaro. La gratuità dunque diviene una ghiotta possibilità pur poggiando su uno strato di illusione: per chi non ha conosciuto il processo del lavoro-guadagno-consumo, la gratuità ed i prezzi low cost sono una normalità.
Il poeta non è mai alieno, a dispetto anche della sua volontà di alienazione, alla contemporaneità; infatti questa si manifesta inevitabilmente nei testi. Nella prefazione a Caratteri (Vydia Editore, 2019) di Francesco Maria Terzago, Gian Mario Villalta suggerisce un certo imbarazzo nel percepire una sorta di distacco e ammette che «è difficile, per chi è abituato a leggere la poesia in termini di “trasmissione”, orientarsi a una prima lettura, individuando che cosa è stato e che cosa no». Il problema sta nella diversa direzione di sguardo della generazione di Terzago (classe 1986), non più rivolta alla «tradizione dei padri (e degli zii) nella recente poesia italiana, e anzi, come molti della sua generazione, è partito da interessi che hanno riguardato più la filosofia e la critica che la poesia», preferendo invece «intessere un fitto dialogo con i suoi coetanei». Naturalmente, dal punto di vista di Villalta questo è «un limite, non un vantaggio per la poesia», reiterando così le parole di Cesare Viviani in La poesia è finita (Il melangolo 2018): «Cari giovani, non è questo il punto: il problema è che voi non avete letto nemmeno Luzi o Zanzotto, Sereni o Giudici, Raboni, Porta o Pagliarani». A questa critica, due giovani poeti come Gianluca Furnari e Lorenzo Di Palma, risposero: «Le modalità di lettura sono certo cambiate rispetto a qualche decennio fa, ma posso assicurarle, dal canto mio, che quasi tutti i giovani poeti di mia conoscenza hanno letto molto non solo di “Luzi o Zanzotto, Sereni o Giudici, Raboni, Porta o Pagliarani”, ma anche dei poeti della sua generazione; e che ciascuno seleziona, secondo i propri interessi e la propria combinazione spirituale, riferimenti e guide diversi. D’altronde coloro che non sono avvezzi alla lettura non leggeranno verosimilmente neppure questo libro, che così perderà ogni ragion d’essere. […] Il generico “i poeti giovani”, mi sembra, detto con tutta sincerità e con un pizzico di rammarico, un modo sbrigativo per mettere le mani avanti e creare una semplicistica quanto infondata analogia tra “i giovani” e “la fine della poesia” presente nel titolo»[8].
Alcune diciture come “lirica rifunzionalizzata”, “sublime dimesso”, “poesia narrativa”, possono sembrare appropriate per esordi come quello di Terzago e le tradizioni rintracciabili sono tante, «l’ibridazione nella nuova lirica è regolata sempre da rapporti semantici. Vengono aperti e mescolati i generi, le forme retoriche e metriche, il verso e la prosa. Il lirismo rifunzionalizzato, inoltre, si caratterizza per un rilievo particolare dato al ritmo, che va inteso non come complesso di valori estetici e eufonici, ma come articolazione di un pensiero che collega la pronuncia mentale, e speculativa, agli aspetti sonori del linguaggio, l’illuminazione epifanica estatica a una riflessione saggistica»[9] [Borio 2018]. L’apertura e la mescolanza dei generi diviene dunque un nuovo paradigma, o meglio, un «post-paradigma»[10], una nuova predisposizione verso la tradizione poetica dove ogni meccanismo omeostatico si fluidifica. Niente di facilmente notabile, probabilmente sfugge agli stessi autori, poiché boomer is a state of mind[11], e la formazione letteraria dei giovani poeti è tutta novecentesca: «Quello che risulta più “patologico” rispetto a una sana dialettica intergenerazionale è la difficoltà, da parte delle nuove generazioni, ad assumere un linguaggio e una prospettiva propria mentre continuano a interiorizzare i luoghi comuni dei padri […] una sorta di “ventriloquismo” intergenerazionale»[12]; la storia letteraria della poesia recente ha bisogno di una riscrittura.
