di Flavio Santi

 

[Esce oggi per Industria & Letteratura, nella collana “Poetica” diretta da Gabriel Del Sarto e Niccolò Scaffai, Quanti (truciolature, scie, onde, 1999-2019) di Flavio Santi. Ne riportiamo sei poesie, tratte dalla prima sezione (Chiara) e dalla seconda (Memorie dello schermo di vetro)].

 

da Chiara

Era stato il telefono,

quando la pioggia

era tutta ormai

spaesata tutta, a partire

dalla finestra amara

tra le venette

degli stipiti.

Era stato il telefono,

quando si infilava

come serpe tra

i nostri orecchi.

Era stato questo

uso del verbo

imperfetto.

La corrente

elettrica

passa per

i fili, dici che

ci possa aumentare

il voltaggio d’affetto?

Poi la pioggia

– sillabando –

sdrammatizzò.

Quella stessa.

 

*

 

È passato appena

un secondo, mi

sono imbracciato,

preso per i tacchi

vado meglio al mio

fine. Ma tu

stai ancora dentro,

in questa

nebbiolina mattaiola

dei fumi dei corpi

ancora in sonno,

vedo i tuoi

occhi, occhi a fanale.

Quello posteriore, di bicicletta

si tira la fuga

si dà il segnale,

quando per scherzo

si va via

in velocità e dietro

ci si interroga e si annaspa, dietro

al buio

se non fosse per quel fosforo…

 

*

 

Cara tesoro adesso che posso

adesso che puoi, sigillo le tapparelle

sigilli le tapparelle, che respirino poco, appena un fioco

la quasi luce, la quasi ombra

ci sta addosso

la lucertola passa

io amo fare la muta

in silenzio, serpente,

accanto a te, sul letto acuta.

 

*

 

da Memorie dello schermo di vetro

 

Come stando al citofono

i nubifragi non fanno paura

e l’acqua scola

fra le ringhiere metalliche

e si mescola

alle parole – dentro

al citofono – arrivando

dal fondo suoni di cartone

lacero.

Così arriva

la televisione

a Napoli, nel ’55, a dicembre:

lo comunica il giornale,

San Giuseppe e i buoi.

 

*

 

Rievocazione di battaglie

 

Ma fuori le cicale

scialavano

la quota termica destinata

ed esplodendo

diventavano stelle

e le nuvole erano

la forma della loro sete.

La neve in tivù si ruppe

subito e apparve

la Moana al porno,

evviva dissero.

Il videoregistratore accolse

la cassetta e partì,

lento treno.

Era la giovane lavandaia che invecchia

nella strada,

era lei nel mezzo che sbuffava.

Ma dio mio che

pena non svolta

nel viso assecondato,

che festa mai seria

in quelle rughe fonde

come damigiane,

era la Moana al porno.

Ora la bocca

è piena di vuoto,

la fica occupata

da qualche tarlo.

Era la Moana al porno:

ora è polvere, ossa,

era già tanto magra.

 

*

 

Il tubo catodico rimane acceso

così la compagnia di almeno uno

è salva. La sera è solo sennò.

Lo stipo dei medicinali

odora di troppo fresco.

La rondine ha un ritmo piovasco e

le sue inflessioni le sente attraverso

la zanzariera: illuminata

dalla rarefazione e dalla rete

del tubo catodico. È solo,

sennò. Ma sa

come dormendo le palme

dei piedi rimarranno

scoperte. Poi aspetterà che

la testa funzioni come

una latteria: il caglio offeso

negli scoli di pietra, il vapore

dei pensieri sulle placche ramate,

trame rapprese,

ferme al di là del

setaccio. Ma è solo

un quarto di sogno, il suo.

 

*

 

Dalla confessione dell’attore e terrorista Giusva Fioravanti

 

Non ancora bombe le mie lentiggini.

Non ancora l’Italia del ’77

quell’Italia che si affacciava

dalle antenne TV radiotrasmittenti.

Nessun odore di nafta ma solo

un bel bambino… un fiore…

Tra un formaggino e un grumo di sangue,

soprattutto se il formaggio aveva un nome

come egizio (Ramek!) non distinguevo

e non distinguo, se sono sincero.

Per me fuori è come dentro,

non distinguo, come tutto il resto,

perché mi fa abbastanza

schifo l’insieme. Sparare o

sorridere ha una sola via

come i furgoncini di latta

o le piste delle biglie:

vince in fondo chi lo vuole.

La mia cuccia è così:

frasche, pigiama, una faccia

da capanna solitaria.

M’hanno abituato così

e quando mamma mi chiamava

«Giusva!» rispondevo

con la lingua spruzzando saliva,

aprendo il fuoco.

 

[Immagine: Copertina (foto di Alessio Bongiorni, particolare)].

 

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