Per un’analisi trasversale della poesia recente, un utile strumento di lettura sono i Quaderni italiani di poesia Marcos y Marcos, i quali, oramai da trent’anni, raccolgono alcuni tra gli autori più interessanti: antologia permanente, fallibile ovviamente e come tutte matrice di altrettante antologie di esclusi. Leggendo le opere racchiuse negli ultimi tre Quaderni, dunque abbracciando un periodo che va dal 2015 al 2019, con autori di età mai superiore ai quarant’anni[13], non noteremo un netto distacco dalla maggiore poesia tradizionale del secondo Novecento: una forte predominanza della lirica (Bergamin, Cornali, Corsi, Lotter, Mohamed, Orso, Pini) che spesso strizza l’occhio alla narrativa e alla narratività (De Santis, Iemma, Lanza, Vivinetto) o alla “lingua zero” (Cardelli, Crocco, Borio); riutilizzo della metrica classica e di forme chiuse; il dialetto (Steffan); prose poetiche e suite di testi (Carlucci, Donaera, Gallo, Mancinelli, Ramonda). La tradizione, e dunque la “trasmissione”, sembra ben mantenuta, anzi, c’è quasi una mancanza di freschezza, soprattutto in alcuni di questi, una contemporaneità che è tutta Novecento, senza considerarlo un giudizio di valore. Si presenta un paradosso: la poesia dei giovani poeti è affine al Novecento ma confuse sono le tracce di trasmissione. Ritornano in mente le parole di Stefano Dal Bianco, «la generazione futura comincerà da zero e creerà da sé la propria comunità, e scriverà delle opere che noi non capiremo perché saremo ancora troppo legati a questo mondo, se saremo in vita»[14], e allo stesso tempo il lascito testamentario di Fortini in Composita solvantur: «Ma voi che altro di più non volete/se non sparire/e disfarvi, fermatevi./Di bene un attimo vi fu./ Una volta per sempre ci mosse./Non per l’onore degli antichi dèi/né per il nostro ma difendeteci/tutto è oramai un urlo solo./Anche questo silenzio e il sonno prossimo […] Rivolgo col bastone le foglie dei viali./Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia./Proteggete le nostre verità». Da qui la necessità di superare la contemporaneità in poesia e pensare a una nuova fase in atto, una nuova storia; le ultime ricognizioni storico-letterarie si sono concentrate nei primi decenni della contemporaneità in poesia, ovvero gli anni Sessanta e Sessanta, spingendosi poi fino al passaggio di millennio, sfumandosi coll’avvicinarsi al presente; ritengo, invece, che i tempi siano maturi per proseguire il lavoro svolto e tentare di comprendere cosa sia effettivamente avvenuto negli ultimi trent’anni di poesia.
2. 1994. Fortini, il canone e il mondo nuovo.
Per un possibile ripensamento di una storia della poesia recente mi approprio di una data-simbolo che possa permetterci di problematizzare le diverse nature coinvolte, inevitabilmente, nel processo storico-letterario: nel 1994 Composita solvantur di Fortini, pubblicato a febbraio, l’autore morirà nel novembre dello stesso anno. Caproni scomparso nel 1990 e l’anno successivo viene pubblicata Res amissa; l’anno precedente è l’anno della morte prematura di Antonio Porta e della caduta del Muro di Berlino. Nel 1995 Tutte le poesie di Sereni, morto nel 1983, dello stesso anno è La ballata di Rudi di Pagliarani e Corollario di Sanguineti; l’anno successivo si suicida Amelia Rosselli, a sessantasei anni. Nel 1994 il primo Governo Berlusconi e l’inizio del ventennio berlusconiano[15]; il Premio Oscar a Schindler’s List; il suicidio di Kurt Cobain; viene inaugurato il Tunnel nella Manica; Nelson Mandela Presidente del Sudafrica; Pacciani condannato all’ergastolo; la Sony presenta la PlayStation. Negli anni Novanta la Guerra del Golfo, la prima guerra del villaggio globale, teletrasmessa. Fortini esordisce con una raccolta di guerra (Foglio di via, 1946) e chiude la sua parabola con una raccolta (Composita solvantur, 1994) in cui la guerra viene descritta in falsetto: le celebri Canzonette del Golfo. Prendere in considerazione come punto di partenza per una storia della poesia recente la scomparsa di un autore come Fortini significa anzitutto dare risalto al ruolo dell’intellettuale e di conseguenza i cambiamenti sociali e culturali dell’Italia in prossimità del nuovo millennio. Gli interventi di Mazzoni, Dal Bianco e Luperini durante le giornate di studio dedicate a Fortini, a dieci anni dalla scomparsa [Dieci inverni senza Fortini, Quodlibet 2006], ruotano attorno al rapporto dell’autore con l’attualità, come l’ultimo grande poeta-intellettuale totalmente novecentesco, a testimonianza di quel passaggio dall’intellettuale-legislatore all’intellettuale-interprete [Bauman 1992]. Il processo si stava sviluppando gradualmente da alcuni decenni, la scomparsa di Fortini segna l’ultima possibilità di trasmissione. Nella già ricordata poesia di Composita Solvantur Fortini si rivolge ai giovani: «Rivolgo col bastone le foglie dei viali./Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia./Proteggete le nostre verità». L’intera poesia è un confronto, disilluso ma anche speranzoso, con i giovani, e diversi studiosi, tra cui lo stesso Luperini, trattano del rapporto del poeta con essi, in aperto scontro con le posizioni di Pasolini e di Calvino. Come per l’intellettuale-interprete (o intellettuale-lavoratore della conoscenza o sottoproletariato intellettuale), Guido Mazzoni affianca il rapporto economico-cognitivo rispetto alle nuove generazioni, costrette alla fluidità e ad una elevata capacità di conversione: «come il teatro nel secolo del cinema, la poesia dei nostri tempi si sorregge sul proprio passato glorioso e si affida al mecenatismo residuo di qualche istituzione pubblica o di qualche casa editrice per resistere. Ma la sociologia della letteratura non spiega da sola un simile declino; perché se la perdita del mandato sociale illumina alcuni aspetti decisivi di quanto accade oggi, una crisi così profonda ha anche delle cause interne, forse meno importanti di quelle esterne ma comunque significative»[16].
Dalla crisi della figura dell’intellettuale alla crisi della critica, problemi che si diramano in numerosi ulteriori affluenti, come il ritardo di canonizzazione delle generazioni di poeti figli diretti della contemporaneità in poesia, ovvero i poeti nati negli anni Sessanta e, più distintamente, Settanta, vissuta o troppo giovani per sfruttarne le potenzialità creative, o troppo vecchi, a finire del secolo, per comprenderne e accettarne le dinamiche. A tal proposito Villalta scrive: «parlo dal punto di vista della mia generazione, se esiste. Parlo proprio dal luogo di una sua difficoltà o impossibilità di esistere come “generazione”. Per dare qualche riferimento: chi era troppo giovane negli anni settanta, e dunque una generazione che non ha saputo riconoscersi come tale, che non sa farlo tuttora, di persone che non hanno mai potuto né voluto (a volte c’è poca differenza) valersi di alcuna legittimazione, ostinate a bussare alle porte della grande poesia del secolo, senza neanche uno straccio di parola d’ordine»[17]. I fratelli maggiori di questi, i poeti nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta, al contrario, avevano vissuto un momento particolarmente vivace, cavalcando l’onda del boom economico e dello slancio delle rivoluzioni giovanili, esordendo in quel momento storico-letterario in cui oggi viene collocata l’origine della contemporaneità in poesia: tra la pubblicazione de I Novissimi [1961] e il Festival di Castelporziano [1979], passando per le pubblicazioni di Satura e Transumanar e Organizzar [1971], il Nobel a Montale, la morte di Pasolini e la pubblicazione de Il pubblico della poesia [1975]. Un periodo dove il dibattito letterario attraversava un forte ripensamento, e doveva fare i conti con gli esordi di questa generazione di poeti, i quali, appoggiati dalle grandi case editrici, si inseriscono nel panorama appena ventenni o trentenni: Bellezza, De Angelis, Cavalli, Conte, Cucchi, Magrelli, Valduga…:«la generazione dei Fortini, Pasolini, Calvino, Vittorini è stata una generazione che si è trovata subito senza padri, che ha avuto subito tutto lo spazio possibile all’interno dell’industria culturale e del dibattito intellettuale, perché i padri si erano dovuti ritirare in buon ordine dopo l’onta del ventennio; inoltre hanno operato nel momento più economicamente dinamico della storia italiana, caratterizzato oltre tutto da una piramide demografica “sana”. Questa opportunità e queste particolari condizioni storiche non le hanno avute nessuna delle generazioni né precedenti né successive»[18]. Infatti, ad un rapido confronto con le generazioni successive, notiamo una pressoché totale mancanza di grandi case editrici (Mondadori, Garzanti, Einaudi) a firmare gli esordi dei poeti nati negli anni Sessanta e Settanta: Riccardi, Rondoni, ma poi Dal Bianco [2001] una volta raggiunta la maturità; Biagini e Pellegatta, pochi altri sparuti casi; conseguenze di fatto connesse alla gerontocrazia della élite culturale italiana, dove la mobilità verticale è drammaticamente rallentata negli ultimi anni[19]. D’altro canto cominciano a farsi notare alcune case editrici medie come Marcos y Marcos, Donzelli, Crocetti, Aragno, Jaca Book, e piccole come Ladolfi, Raffaelli, Lietocolle, le quali accolgono gli esordi dei maggiori poeti di queste generazioni, con tutti i rischi del caso: la scarsissima distribuzione, i pochi casi di ristampa e dunque la rapida fuoriuscita dal commercio.
Unito certamente all’aumento capillare di scolarizzazione e dunque anche allo sviluppo di un crescente numero di scriventi, la critica e l’editoria hanno subito un soffocamento da dati, e i conseguenti «effetti di deriva» di berardinelliana memoria. Una certa “ansia da terraferma”: nel giro di pochissimi anni escono numerosissime antologie[20], sede storicamente dedita al canone, ma hanno davvero contribuito a rinnovarlo? Si iniziano a distinguere gli intenti: le antologie canonizzanti (con l’obiettivo di voler selezionare ciò che dovrebbe rimanere); le militanti (es.: Prosa in prosa); le generazionali (“riconoscimento fra pari”, al di là delle poetiche); le autoriali (sul prestigio dell’antologizzatore, decisivo nella costruzione della stessa). Ovviamente, le tipologie non sono mai così assolute (es.: Testa canonizzante-autoriale; Parola plurale canonizzante-militante), ma sintomatico è come alcune di queste rinunci programmaticamente alla possibilità di un canone: Parola plurale, sin dal titolo, suggerisce un’idea di canone chiuso di stampo novecentesco; Dopo la lirica, sembra ipotizzare una sopravvivenza postuma di un genere. L’incidenza di tali operazioni non è di certo nulla, ma decisamente ridimensionata rispetto al passato (es.: Mengaldo; Sanguineti); il discorso si complica quando si cercano di ricercare i motivi di questa dispersione, non sempre indice di debolezza del campo: l’incapacità di cogliere quella proposta può venire dal pubblico, dall’operazione editoriale o dal fallimento estetico della stessa. Sembrano perciò oggi più rilevanti le pubblicazioni monografiche o almeno suscitano un nuovo interesse, come è accaduto con De Angelis [2017], Benedetti [2017], Frabotta [2018], Pagnanelli [2019], Di Ruscio [2019], Benzoni [2020], Toma [2020]. Il canone si sviluppa nel tempo e lentamente, in diretta continuazione o polemica contrapposizione con la tradizione letteraria[21]. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, persa la rete protettiva della storia letteraria, la sicurezza di una serie di norme e valori che garantivano la trasmissione del passato letterario nella pratica didattica del presente, i testi letterari sono stati oggetto di letture sociologiche, psicoanalitiche, semiologiche, e i critici e gli storici della letteratura hanno cercato altrove che nella tradizione gli strumenti di analisi e i valori su cui fondare la scelta di opere da additare come “monumenti” canonici. La stagione di una critica con forti opzioni metodologiche e vocazioni teoriche è stata, quindi, il frutto della crisi di una tradizione interpretativa[22] e l’apertura a paradigmi epistemologici in grado di rivitalizzare lo statuto della disciplina letteraria e di ampliare la campionatura degli autori e delle opere: «non è un caso che, oggi, in Italia una riflessione sul canone abbia come centro il giudizio sulla contemporaneità»[23]. Berardinelli [1975] teorizzava l’inizio di una fase del campo letterario alla quale la storiografia critica (e antologica) avrebbe dovuto adeguarsi attraverso una parziale rinuncia sia alle proprie categorie tradizionali, sia all’intenzione di formare un canone. I mutamenti decisivi, per quanto riguarda la cultura, sono da annoverare nell’ambito cognitivo, in quello delle tecnologie della comunicazione e nel rapporto tra lingua parlata e lingua scritta in Italia, «l’esito è il venir meno di quei riferimenti costanti che erano i simboli e i colori con cui si disegnava ogni mappa»[24]. Il web viene annoverato tra i cambiamenti esterni che favoriscono una rinegoziazione dei rapporti di forza nel campo letterario contemporaneo; la rete offre ai «nuovi entranti» dei tardi anni ’90 ciò di cui hanno maggiormente bisogno, «un mezzo per scavalcare mediazioni che in quel momento sono in mano ad altri»[25]. I siti letterari e i litblog sono diventati un veicolo importante di testi inediti e di libri del passato; le riviste letterarie attuali catalizzano il dibattito online molto più e spesso molto prima che su carta. I nuovi rapporti di forza presenti nella critica letteraria online hanno determinato un arricchimento del dibattito critico e un rinfocolarsi della critica militante, che fa da contraltare alla perdita delle poetiche “in senso forte”: «Il panorama era fluido – scrive Andrea Inglese –, democratico, caotico, competitivo e si stava tutti entrando nell’epoca spossante dell’autopromozione permanente [soprattutto online]. Anche una sciagurata e universale abitudine come l’autopromozione – che ovviamente non riguarda solo il piccolo mondo della poesia – ha prodotto qualcosa di positivo. Essa ha incitato all’autonomia. In Italia, quindi, una nuova area della poesia –chiamiamola approssimativamente – di ricerca si è precisata attraverso un faticoso fare da sé»[26]. L’autopromozione, strettamente connessa al web e oggi ai social, si rivela un’arma a doppio taglio, a causa della complessa e torbida orizzontalità di questi media. In questo intricato panorama, nel quale «non esistono un canone, una poetica dominanti», la poesia si trova al di fuori delle logiche di mercato, ma è ormai priva anche dei propri tradizionali organi di garanzia; da qui deriva il suo status di lateralità e l’ancora incompiuto ripensamento.
3. Verità supposte. Ripensare la storia per ripensare la poesia.
Ritornando alle parole di Villalta nella prefazione all’esordio di Terzago, le riscopriamo anche, più di un decennio prima e quindi in riferimento a una generazione limitrofa, in Alberto Bertoni [2005] quando afferma di aver riscontrato «una sincera propensione al dialogo» nelle opere degli ultimi autori, accompagnata da un forte calo della «passione combattiva» e dal conseguente prolificare di libri di livello medio. Queste opere sono sintomatiche di una fase nuova per la poesia, per quanto non ancora del tutto visualizzabile: «la ricchezza del quadro sta proprio nella sua provvisorietà costitutiva, ora nel marché aux puces ora nella fantasmagoria di stili, lingue, aggregazioni generazionali o simpatetiche, avventure esistenziali, transfert psichici, visioni del mondo, ideologie, accenti, credenze… E dunque, per quanto dichiaratamente parziale e di comodo, a pensarci bene nella segnalazione di un unico libro a persona […] vige un principio democratico non troppo – poi – trascurabile»[27].
Apparentemente, oggi chi legge con consapevolezza la poesia e la ricerca, grazie ad internet, ai social e le nuove piattaforme di comunicazione, ha tutti gli strumenti per potersi avvicinare agli autori di cui necessita senza bisogno di mappature, del lavoro di un critico demiurgo: «nel panorama dove l’idea di canone e di genere divengono sempre meno influenti – scrive Maria Borio –, le nuove voci emergono in modo irregolare, come se la catena che aveva connesso generazioni di autori, in accordo o in dissonanza tra loro, fosse andata recisa. Gli autori seguono percorsi sempre più isolati gli uni dagli altri. […] Ci troviamo davanti a campi letterari che ridefiniscono la funzione delle poetiche, dei generi e del canone, la rendono più complessa, e danno un volto nuovo al modo di concepire, sia nell’atto creativo sia nell’atto della divulgazione, le forme della letteratura»[28]. Entro questa prospettiva, il canone, qualora si consideri il rapporto d’uno scrittore e un lettore con «quanto è stato preservato di ciò che è stato scritto», e dimenticandone l’accezione di «elenco di libri per gli studi d’obbligo», potrà essere visto «come identico con la letteraria Arte della Memoria». Più difficile comprendere bene, invece, il significato di valore estetico come risultato di una «lotta tra testi», e quello di canone come «ansia compiuta»[29]. Perciò, se l’antologia è stata per un secolo il luogo del canone e quindi della trasmissione delle tradizioni, da riprendere, rimodulare o da cui scartare in avanti o di lato, ora questa non ha nulla di autorevole se non nel breve istante della pubblicazione, del guardarsi tra compagni, con la speranza della durata nel tempo. L’ansia della fama, l’illusione di questa, dopo il crollo sociale del poeta, il crollo letterario della poesia nella funzione sociale, percorre gran parte dell’esperienza boomer della poesia e del mondo della poesia, in cui l’antologia ha ancora un ruolo distinto perseguibile. Ogni antologia è un’antologia di esclusi, ma è il paradigma ad essere mutato, la consapevolezza della marginalità, della «pura superficie» della poesia, il rumore dell’orizzontalità: «è successo negli ultimi decenni che il Che cos’è la poesia e il Come si analizza un Testo Poetico abbiano assorbito tutta l’attenzione e tutte le energie. Fino al punto che sembra più importante entrare in possesso di un’idea della poesia o di una tecnica di analisi, che mettersi a leggere per il gusto o la curiosità di leggere. Si diffida delle poesie, di per sé assai innocue. E invece sarebbe più prudente diffidare di chi vuole darci ordini su cosa farne e su come usarle, che cosa pensare mentre le leggiamo e come definirne strutture, procedimenti, artifici e funzioni. Ho nominato il grande tema: Tradizione e Innovazione. E’ anche difficile capire se la poesia sia il più tradizionale e conservatore dei generi letterari, il più legato alle sue origini […] O se invece la poesia sia il modo di scrivere più diretto, facile, istintivo, confuso e irragionevole, ma anche epigrafico, telegrafico, incisivo e semplice da ricordare. In tempi di fretta e di velocità, scrivere poesie sembrerebbe la migliore scorciatoia per arrivare a farsi leggere»[30]. Il ritardo di canonizzazione, a partire dagli anni Novanta, ha generato un distoglimento d’attenzione alla trasmissione e perciò una flessione della tradizione, o meglio, una sua esplosione rizomatica: «mantenendo aperti gli estremi e mai identificati i poli, io spero che tutto scorra nel mezzo dei possibili. Anzi, laddove vedo identità (per es. “Identità Lirica”) mi spavento: temo la sclerosi»[31].
Dovremmo forse cominciare a riflettere sul superamento del paradigma generazionale per avvicinarci (come suggerisce Castiglione[32]) alla genealogia, sviluppando una storia della poesia basata sulle filiazioni incrociate, sulle nuove forme di comunità (alla stregua di Agamben) e sulla riformulazione del lavoro critico: una critica del «nonostante»[33]. E dunque dalla figura dell’intellettuale pubblico tradizionale, dalla leadership, oramai obsoleta, al network, «recuperare una dimensione positiva del ruolo degli intellettuali, rispetto alla loro funzione», una prospettiva post-egemonica, «l’intellettuale come forza diffusa, non marginale ma interstiziale, capace di produrre forme di “contagio” orizzontale e di allargamento continuo»[34]. Utile sarà riprendere il complesso di Telemaco[35], quando un’inedita confusione generazionale che surroga ogni possibile conflitto e confonde figli e genitori in una sola melassa indistinta, fa nascere una nuova domanda di padre, assenti gli adulti in grado di esercitare funzioni educative. Telemaco si mette in moto, compie un viaggio sulle orme del padre assente, compie il viaggio dell’ereditare, oltrepassa quell’interruzione che già Fortini prevedeva nelle nuove generazioni, alle quali affidava di proteggere le «verità» conquistate. La distinzione generazionale sarà ancora più chiara, il moto di recupero/ristrutturazione delle nuove generazioni ancora più necessario quando emerge che le «verità» di cui Fortini parla in «E questo è il sonno…» sono dei falsi storici: è ormai largamente noto che l’episodio di Klockov e dei ventotto di Panfilov, la leggendaria resistenza degli eroi non è mai avvenuta. Lo si sapeva fin dalla fine della guerra, quando già nel 1948 Stalin promosse una commissione di indagine per accertare i fatti realmente accaduti; indagine su cui, una volta stabilita la natura non veritiera del racconto, fu poi posto il sigillo di segretezza. Solo nel 2015 le autorità russe hanno sciolto il vincolo, lasciando così che la verità emergesse: «Nel 1994 Fortini non sapeva nulla di tutto ciò; eppure non riusciamo a credere che non potesse immaginare una cosa simile […]. Ironicamente, ora ci chiediamo: caro Fortini, cosa dovremmo proteggere? Dovremmo forse proteggere il vero della Storia, e dichiarare falso questo mito nato e propalato da un regime? O dovremmo accettare il falso della storia, cioè il vero contenuto mitologico e morale di quel verso, a cui lo stesso Fortini si appigliava, evidentemente affidandosi ad una fabula picta di cui nulla sapeva da testimone? Quel verso sembra ora volerci trascinare in una trappola.[…] Dire il vero, per noi, significa escludere qualcosa: significa indicare che qualcos’altro è falso, che non è nel vero. Essere nella verità allora suona, alle nostre orecchie, inesorabilmente come un essere separato: come un essere diviso. Dire il vero è allora facoltà soltanto di alcuni, facoltà diairetica per eccellenza, di chi sceglie, di chi contrappone, di chi conosce la giusta divisione: e quindi scarta, separa, divide. Eppure la poesia che abbiamo letto sembrava indicare un’altra idea di verità. La poesia di Fortini sembrava poterci parlare proprio in quanto aveva costruito uno spazio per noi, in cui noi eravamo apparsi: in quel “ci” eravamo convocati, eravamo chiamati ad essere partecipi, ma non in vista di un nemico comune, e neanche di una verità come possesso. Ci era sembrato di essere accolti, perché la poesia non dava per scontata la nostra presenza, ma proprio ci segnalava e ci dava la possibilità di apparire prima di tutto a noi stessi. Ci è stato chiesto o no, di fermarci? Infine di fronte a quella “nostra verità” eravamo coinvolti proprio perché divenuti responsabili: qualcosa dipendeva da noi, da tutti noi, presenti e assenti, minerali e animali, vivi e morti, falsi e veri. A quell’imperativo dobbiamo rispondere»[36]. Di fronte alla verità di regime di Klockov, come possiamo accogliere l’appello fortiniano? La verità politica come si rapporta alla verità del dato? Di Dio propone una riflessione affascinante, in cui entra la verità della poesia, che potrebbe esserci utile rimeditare.
Intanto, verbalmente si dividono i boomer dai maestri, senza pietà, come è giusto che sia: la frammentazione della trasmissione intergenerazionale, la conseguente incomunicabilità ci porta a prendere atto del fatto che i nati negli anni Ottanta e Novanta hanno creato un solco rispetto alle generazioni precedenti, eppure, paradossalmente, in molti echeggiano la poesia secondo-novecentesca. Ed è la figura del poeta e dell’intellettuale Fortini che si rivela come figura spartiacque fra l’avvicendarsi di diverse tipologie di intellettuali e poeti, anche rispetto a coloro che sono morti successivamente (Giudici, Zanzotto, Luzi, Sanguineti ecc.), i quali presentano, da questo punto di vista, una potenza simbolica minore. Nel frattempo, la nostra stessa generazione, tutta intenta a fare i conti con i padri (e con gli zii), guarda alla slam, alla poesia orale, alla performance, italiana e estera, alla visualità, con uno sguardo da boomer : sarà compito della generazione Z di liberarsi di noi, se non l’ha già fatto.
Note
[1] Dizionario Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/baby-boom/
[2] Dizionario Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/e-taliano_%28Neologismi%29/
[3] Pietro Trifone, Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Roma, Carocci 2006.
[4] Cfr. David Foster Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), Roma, Minimum Fax 1997.
[5] Franco Fortini, I giovani e lo scherno, in Insistenze, Milano, Garzanti 1985.
[6] F. Fortini, Il muro del rischio, in Insistenze, op. cit., p.54.
[7] Davide Mancino, I sessantenni di oggi sono la generazione più ricca, «Il Sole24ore», 5 dicembre 2018.
[8] Lorenzo Di Palma, Gianluca Furnari, Gentile Viviani: due lettere aperte, «Midnight Magazine», 7 luglio 2018.
[9] Sul rapporto tra poesia e saggistica è dedicato il n.21 de «L’Ulisse», Saggi in versi, saggi poetici, ‘lyrical essays’: Forme ibride e innesti nelle scritture contemporanee, anno 2018.
[10] Zygmunt Bauman, Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi, Roma-Bari, Laterza 2011, p. 18.
[11] Taylor Lorenz, “OK Boomer” Marks the End of Friendly Generational Relations. Now it’s war: Gen Z has finally snapped over climate change and financial inequality, in «The New York Times», 29 ottobre 2019.
[12] Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuale e impegno nell’Italia contemporanea, Milano, Mimesis Edizioni 2012, p. 23.
[13] Se si considera la data di pubblicazione del Quaderno. Solo Carlucci e De Santis, entrambi nel dodicesimo Quaderno, sono nati negli anni Settanta, precisamente nel ’76, dunque trentanovenni; tutti gli altri “inquadernati”, dalla dodicesima alla quattordicesima edizione, sono nati entro gli anni Ottanta. Nell’undicesimo Quaderno (2012) abbiamo comunque come più anziani dei trentanovenni (Frungillo e Pinzuti), nati nel ’73; Ulbar la più giovane, dell ’81. Anche nel decimo Quaderno (2010) troviamo come massimo di anzianità una quarantenne, Laura Pugno, nata nel ‘70. Nel nono Quaderno (2007) abbiamo solo Calandrone, nata nel ’64, a superare la soglia dei quaranta.
[14] Gli atti di tale convegno (Milano 29-30 ottobre 1996) sono confluiti in Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio, supplemento a «Letture», LII, maggio, 1997.
[15] Fabio Dei, Pop-politica: le basi culturali del berlusconismo, «Studi culturali», anno VIII, n. 3, dicembre 2011.
[16] Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Milano, Marcos y Marcos 2002, p. 11.
[17] Gian Mario Villalta, Un’inchiesta sulla poesia, in «Versodove», III, 1988.
[18] P. Antonello, op. cit., p.24
[19] Carlo Carboni (a cura di), Élite e classi dirigenti in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2007, p.42.
[20]Cfr. Claudia Crocco, Le antologia di poesia italiana del XXI secolo, in «Le parole e le cose», 13 luglio 2017.
Alcune antologie, solo per citarne alcune, le più note: L’opera comune (Ladolfi, Merlin, 1999), Akusma. Forme della poesia contemporanea (Mesa, 2000), I cercatori d’oro. Sei poeti scelti (Rondoni, 2000), Nuovissima poesia italiana (Cucchi, Riccardi, 2004), La poesia italiana oggi (Manacorda, 2004), Parola plurale (Alfano, Baldacci, Bello Minciacchi, Cortellessa, Manganelli, Scarpa, Zinelli, Zublena, 2005), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (Testa, 2005), La poesia italiana dal 1960 ad oggi (Piccini, 2005), Trent’anni di Novecento: libri italiani di poesia e dintorni (Bertoni, 2005), Poesia contemporanea dal 1980 ad oggi: storia linguistica italiana (Afribo, 2007), Prosa in Prosa (2009), Poeti degli anni Zero (Ostuni, 2011), La generazione entrante: poeti nati negli anni ‘80 (Fantuzzi, 2011), Post ‘900, lirici e narrativi (Fantuzzi, Leardini, 2015), Sulla scia dei piovaschi – Poeti italiani tra due millenni (Tartaglia, Salvioni, 2015), Passione Poesia. Letture di poesia contemporanea (Aglieco, Cannillo, Iacovella, 2016), Velocità della visione. Poeti dopo il Duemila (Corsi, Pellegatta, 2017);
[21] John Guillory, Cultural Capital: The Problem of Literary Canon Formation, Chicago, The University of Chicago Press 1993.
[22] Cesare Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi 1993.
[23] Ugo M. Olivieri (a cura di), Un canone per il terzo millennio. Testi e problemi per lo studio del Novecento tra teoria della letteratura, antropologia e storia, Bruno Mondadori Editore 2001, p. IX.
[24] Gian Mario Villalta, Cartina muta (Esercizi di cartografia), in «Alfabeta2», 20 gennaio 2019.
[25] Francesco Guglieri, Michele Sisto, Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in internet (1999-2009), in «Allegoria», n.61, (gennaio-giugno 2011), pp. 153-174.
[26] Andrea Inglese, Brevissimo trattatello sull’opportunità o meno di certe categorie teoriche e critiche per comprendere, discutere, fare della poesia (???) contemporanea, in «Nazione Indiana», 22 ottobre 2015.
[27] Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni. 1971-2000, Book Editore 2005, p. 6.
[28] Maria Borio, Poetiche e individui, Marsilio 2018, pp. 239-240.
[29] Cfr. Harold Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Abscondita 2014.
[30] H. M Enzensberger. e A Berardinelli., Che noia la poesia: pronto soccorso per lettori stressati, Torino, Einaudi 2006.
[31] Tommaso Di Dio, Lettera a Gianluca D’Andrea, in «Nuova Ciminiera», 26 novembre 2019.
[32] Davide Castiglione, Generazioni, genealogie, influenze: strumenti e proposte, «La balena bianca», 18 luglio 2019.
[33] Guido Guglielmi, Critica del nonostante, Bologna, Edizioni Pendragon 2016.
[34] P. Antonello, op. cit., p.18
[35] Cfr, Massimo Recalcati, 2013.
[36] Tommaso Di Dio, Proteggere le nostre verità. Una lettura di «E questo è il sonno..» di Franco Fortini, in «Siculorum Gymnasium», LXXI, IV, 2018.
[Immagine: Sara Lautman, The Best of Boomer’s Life, «The New Yorker», 19 novembre 2019].
Povero Fortini! Finire frullato in questo minestrone scotto di giovani poeti (tutti doverosamente LPLC) all’arrembaggio!
Interessante l’analisi. Se posso dare il mio contributo – io, che dovrei appartenere alla generazione X – mi pare che l’interpretazione storica debba tenere conto della centralità italiana nella storia occidentale del mondo fino alla fine del Comunismo e della sua assoluta marginalità successivamente. Nel senso che la superpotenza di quel periodo, gli SUA, non ha più avuto interesse alla periferia dell’impero ove era localizzato il più forte partito comunista dell’Europa. La decadenza dalla falsa ricchezza italiana del dopo seconda guerra mondiale è dovuta forse principalmente al fatto che gli SUA se ne sono andati.
Per il resto che dire? Che, in effetti, la produzione poetica è talmente vasta, che la crisi mi pare più della critica che della poesia.
Non so, forse il modo piu’ opportuno e probabilmente universale (o almeno intergenerazionale) e’ restare sui testi, eventualmente ricostruendo da quelli sia i contesti che i paratesti? Nella mia “militanza” circa 1995-2010, da un lato eri automaticamente poeta purche’ anti-berlusconiano; dall’altro eri sicuramente poeta se agivi da rigattiere, mescolando generi e materiali di scarto senza soluzione di continuita’. Inutile rimarcare come oggi, a fine 2020, non si ricordi un testo che sia uno ne’ degli uni, ne’ degli altri. Si e’ persa la memorabilita’, piu’ legata alla scrittura metrica ed alle forme chiuse che all’abbassamento prosastico, e piu’ legata al talento compositivo individuale che al comunitarismo delle intenzioni programmatiche. Un minimo consiglio che mi permetto a beneficio dei piu’ giovani: anche il talento individuale puo’ essere allenato e migliorato, ad esempio partendo dalla traduzione: prendete una poesia famosa in una lingua straniera a voi gradita e provate a renderla come una poesia originale in lingua italiana; nel corpo a corpo con una forma gia’ data e riconosciuta, passando da una traduzione letterale ad una forma mano mano distinta e nuova, sara’ piu’ facile trovare la propria voce, come negli esercizi progressivi di solfeggio che precedono il Conservatorio. Saluti a tutti e buon 2021.